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30 agosto 2013 5 30 /08 /agosto /2013 06:00

La "totalità" nel dadaismo

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Tutto è dada, tutto è arte

Alice Zannoni

La presenza della totalità secondo i vettori che contraddistinguono il Gesamtkunstwerk, già individuati nella compenetrazione delle discipline artistiche, nella ricerca di un rapporto diretto arte-vita e nella sollecitazione  polisensoriale, è ravvisabile anche nel movimento dadaista: un fenomeno internazionale, cosmopolita, con molteplici direzioni di sviluppo (spettacolo, teatro, cinema, arti visive) e non costituito da un organigramma compatto e cristallizzato, bensì da un gruppo che, nella propria omogeneità programmatica, preserva l’individualismo del singolo accogliendo sotto la stessa etichetta personalità divergenti accomunate dal disagio per la società contemporanea confluito nel rifiuto del sistema culturale e artistico.

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Partendo dall’assunto “Dada come negazione di tutto" [1] e svolgendolo come un’equazione matematica, “il tutto” risulta essere il termine di riferimento fondamentale per procedere all’affermazione di ciò che è Dada e ciò che non lo è, di ciò che è arte e ciò che ne è escluso: negando il tutto, ugualmente, si conferma il tutto stesso che risulta essere l’indeterminata del ragionamento da cui emerge una totalità onnivora a fondamento del movimento, noto, infatti, proprio per non avere limiti, né artistici, né comportamentali. Sintomatico della “coscienza onnicomprensiva e contraddittoria” il manifesto del 1918 che si presenta nelle vesti di anti-manifesto: “Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure  certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti…scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione:  per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buon senso" [2].

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Tzara continua poi con l’incoerenza fastidiosa ma stimolante a enucleare l’essenza amorfica del Dada: “Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione delle famiglia è Dada; protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: Dada; presa di coscienza di tutti i mezzi repressi fin’ora dal senso pudibondo del comodo compromesso e della buona educazione: Dada; abolizione della logica, balletto degli imponenti della creazione: Dada; di ogni gerarchia di equazione sociale di valori  stabiliti dai servi che bazzicano tra noi: Dada; ogni oggetto, tutti gli oggetti e i sentimenti e il buio, le apparizioni e lo scontro inequivocabile delle linee parallele sono armi per la lotta: Dada; abolizione della memoria: Dada; abolizione del futuro: Dada; abolizione dell’archeologia: Dada; abolizione dei profeti: Dada; fede assoluta irrefutabile in ogni dio che sia prodotto immediato della spontaneità: Dada" [3].

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Un'assurda congettura in cui tutto è Dada! Perciò tutto è arte partendo da un’illogica elucubrazione che nella negazione trova l’unico principio saldo. Alcuni critici considerano il Dadaismo: “Fenomeno capostipite della sensibilità della nostra epoca" [4],  anche se, a questo proposito, i precedenti diretti sono ravvisabili nel futurismo le cui proposte sono state  radicalizzate con intenzione sovversiva:  “Vi è un grande lavoro distruttivo, negativo da compiere. Spazzare, ripulire” [5] proclama Tzara annunciando il distacco definitivo dall’oggetto tradizionale (quadro, scultura) tramite l’abolizione delle nozioni di “Stile” e di “Bello” che determina una situazione di caos anarchico promosso dallo stesso artista incitando alla disubbidienza: “L’artista nuovo si ribella: non dipinge più (riproduzione simbolica e illusionistica) ma crea direttamente con la pietra, il legno, il ferro, lo stagno, macigni, organismi, locomotive che si possono voltare da tutte le parti, secondo il vento limpido della sensazione del momento" [6].

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I presagi dadaisti di un “estetica mondana” anticipano di un quinquennio l’ufficializzazione del manifesto con l’atteggiamento paradossale del "proto-dadaista" [7] Arthur Cravan che accompagna le sue eccentriche imprese [8] con epifaniche dichiarazioni tra cui: Come è vero che sono uno che si diverte, preferisco mille vote di più la fotografia alla pittura che la lettura del ‘Matin’ alla lettura di Racine" [9] sottendendo l’intenzione dell’avventura dadaista di portare l’arte verso la vita nella direzione di una metamorfosi dell’ “Arte [che] ha preso la forma della non arte e viceversa; e l’elemento distintivo tra le cose d’arte e quelle no è diventato un fatto di pura sensibilità, di intelligenza, di emozione" [10]:   ovvero a discrezione delle qualità in assoluto sintomo dello spirito vitale  “bramato” dalle avanguardie del primo Novecento e confermato esplicitamente  nelle intenzioni Dada dall’asserzione di Ball: “Riscriviamo la vita di tutti i giorni" [11].

cravan, Il nesso arte-vita, risolto a favore della: “Vita [che] è ben più interessante” [12] conferisce al dadaismo e in particolare a Tzara il ruolo di: "Primo assoluto predicatore dell’opportunità di divenire a una “morte  dell’arte” [13] a vantaggio della vita”, principio che: “Se applicato con coerenza fino in fondo, può portare alla rinuncia di ogni atto non soltanto ‘artistico’, affidato cioè all’uso di tecniche grafico-pittoriche più o meno tradizionali, ma anche più in genere di ogni pratica ‘estetica’  magari ottenuta con i mezzi nuovi e a quei tempi blasfemi come la fotografia, il ready-made, l’oggetto trovato e i loro vari incroci” [14]. in  un atteggiamento decisamente wagneriano che ascrive la ricerca Dada nella tendenza latente della totalità per il fattore dell’integrazione tra le arti e per la ricerca sinestetica realizzata con la: “Leggerezza di tecniche capaci di stimolare le regioni impalpabili dei sensi e della mente” [15].

1. Spettacolarizzazione delle arti e normalizzazione estetica

1.1 Artistizzazione teatrale

Lo spettacolo è il magma artistico nel quale cercare gli elementi che più caratterizzano la vocazione poetica nella direzione della totalità: l’evento raccoglie l’inclinazione unitaria delle arti, diventando indefinibile secondo i canoni estetici consolidati dalla tradizione: è cabaret Dada e niente altro, è poesia Dada, è teatro Dada, è gestualità Dada in una folle fusione dei generi che conferma la tendenza sovversiva del movimento determinando la tipologia di Gesamtkunstwerk definita da Marquardt: “Diretta negativa [ovvero dell’] opera d’arte totale come distruzione di tutte le singole opere in un'unica anti-opera per conseguire dignità di realtà” [16].
Hugo-Ball-a-colori.jpg"L'evento aleatorio" sancisce anche la nascita ufficiale del movimento il 5 febbraio 1916 al "Cabaret Voltaire" di Zurigo [17] e se per Menna: “Il gesto nomina le cose” [18],  altrettanto, il modo di presentarsi di un nuovo movimento artistico designa la sua inclinazione con valore di dichiarazione programmatica implicita: una sorta di rito battesimale che esibisce pubblicamente l’inedito culto della spettacolarizzazione delle arti e la loro unione per mezzo dell’: “Individuo [che] si fonde nel gruppo […] e dove tutte le forze congiunte si rivelano superiori alla somma delle loro componenti e permettono di togliere tutte le barriere" [19] che frantumate, “Per mezzo di una grande azione sovversiva che instaura la realtà politica - rivoluzionaria" [20], avviano all’invasione estetica dello spazio extra-artistico per  pervenire al contatto diretto con la vita.
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Nella ricerca vitalistica è evidente la ripresa di suggerimenti futuristi [21] si esalta il rumore e il caso, anche se, gli spettacoli dada, imperniati su una precisa organizzazione, si allontanano dall'indisciplinata esibizione italiana, tesa alla "ricostruzione dell’universo", per approfondire soprattutto la compartecipazione simultanea delle arti anticipando la struttura degli happening del secondo dopoguerra in quanto: "Accanto agli elementi verbali, concorreranno allo stesso titolo a definire il carattere di queste manifestazioni anche elementi plastici, visivi, sonori, di danza dando luogo a eccellenti performances fondate, come usano ancora oggi, sulla cooperazione dei più disparati elementi" [22].

gruppo-dadaisti-con-C-line-Arnauld-e-marito.jpgAnche Balzola riconosce l’evento Dada come la prefigurazione dell’happening: esamina la comunicazione teatrale e individua nel cortocircuito linguistico, nell’episodio effimero e nel coinvolgimento del pubblico una ”nuova modalità” di spettacolo che non: “Rappresenta un testo o un’opera totale che cerca una sintesi organica tra il linguaggio verbale, musicale e visivo, [ma che è] la drammaturgia di un evento artistico. Ovvero, l’organizzazione di materiali artistici eterogenei all’interno di una sequenza di azioni teatralizzate" [23].

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Le serate dadaiste sono, dunque, delle performance ante litteram: lo spazio e soprattutto l’azione trasformano la parola in elemento teatrale come testimonia il promotore stesso delle esibizioni: "Il nostro cabaret è un gesto. Ogni parola che qui viene detta o cantata, significa per lo meno un fatto: che questo tempo mortificante non è riuscito a imporci rispetto" [24].

De Paz, riferendosi esplicitamente ad: “Un’arte totale di wagneriana memoria”, valuta gli spettacoli al “Cabaret Voltaire” come: “Attività artistica [che] dovette integrare elementi letterali, teatrali, musicali, plastici” e formula una personale interpretazione che esalta il ruolo individuale: “Per dada questa integrazione assunse un carattere particolare. Dell'ideologia dell'arte totale fece un’ideologia dell’uomo totale […] con la creatività polivalente secondo le leggi della spontaneità, della insensatezza, dell’inconscio e del caso" [25] in cui è il singolo che con potere taumaturgico riesce a convogliare le attenzioni anche più remote dello spettatore-uomo collettivo.

È molto importante che lo spettacolo Dada ambisca al coinvolgimento del pubblico, nell’estremo tentativo di farlo diventare esso stesso attore e coautore dell’evento, perché ripropone l’evasione dai confini scenici che caratterizza la prospettiva di ricerca arte-vita: “Obbiettivo primario era provocare il pubblico, condurlo all’esasperazione tramite tutte le declinazioni sceniche dell’assurdo e dell’insulto ‘rincretinirlo’  a furia di continui spiazzamenti  e spingerlo a diventare per complicità o per collera, partecipe all’evento, autore egli stesso, in un anarchica performance collettiva" [26] e quando Pierre Albert Birot, animatore di una delle riviste più importanti della nuova poesia, “Sic”, patrocinata da Apollinaire, fonda nel 1916 il movimento “Nunique” pone la complicità con lo spettatore un principio inviolabile: “Il teatro Nunique deve essere un gran tutto simultaneo, nutrito di tutti i mezzi e di tutte le emozioni capaci di comunicare una vita intensa e inebriante agli spettatori" [27] radicalizzando, nella pratica teatrale, il precetto futurista dello spettatore al centro del quadro.

CV007L'amiral.cherchePoiché Dada simboleggiava: “Il più elementare rapporto con la vita”, [28] si assiste ad una naturale trasformazione dello spettacolo che, dallo spazio ufficiale del cabaret, evolve verso la contaminazione artistica del comportamento quotidiano per conquistare l’uomo comune, la massa, realizzando la “normalizzazione estetica” che, nella confusione tra sketch e realtà, cerca la vita per “desublimare l’arte” secondo il presupposto che è insufficiente “Sputare sull’altare dell’arte”  [29] per sostituirvi comunque altra arte ritenendo, invece, necessario minare le fondamenta del sistema stesso, distruggere l’ara sacrale anche a costo di un anomala ma necessaria offesa del consolidato ordinamento culturale come le parole Barilli precisano: “Chi si assume il compito di manifestare, di portare a epifania questi aspetti della superficie estetica del mondo anche senza indossare gli abiti inamidati dell’arte fa la stessa opera di rottura e di provocazione come dimostrano abbondantemente le reazione del pubblico”  [30].

Condividendo l’articolazione dicotomica di Barilli che, nell’opposizione "polarità implosiva v/s polarità  esplosiva", individua la struttura generale del sistema delle arti, sostengo che il Dadaismo, per le sue caratteristiche ontologiche, corrisponda alla categoria deflagrante che: "Dall’ambito delle pratiche letterarie porta a quelle visive, oppure a quelle sonore e musicali, o infine all’attività dello spettacolo e della performance, quando il discorso è affidato alla pienezza del gesto, della fonazione acustica della mimica e così via" [31]Dada, infatti, come confermano le parole di Pignotti, opera sul piano: "Dell’autonomia del segno linguistico dai canoni della comunicazione tradizionale, senza mai perdere di vista la comunicazione stessa, cioè il nuovo tipo di rapporto che si deve instaurare  tra l’opera e il suo destinatario: una concezione dell’arte come azione e della parola come gesto che darà luogo al fenomeno indicato come teatralizzazione della poesia” [32] che cattura l’interesse del pubblico non limitandosi più alla lettura della poesia ma inserendo progressivamente variazioni nel tono della voce, del timbro e dell’intensità per giungere al canto accompagnato da travestimenti paradossali: "Indossavo un costume speciale disegnato da me e Janco […]” Il pubblico si spazientisce, si mette a rumoreggiar e da segni di disattenzione. Ball si sente in una posizione particolarmente goffa e ridicola. È immobilizzato nel suo scafandro e per di più da un momento all’altro rischia di cadere in preda ad un attacco di riso. E’ a quel punto che, per trovare la forza i resistere, decide di concentrarsi mentalmente solo sui suoni che gli escono dalla bocca, ed è così che, inaspettatamente, notò che la sua voce finiva per prendere “la cadenza antica di un salmo ecclesiastico, dei canti liturgici che vengono comunemente praticati in tutte le chiese Cattoliche sia dell’Ovest che dell’Est” [33].

Il racconto di Ball focalizza l’aspetto di contemplazione passiva, opposto all’azione sovversiva, che porta a concepire il movimento come: "Il ritorno ad una religione dell’indifferenza, di tipo quasi buddista” [34] che, rifacendosi ad un mantra ancestrale, utilizza la modulazione della voce come pratica introspettiva di cui anche Huelsenbeck e Tzara si servono per dare vita a "Preghiere Fantastiche" e "Poesie simultanee" che: "Attraverso la fonazione  [attivano] tutto l’apparato muscolare [impedendo] che l’atto stesso del parlare si riduca ad esigue proporzioni mentali” [35] ottenendo una percezione sensoriale amplificata, tramite un ricco repertorio di gesticolazioni, movimenti,  abiti e maschere, che coinvolge tutto il corpo e permette di annoverare l’attività dadaista nella ricerca del Gesamtkunstwerk secondo lo specifico orientamento della sinestesia.

L’attenzione al corpo non riguarda unicamente la dimensione fisico-materiale della danza come espressione dinamico-lirica del moto ma, tramite la scuola di ballo ufficiale di Laban che studia la segmentazione del movimento, attraverso l’uso di abiti cilindrici [36] e maschere sul ritmo cadenzato della musica negra, il corpo diventa un mezzo per arrivare ad un'altra dimensione disinibendo la massa fisica, liberando l’individuo a dagli schemi sociali prestabiliti e raggiungendo una carica vitalistica allo stato puro, indicata giustamente da Alinovi come una sorta di trance che la descrizione di Ball conferma: "Noi eravamo tutti lì quando Janco arrivò con le maschere, e ognuno ne afferrò una. L’effetto era strano. Non solo ciascuna maschera sembrava esigere il costume appropriato, ma sembrava richiedere anche uno specifico sistema di gesti, enfatici o addirittura vicini alla pazzia. Il dinamismo delle maschere era irresistibile…Le maschere chiedevano semplicemente che chi le indossava, intraprendesse una danza tragico assurda” [37].

Le parole dell’artista non esimono il loro valore nella focalizzazione di un momento decisivo del movimento, ma si rivelano una fonte per l’ermeneutica della maschera in ambito Dada: appellandomi all’uso dell’aggettivo “strano”, non riferito all’oggetto [38] ma, attribuito alla sensazione prodotta dall’atto di indossare la maschera come se possedesse intrinsecamente qualità magiche, vorrei sottolineare la sua  funzionalità disinibitoria indispensabile alla liberazione del corpo e al ritorno allo stato primordiale dell’attore e del pubblico che per essere coinvolto deve uscire dal proprio: "Mutismo abituale, abbandonandosi alla gioia della propria spontaneità” [39] protetto e giustificato, comunque, dal travestimento come diaframma tra l’essere e l’apparire.

La rottura della complicità tra Ball e Tzara e l’affiorare di dissapori porta all’inevitabile interruzione delle serate al Cabaret Voltaire di Zurigo (l’ultima il 14 luglio 1916); l’evento, che può sembrare sfavorevole, in realtà, si dimostra essere un episodio molto importante per la diffusione del Dada che, ancora carico di potenza poietica, trova in alcuni centri della Germania la possibilità proseguire la ricerca approfondendo specifici orientamenti.

Berlino, con la presenza di  Huelsenbeck, vede la fondazione di un “Club Dada” [40] a cui sono iscritti Baader, Grosz [41], Heartfield, Herzefelde, Hannah Höch che, prima configurandosi sul lascito del dada svizzero, trova la propria vocazione nella contestazione politica.

A Colonia il gruppo Dada, nato dall’incontro tra Ernst, Baargeld e Arp, consegue riconoscimento ufficiale con la mostra del 1919 al “Kunstverein”, nota per aver esposto, accanto ad opere di grandi artisti, disegni infantili e di malati mentali annunciando la linea direttrice di un percorso artistico  sovversivo che trova la più compiuta realizzazione con la mostra alla “Birreria Winter” nell’aprile-maggio 1920 quando, obbligando il pubblico ad un metaforico percorso che inizia negando l’ufficialità dell’entrata principale e lasciando come unico canale di accesso il retro maleodorante dei gabinetti, si costringe lo spettatore a subire asfissianti esalazioni, come segno di una repressione culturale che soffoca l’individuo impedendo la libera espressione e si propone la simbolica autonomia con la distruzione del sistema per mezzo di un’ascia a disposizione del pubblico in sala cui era "consigliato" l’uso per fare a pezzi  le opere presenti.

Il Dada di Hannover si identifica con la figura di Schwitters, artista che più di ogni altro accolto l’endiadi arte-vita forgiando una personalissima visione di totalità.

1.2 Linguaggio: “In principio era il Verbo…”

Merita un approfondimento l’analisi del linguaggio partendo dalla concezione dadaista di lingua come equivalente della materia, "Ogni cosa ha la sua parola ma la parola è diventata una cosa stessa” [42], afferma Ball, che induce a plasmare la  scrittura alla stregua del corpo plastico e che nell’oralità della lingua parlata individua l’analogo del sonoro da modulare e orchestrare.

La configurazione della parola come oggetto subisce la manipolazione analoga a quella delle coeve sperimentazioni artistiche: si può presentare sotto nuove vesti (poetica dello straniamento), si può prelevare, decontestualizzare (poetica del ready-made) e riutilizzare attribuendole un nuovo significato con la propensione a poeticizzare il repertorio di scarto del linguaggio quotidiano per ottenere vocaboli irriconoscibili, senza forma, sillabe, suffissi, desinenze, lettere assommate alla rinfusa senza nessun nesso logico secondo una struttura caotica che si sviluppa in due direzioni opposte individuate metaforicamente da  Francesca Alinovi [43] nella polarizzazione tra il caos infernale di una Babele linguistica e una lingua paradisiaca fatta di suoni semplici.

Lo stesso nome del movimento Dadaismo, "Non significa nulla” [44], è composto da due sillabe, “Da - Da” [45] la cui fonia, che ricorda il gemito del neonato, marca simbolicamente lo statuto del movimento in direzione del ritorno a una primigenia natura umana attraverso la distruzione delle convenzioni sociali e l’eliminazione delle strutture che falsano l’essere contemporaneo; il senso profondo della ricerca è rimarcato nel 1951, 35 anni dopo la prima serata ufficiale da Tzara: "Dada nacque dallo spirito di rivolta, che è comune alle adolescenze di tutte le epoche e che esige la completa adesione dell'individuo ai bisogni della sua natura più profonda, senza riguardi per la storia, per la logica o per la morale. Onore, patria, morale, famiglia, arte, religione, libertà, fraternità, tutto quel che vi pare: altrettanti concetti che corrispondono agli umani bisogni, dei quali non resta null'altro che scheletriche convenzioni, private ormai del loro significato primitivo” [46].

L’indagine relativa alla concezione della totalità nel Dada non ha a disposizione la ricchezza teorica del Futurismo che aveva fatto della stesura programmatica il fulcro dello sviluppo poetico; il dadaismo necessita di un  approccio diverso in quanto le dichiarazioni esplicite [47] sono esigue e per ricostruire le vicende del movimento bisogna scovare i principi poetici nelle descrizioni frammentarie, nelle azioni e soprattutto nella riflessione globale delle opere che implicitamente sottende un significato molto più ampio di quello apparente: un criterio di analisi che si avvicina allo sguardo del mataldetector in grado di riconoscere la presenza di elementi non visibili celati sotto apparenze esteriori, indizi nascosti, tracce latenti e pericolose che trovano analogia con il paragone di Tzara: "Dada è un microbo vergine che si insinua con l’insistenza dell’aria in tutti gli spazi che la ragione non è riuscita a colmare di parole e di convenzioni” [48].

Il manifesto del signor Antipirina [49], per esempio, nella veste di rappresentazione teatrale, ha la duplice valenza di implicita dichiarazione poetica perché compaiono parole inventate, sillabe astratte dal puro valore fonetico-musicale “Diin, Dzin, Bobobo…”, frasi estrapolate da slogan pubblicitari e modi di dire sdoganati da legami logici e sintattici presentando un modo di agire sulle parole che diverrà convenzione tra i dadaisti, una “langue” che approfondendo le “parole in libertà” e i suoni onomatopeici dei futuristi, aspira ad un rapporto assoluto  con il reale.

In Il manifesto sull’amore debole e l’amore amaro [50], invece, Tzara dà suggerimenti espliciti sul modo di fare poesia e la tangenza al “Gesamtkunstwerk” è da ricavare:

 

Prendete un giornale

Prendete delle forbici.

Scegliete in questo giornale un articolo della lunghezza che

Contate di dare alla vostra poesia.

Ritagliate l’articolo

E mettetelo in un sacchetto.

Agitate delicatamente.

Tirate fuori un ritaglio dietro l’altro nell’ordine in cui

Sono usciti dal sacchetto.

Copiate coscienziosamente.

La poesia vi assomiglierà.

Ed eccovi scrittore infinitamente originale

E di affascinante sensibilità,

Benché incompreso dal volgo” [51].

 

Le indicazioni comunicano un preciso atteggiamento che sconvolge la modalità di composizione lirica usuale a favore di un immediato contatto con il quotidiano per mezzo del prelievo di frammenti di realtà, un procedimento analogo alla tecnica del fotomontaggio e del collage, definito da Pignotti: “Il primo tra i recuperi operati dalle avanguardie artistiche dal serbatoio delle tecniche povere” [52], trovando l’impulso per creare un’anti-opera legata all'ordinario nell'umiliazione dell’arte “alta” e confermando l’ipotesi della “normalizzazione estetica” come elemento poetico strutturale del Dadaismo.

Il percorso artistico di Hugo Ball è teso verso un linguaggio capace di esprimere la purezza originaria penetrando nello stato primordiale di ogni individuo per ritrovare le energie dissipate nel corso della civilizzazione; l’enunciazione: “Abbiamo impresso forze ed energia alla parola in modo che ci faccia riscoprire il concetto evangelico di logos come di una magica immagine della totalità” [53] è un’autentica rivelazione per l’indagine che questa tesi sta affrontando, in particolare emerge una sfaccettatura della tendenza alla totalità che Alinovi ha magistralmente sintetizzato: “Risalire alle origini significa infatti, cogliere l’essenza del logos, il mistero per cui il Verbo si congiunge alla carne, partendo per così dire dalla carne per attingere il momento in cui il corpo fa tutt’uno con la parola e vive e pulsa emettendo gemiti, rumori, suoni, grida. […] Ball fa propria l’intuizione fondamentale della poesia come canto, lamento, respiro, emissioni labiali e gutturali, grido perché, nelle sue performances, tutto il corpo partecipa alla dizione poetica. Ball intuisce per primo, benché in maniera ancora confusa, che il corpo umano stesso con tutti i suoi rumori, è già poesia, prima ancora che intervenga la parola” [54].

Il corpo inteso come poesia è un concetto che presuppone una profonda analisi e conoscenza introspettiva dello statuto umano, la soppressione della parola come mezzo di espressione avviene solo con la consapevolezza che il moto e la mimica facciale sono correlativi al linguaggio parlato di cui condividono l’analoga potenza comunicativa che, sviluppandosi in un indeterminato “territorio di confine” dove la definizione dei generi (danza, teatro, spettacolo) non ha senso, genera il valore aggiunto della ricerca extra-pittorica realizzando, nell’auspicio wagneriano.

Che legoismo delle arti venga vinto dal loro comunismo [55]”, l’opera d’arte totale nel profilo della fusione delle categorie artistiche e nella prospettiva di ricerca sinestetica poiché il corpo attiva la globalità dei canali sensoriali.

L’intenzione regressiva di Ball cerca l’originalità primigenia nella “Poesia Elementare”, per liberare l’individuo dalle costruzioni socio-comportamentali e recuperare la naturalezza spontanea smarrita nell’eteroglossia contemporanea, a sostegno di una comunicazione immediata e comprensibile specifica dell’arcaismo prebabelico e di un tempo ancora più remoto in cui l’intervento del logos non è più necessario: Io leggo versi che si propongono niente di meno che: rinunciare alla lingua. Lascio semplicemente cadere i suoni. Emergono parole, spalle di parole. Au, oi. U. Non bisogna che nascano molte parole. Un verso è l’occasione di cavarsela possibilmente senza parole e senza lingua” [56]: un ritorno al passato ancestrale dell’uomo per mezzo della fonazione, che è stata in primis la forma di un’esistenza compiuta ed è tutt’ora il primo sintomo vitale del neonato, in una ricerca che Barilli puntualizza: “Noi veniamo dal freddo, da condizioni antropologiche in cui il medium di base era quello […] della parola parlata: tipico strumento freddo, anzi prototipo in tal senso, in quanto portato a consentire un globale esercizio sin-estetico; l suono conciliato all’udito (nel così detto circuito orale-aurale), appoggiato al gestire in una pur embrionale performances” [57].

Esemplificano i principi teoretici a favore dell’antilingua [58] le “poesie Fonetiche” (Lautgedichte ovvero “versi senza parole”) che palesano l’avversione per la parola compiuta e che esprimono la loro assiologia non per una formalità estetica compiuta ma per il valore intrinseco del suono:

“Gadji beri bimba glandridi laula lonni cadori Gadjiama gramma berinda bimbala glandri galassassa laulitolomini” [59]

Oppure: Ambula take solunkola tabla tokta tokta takabla” [60], sono versi che hanno abolito lo stile magniloquente della “Poesia” a favore di un apparente non senso logico determinato dalla frantumazione della parola in sillabe la cui vera natura espressiva è trasmessa dalla declamazione in suoni: Fluidi come lamenti sussurrati come respiri, levitanti come il canto degli uccelli, sibilanti come il vento, aerei come i misteriosi segnali emessi da popolazioni extraterrestri. Quale ricchezza sconfinata rispetto al miserabile repertorio di suoni ammessi dal vocabolario” [61].

La destrutturazione anarchica della comunicazione e il rifiuto del sistema culturale sono coordinati verso: “La spinta extra-artistica, [che] corrisponde alle tendenze per così dir radicali o selvagge o primarie volte a creare le installazioni elementari caratteristiche degli stadi antropologici arcaici” [62]nell’espressione poetica di Tzara che, nell’ordine:

GRIDARE!, GRIDARE” [63]

impone un’oralità brutale sollecitando l’istinto animalesco come forma di emancipazione corporea dal surplus di sovrastrutture innaturali che vincolano l’uomo contemporaneo ad un approccio artificiale con lo di scopo  fargli riassaporare il piacere di un’umanità autentica per mezzo dell’estasi, ovvero: “L’uscir fuori e andare a raggiungere la presenza del mondo o l’ambiente” [64]. reale e non fittizio, primordiale e perciò innocente grazie alla trance diacronica. Anche Huelsenbeck, che individua le origini della poesia fonetica nel componimento Kikakoku ekoralaps, scritto nel 1897 dal poeta Paul Scheerbart, trova collocazione in questo ambito della ricerca Dada, in particolare, con le “Preghiere Fantastiche” marca l’importanza della intonazione attribuendo alla modulazione, al timbro e al ritmo della voce il valore espressivo della poesia ribadendo l’idea di Tzara, Il pensiero si forma in bocca” [65], che esprime la concezione del cavo come punto fisico che media tra l’essere e la sua necessità antropologica.

L’artista tedesco stila una classificazione delle sperimentazioni utile a valutare la ricchezza di applicazione dei principi poetici in ambito Dada:

1) “Poesia Statica”: concepita da Tzara come poema di natura ottico-visiva, esalta il silenzio, anticipando la concezione di Cage di suono silenzioso e costringendo la parola: “Ad una faticosa convivenza con tutti i possibili elementi prossemici e cinetici” [66].

Hugnet fornisce una descrizione dell’evento: “Il poema statico era fatto di sedie sulle quali erano posati dei cartelli con una parola scritta sopra e che venivano spostati, a ogni calar di sipario, invertendone l’ordine delle parole” [67].

2) “Poesia Simultanea”: opposta della precedente, si basa sul frastuono linguistico e sulle sovrapposizioni di voci che leggono più testi con: L’intenzione […] di stimolare una percezione simultanea di suoni, voci, rumori il tutto svincolato dai tradizionali rapporti logici di significato” [68].

Ideata da Tzara, trova la massima realizzazione nella sonorizzazione scenica de L’amiral cherche une maison a louer [69]: “Opera contrappuntisica nella quale tre o più voci cantano, fischiano, ecc., contemporaneamente e, precisamente, in modo che le loro combinazioni costituiscono il contenuto elegiaco, buffo o bislacco della cosa. In questo tipo di poesia simultanea il lato bizzarro di un essere è spinto drasticamente a venire alla luce e, insieme la necessità di avere un accompagnamento” [70].

Questo tipo di poema influenza direttamente la trascrizione sonora sulla pagina, che  considerata come uno spartito musicale, visualizza la simultaneità vocale con l’uso alternato di una grafica particolare avviando la sperimentazione tipografica.

3) “Poesia Brutistica” o “Rumoristica”: elaborata da Ball utilizzando suoni e ritmi negri per il recupero di una primordialità e corporeità che i popoli africani avevano esaltato.

4) “Poesia Ginnica”: la stessa denominazione esalta la dinamicità del corpo e la sua forza comunicativa anticipando le performances.

5)  “Concerto di vocali”: sono declamate le vocali.

1.3 Tipografia creativa

Il valore fonetico attribuito alla declamazione poetico-teatrale sollecita la ricerca di una grafica che accordi l’impostazione ottica della pagina all'effetto sonoro della recitazione attivando un corto circuito tra percezione visiva e senso acustico che annovera la tipografia Dada, per la specifica pertinenza alla stimolazione polisensoriale, nel dominio del Gesamtkunstwerk.

La prima poesia teatralizzata, Karawane scritta da Ball, dopo la stesura del manifesto nel ’16, è un’opera priva di contenuto semantico, l’ordine delle parole non segue una logica paratattica ma un accostamento casuale che produce un non-senso, voluto, in realtà, per oltrepassare la soglia della superficie apparente degli eventi e avviare l’introspezione diacronica: nella pagina questa precisa indicazione è trascritta con caratteri di diversi spessori, grandezza e colore accostati senza ordine in un’anarchia dispositiva che esprime il principio poetico Dada del rifiuto della convenzionalità.

Sulla scia del testamento futurista la struttura della pagina gutemberghiana [71] cede a favore di una libera espansione policentrica e discontinua dello spazio che, scardinando la lettura monocentrica e lineare dell’età moderna, determina la crisi della comunicazione occidentale e il progressivo spostamento verso il polo mediatico definito, dal sociologo canadese McLuhan, freddo: la pagina non corrisponde più alla “griglia-contenitore” omologa allo schema della prospettiva rinascimentale ma diventa uno spazio dinamico, da partecipare attivamente con la complicità dello spettatore che deve essere sollecitato sensorialmente per mezzo di media: “Che procurano uno sviluppo armonico e globale della superficie mediale di contatto, in modo che alle nostre facoltà sensoriali sia consentito un esercizio fondamentalmente sin-estetico” [72].

Una progressione in senso sinestetico avviene con Hausmann che dalla poesia onomatopeica evolve verso un’analisi sonora con i “Poemi Otto-Fonetici”, poesie che hanno valore per il loro aspetto fonetico ma che, ugualmente, trovano un correlativo oggettivo nella trascrizione visuale per mezzo di una scrittura che viola il  rispetto della parola scomponendo le lettere, isolandole le une dalle altre e decretando la loro indipendenza con colori diversi, accostando caratteri con grandezze disomogenee, e con tipologie grafiche di periodi storici differenti stravolgendo l’equilibrio visuale della pagina convenzionale.

Le prime sperimentazioni tipografiche nel Novecento trovano origine nel pensiero futurista [73] ma è il Dadaismo che radicalizza i postulati del movimento italiano verso la ricerca della: “Rappresentazione e della percezione in un processo che scardina l’ordine visivo preesistente”, dichiarando, nel n° 3 della rivista “Dada”, la consapevolezza dell’uso creativo della tipografia in un epoca dal dominio incontrastato dai mass media e determinando, nel ruolo attivo della tipografia, “Il problema dell’innesto tra mente e media” [74] colto nell'esatta valutazione della possibilità espressiva e comunicativa offerta dalla: “Creatività grafica e linguistica non […] come fine della propria ricerca, [come fu per i futuristi], ma come mezzo per una presa di contatto più immediata con il loro pubblico, […] nell’ambito di una sperimentazione che non lascia spazio alla demagogia” [75] e che incita Il poeta [a] mescolarsi agli altri uomini in quanto la poesia non risiede soltanto nelle parole; essa è nell’azione, nella vita stessa” [76] calcando l’utopia wagneriana del dramma come: “Arte umana” [77] e di un’opera d’arte del futuro come: Immediato atto vitale” [78] Se “In principio era il verbo” [79] Dada estremizza anche il ritorno alle origini negando il valore della parola per: Lasciar morire la lingua” [80] e se per il linguista Giorgio Fano:  “Si può pensare, senza adoperare neppure mentalmente delle parole fonetiche” [81] perché lo sviluppo del pensiero non richiede l’uso di parole “parlate” ma “E’ comunque indispensabile l’uso del  segno espressivo” [82], Dada nega anche il valore del segno con l’estrema provocazione di Man Ray che nel 1924 crea un  “non-testo”, Lautgedight, privo di parole anticipando concettualmente le cancellature di Isgrò.

1.4 Antropofoto-grafia

La fotografia dadaista, nella particolare concezione dall'artista americano Man Ray, si distingue per un particolare uso del mezzo meccanico conforme alla tendenza del Gesamtkuntwerk nell'integrazione delle arti e nel rapporto arte-vita.

La macchina fotografica  perde lo statuto proprio di ogni mezzo meccanico, inerte e passivo, per appropriarsi della carica energica della vita: concepito come un corpo organico, lo strumento diventa attivo e dinamico grazie alla sensibilità e intelligenza della nuova configurazione che libera la fotografia dall’immobilità concettuale che la tratteneva in un dominio estetico limitato per aprire possibilità espressive illimitate; anticipando la tesi di Marra secondo cui tra arte e fotografia non ci deve essere una preminenza concettuale (“un combattimento” [83]) che pone le discipline su fronti opposti, Man Ray proclama la fotografia come una tecnica tra le altre: “Una delle accuse principali rivoltemi in seguito dai sostenitori della fotografia pura fu quello di aver confuso la pittura con la fotografia. Verissimo, replicai, ero un pittore” [84] continua: Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti e come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri, che erano ingegneri, musicisti, e poeti nello stesso tempo” [85] oppure: Non credo che un mezzo di espressione sia migliore di un altro e non credo negli specialisti che fanno una cosa sola nella vita. Bisogna fare mille cose nella vita” [86].

Sfuggire alla specializzazione significa avere una pretesa totalizzante nei confronti del reale per mezzo di un approccio interdisciplinare che Man Ray giudica come ambizione assoluta: Forse lo scopo finale a cui l’artista aspira è la confusione o unione di tutte le arti, così come le cose si confondono nella vita reale” [87] affermazione che induce Alinovi a interpretare una precisa volontà di: Figura totale dell’artista al di là della specializzazione meccanica del lavoro” [88].

Nell’ambito di questa precisa presa di posizione che esalta la compenetrazione delle arti, credo non sia casuale l’interesse di Man Ray per il cinema: tecnica affine alla fotografia, il  “cinèpoeme” (“cinepoesia”)  è indicato come il mezzo più indicativo della contemporaneità per la sua peculiare caratteristica di raccordare in un'unica espressione audiovisiva la definizione del tempo e dello spazio e perché, contraddicendo la specificità di genere, favorisce la fusione a cui Man Ray aspira: Come tutti i compagni dadaisti, era profondamente convinto della necessità di fondere assieme le diverse arti come conseguenza del punto estremo di consapevolezza raggiunto nei confronti delle proprietà inalienabili di ciascuna di esse” [89].

Il rapporto arte-vita nella ricerca fotografica può sembrare scontato: ogni scatto è una presa sul mondo, la macchina organicamente simula la vista perciò ogni porzione di realtà colta dall'obbiettivo entra nel dominio estetico. Man Ray sovverte il “noema” della fotografia dissimulando  l’equazione dei due termini e dimostrando che la peculiarità della fotografia non è assoluta registrazione fenomenica. La sperimentazione, che apparentemente si allontana dall'endiadi arte-vita, in realtà si avvicina alla totalità con una finezza concettuale sorprendente quando Man Ray, rifiutando l’istantanea, insiste sul valore della dimensione temporale: le fotografie sottoposte a tempi lunghissimi acquistano il valore aggiunto delle emozioni, delle reazioni psicologiche e affettive che, catturate dalla prolungata esposizione, non solo il sintomo di una ricerca vitalistica, ma l’indice di una tangenza all’opera d’arte totale nonostante Man Ray non abbia mai dichiarato esplicitamente la sua ricerca nelle intenzioni del Gesamtkunstwerk.

1.5 Conclusioni

Contaminazione tra i generi e  spettacolarizzazione delle arti” si sono  imposte nella ricerca dadaista come i principi totalizzanti assoluti, in un rapporto con lo spettatore inteso come massa, che realizzano  il sogno utopico di Wagner di:  “Arte umana” [90] con la quale: L’egoista diventa comunista, l’uno tutti, l’uomo Dio, i generi artistici l’arte tout court [nella] libera comunità degli artisti […] alla quale in definitiva appartengono tutti gli uomini, il popolo” [91]; la premessa ottocentesca trova analogia con la definizione di “normalizzazione estetica” di Barilli, ovvero: Capillarmente estesa e posta alla portata di tutti democraticamente, e non soltanto degli ambienti d’avanguardia e d’elite [e che porta alla] morte dell’arte nel significato di un’arte nobile, difficile, selettiva” [92], nozione che focalizza il vettore della contemporaneità verso la vita a cui il Dada, con la sua natura sovversiva e iconoclasta, ha dato un impulso determinante e che le parole di Tzara del 1957 confermano: Dada ha tentato non tanto di distruggere l'arte e la letteratura, quanto l'idea che se ne aveva. Ridurre le loro frontiere rigide, abbassare le altezze immaginarie, rimetterle alle dipendenze dell'uomo, alla sua mercé, umiliare l'arte e la poesia, significa assegnare loro un posto subordinato al supremo movimento che non si misura che in termini di vita” [93].

 

Alice Zannoni
 
 
[A cura di Massimo Cardellini]

© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia

 

NOTE

 
[1] Negazione dell’arte: “Nel suo significato più ampio e completo, ivi compresi i gesti abituali, gli eventi naturali, i comportamenti quotidiani, gli oggetti di uso comune”, Spatola A. in Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma,  Editoriale l’Espresso,  p. 71.
[2] Tzara T., 3 dicembre 1918, Manifesto Dada, pubblicato nella rivista "Dada", in Posani G., 1990,  Manifesti del dadaismo e Lampisterie Einaudi, Torino. Reperibile su sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html.
[3] Ibidem.
[4] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 5.
[5] Tzara T., 3 dicembre 1918, Manifesto Dada, pubblicato nella rivista “Dada”, in Posani G., 1990,  Manifesti del dadaismo e Lampisterie Einaudi, Torino. Reperibile sul sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html.
[6] Ibidem.
[7] Definizione attribuita da Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 24.
[8] Da ricordare l’incontro di pugilato disputato il 23 aprile 1916 a Madrid in cui sfida il campione Jack Johnson che al primo colpo lo mette a k.o.; oppure quando si presenta completamente ubriaco all’inaugurazione della mostra degli Indipendenti di New York. La precoce morte nel 1918 non ha impedito che il lascito testamentale delle sue esperienze andasse perso: estetizzazione comportamentale e  negazione della componente intellettuale dell’arte in nuce sono state raccolte e sviluppate da molti dadaisti, in particolare da Grosz e Schwitters.
[9] Il quotidiano nelle intenzioni dadaiste, pur restando l’affascinante e imprevedibile luogo dell’apertura fenomenica, andava capillarmente artisticizzato, andava caricato e vivacizzato esteticamente tanto da farlo divenire un continuo e sorprendente spettacolo” in Marra C., 1999, Fotografia e pittura nel novecento. Una storia senza combattimento, Milano, B. Mondadori Editore, p. 49.
[10] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna. Pag. 5.
[11] Ball H. alle prime serate dadaiste del 1916 riportato in Schwarz A., 1976,  Almanacco Dada, Milano, Feltrinelli, p. 580.
[12] Barilli R., 2002, L’arte contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze,  Feltrinelli Editore, Milano, p. 199.
[13] Nella  specifica interpretazione di Barilli: “Morte dell’arte significa scomparsa di un arte alta, nobile, difficile, selettiva e vantaggio di un estetica diffusa e capillare, ovvero appunto normalizzata”, in Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna,  Milano, Bompiani Editore, p. 110.
[14] Barilli R., 2002,  L’arte contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze,  Feltrinelli Editore, Milano, p. 199.
[15] Ibidem.
[16] Marquardt O., 1994, Opera d’arte totale e sistema dell’identità. Riflessioni a partire dalla critica di Hegel a Schelling in Estetica e anastetica. Considerazioni filosofiche, Bologna, Il Mulino, p. 205.
[17]La nascita ufficiale del Dada è sancita con una performance al “Cabaret Voltaire” di Zurigo di Hugo Ball (con Arp, Huelsenbeck, Tzara e Janco) in cui si canta, balla, suona e si recitano poesie in cui vige la sola regola del caso e dell’improvvisazione  secondo il modello del music-hall.
[18] Menna F., 2001, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Giulio Einaudi Editori, Torino, p. 44.
[19] De Paz A., Avanguardie storiche e dintorni,  dispensa del corso “Metodologia della critica delle arti” Anno Accademico 2003-2004, p. 92.
[20] Ibidem p. 207.
[21] Insistendo sulla primigenia vocazione del futurismo vorrei menzionare un fatto apparentemente irrilevante ma che testimonia il rapporto esistente tra i due movimenti: nel 1916 Tzara fa un viaggio a Roma dove incontra Prampolini e la colonia futurista romana che aveva già consolidato la pratica esibizionistica con serate ed eventi teatrali. In Calvesi M., 1975, Il futurismo. La fusione dell’arte nella vita, Milano, Fratelli Fabbri Editori, p. 134.Inoltre non si può tralasciare il contatto diretto tra i due “ismi” per mezzo di una lunga corrispondenza tra Ball e Marinetti indice di una stima reciproca confermata dalla pubblicazione del poema Dune nella rivista a numero unico “Cabaret Voltaire”. La condivisione degli stessi principi non significa, comunque, una reiterazione coincidente, avviene, anzi,  una sorta di ripetizione differente che allontana concettualmente i due movimenti: i futuristi mirano a una sintesi dinamica dei linguaggi che trova nel testo i veicolo privilegiato, i dadaisti, invece,  sono interessati all’accostamento casuale, ludico e spontaneo; i primi sono intenzionati a rivoluzionare il teatro mentre i secondi puntano all’azzeramento paradossale (non alla trasformazione) dell’evento artistico sganciandosi anche dal teatro come luogo ideale di accoglienza dei diversi linguaggi artistici.
[22] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 14.
[23] Balzola A.,  Monteverdi A., 2004, Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche elle arti del nuovo millennio, Milano, Garzanti, p. 45.
[24] Ball H. in www.girodivite.it/antenati/xx2sec/dadaismo.htm
[25] De Paz A., Avanguardie storiche e dintorni, dispensa del corso di “Metodologia della critica delle arti”, Anno Accademico 2003-2004, p. 94.
[26] Balzola A., Monteverdi A., 2004,  Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche elle arti del nuovo millennio, Milano, Garzanti, p. 45.
[27] Albert-Birot P.,  A popos d‘un thèatre Ninuque in “Sic” n° 8, 9, 10, citazione in Balzola A., Monteverdi A., 2004, Le arti multimediali digitali. Storia, tecniche, linguaggi, etiche ed estetiche elle arti del nuovo millennio, Milano, Garzanti, p. 47.
[28] Huelsenbeck R.,  aprile 1918,  Primo manifesto Dada in lingua tedescatraduzione italiana curata da Schwarz A., 1976, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano.
[29] Marinetti, F.T., 11 maggio 1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista, Milano, Direzione del Movimento Futurista. Il monito futurista, che nel 1912 aveva scandalizzato l’opinione pubblica, nella rilettura dadaista non appare poi così sovversivo: Marinetti disprezza la produzione artistica precedente alla propria rivoluzione non il sistema e non disdegna, in realtà, l’altare dell’arte su cui egli stesso “troneggia” distinguendosi per il grado di eccezionalità che lo separava proprio dalla meta dada: la conquista dell’uomo comune.
[30] Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna,, Miolano, Bompiani Editore.
[31] Ibidem, p. 18 dell’introduzione.
[32] Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 71.
[33] Ball H., in Henkin Melzer, 1973, The Dada Actor and Performances Theory, traduzione di Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 17.
[34] Tzara T., in Barilli R., 2002,. L’arte contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze, Feltrinelli  Editore, Milano, p. 199.
[35] Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Bompiani Editore, p. 39.
[36] La circolazione di idee e di fermenti dei primi quindici anni del Novecento influenza le vicende del Dada che, non immune dalla contaminazione culturale,  fagocita e rielabora i caratteri consolidati per avviare la  poetica della negazione. In questo specifico frangente della trattazione vorrei sottolineare, una indubbia consonanza tra gli “abiti cilindrici” e i manichini di Leger che, motivati nella  ricerca dell’aspetto meccanico, hanno una somiglianza non solo apparente nella forma esteriore ma anche concettuale in quanto l’artista francese dichiara a proposito dell’assenza di naso, occhi, bocca dei suoi volti: “L’espressione è sempre stata un elemento troppo sentimentale per me…” confermando un’analogia con la funzione della maschere che nasconde la propria identità e annulla il sentimento anche se poi esplicitamente dichiara “L’arte negra nel momento in cui era di gran moda non mi ha colpito. Le sue forme tormentate erano troppo distanti da me”, in Vallier D., 1990, Dentro l’arte, Torino, Edizioni il Quadrante, pp. 49-51.
Evidente è anche una somiglianza con la ricerca di Depero che ha fatto dei suoi manichini il simbolo della “meccanica-umana” futurista.
[37] Ball H., in Melzer A.,  Dada Performance at Cabaret Voltaire cit. pag. 85 in Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 19.
[38] L’uso della maschera “strana”, “esotica” in ambito estetico è già stato assimilato dalla cultura europea con Gauguin prima  e in seguito con  il cubismo.
[39] De Paz A., Avanguardie storiche e dintorni, dispensa corso del “Metodologia della critica delle arti”, Anno Accademico 2003-2004, p. 92.
[40] La vocazione Dada nella capitale tedesca è conclamata dalla fondazione del “Club Dada” anche se una predisposizione alla teatralizzazione era stata anticipata dai fratelli Heartfield che nel settembre del ’16 organizzarono una serata di poesia alla “Galleria Neumann”.
[41] Grosz era conosciuto per uno spirito ortodosso e imprevedibile che utilizzava per criticare la borghesia e la militanza bellica accompagnata da una pungente satira che lo vedeva a favore del KPD (il partito comunista tedesco) per esempio il suo spirito goliardico lo vede spedire al fronte pacchetti che contenevano un intera parure per serate di gala;  si spacciava per un commerciante olandese fautore della guerra giustificandola con motivazioni del tutto assurde; frequentava il Cafè des Westens, ritrovo di bohemiens poveri e malnutriti sfoggiando un abbigliamento impeccabile; accoglieva gli ospiti in casa vestito da cameriere per disorientarli.
[42] Ball H., 14 luglio 1916, Manifesto Dada, letto la prima volta nella sala “Waag”, traduzione in Schwarz A., 1976, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano, pp. 53, 54.
Reperibile anche sul sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html
[43] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 125.
[44] Tzara T., 3 dicembre 1918, Manifesto Dada, pubblicato nella rivista “Dada”, in Posani G., 1990,  Manifesti del dadaismo e Lampisterie Einaudi, Torino. Reperibile sul sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html
[45] La “tradizione” narra la scelta delle sillabe affidata alla pura casualità di un tagliacarte che scorre tra le pagine di un vocabolario; secondo alcuni, invece, la preferenza “Da-Da” è dovuta all’assonanza con il linguaggio infantile, per altri la soluzione sta nella traduzione romena “si si”,  mentre una ulteriore interpretazione vede il collegamento con i fonemi dell’africa nera.
[46] Tzara T., in www.girodivite.it/antenati/xx2sec/dadaismo.htm
[47]Per tentare la definizione dei punti più importanti è utile la conoscenza del il diario di Ball Die Flucht aus der Zeit (Fuga dal tempo), pubblicato dalla moglie nel 1927, traduzione inglese 1974, Flight Out of Time. A Dada diary, New York. Chronique Zurichoise di Tzara T. 1915-19 traduzione inglese in Motherwell 1951, The Dada Painters and Poets, Wittenborn Schulz,  New York. Huelsenbeck R., 1920, En Avant Dada. Eine Geschichte des Dadaismus, traduzione inglese in Motherwell, 1951, The Dada Painters and Poets, Wittenborn Schulz, New York.
[48] Barilli R., 2002, L’arte contemporanea. Da Cezanne alle ultime tendenze,  Feltrinelli  Editore,  Milano, p. 199.
[49] Tzara T., 14 luglio 1916, Il manifesto del signor Antipirina, letto al “Waag”, traduzione italiana a cura di Posani G., 1990,  Manifesti del Dadaismo e Lampisterie, Einaudi, Torino, pp. 3, 4.
[50] Letto il 12 dicembre 1920 alla “Galerie Povolozky” di Parigi e pubblicato sul n° 4 della rivista “Le vie de lettres” nel 1921.
[51] Tzara T., 1920, Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, pag. 28, in Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 128.
[52] Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 99.
[53] Ball H. Die Flucht aus der Zeit, in Forte L., 1976, La poesia dadaista tedesca, Einaudi, Torino, p. 78.
[54] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 128.
[55] Wagner R., 1849, L’arte e la rivoluzione e altri scritti politici, 1973, a cura di Mangini M., Rimini, Guaraldi.
[56] Ball H., 14 luglio 1916, Manifesto Dada, letto la prima volta nella sala “Waag”, traduzione in Schwarz A., 1976, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano. Reperibile sul sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html.
[57] Barilli R., 1974,  Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Bompiani Editore, p. 60.
[58] “Perché l’albero non può chiamarsi plulpusc, e pluplash quando ha piovuto? E perchè deve comunque chiamarsi qualcosa? Dobbiamo appendere la nostra bocca dappertutto?”, Ball H., 14 luglio 1916, Manifesto Dada, letto la prima volta nella sala “Waag”, traduzione in Schwarz A., 1976, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano. Reperibile sul sito:
www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html
[59] Sono i primi due versi della poesia fonetica più famosa  Gadji beri bimba di Hans Ball letta nel 1916.
[60] Ball H.,  Totenklage: è una poesia che si avvicina al lamento funebre, composta da parole completamente inventate la cui comprensione si fonda esclusivamente sul coinvolgimento emotivo dello spettatore.
[61] Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 130.
[62] Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Bompiani Editore, p. 16 dell’introduzione.
[63] Tzara T., 3 dicembre 1918, Manifesto Dada, pubblicato nella rivista “Dada”, in Posani G., 1990,  Manifesti del dadaismo e Lampisterie, Einaudi, Torino, pp. 5-14.
Reperibile sul sito: www.isikeynes.it/ipertesti/arte_cinema/manifestodada.html
[64] Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Bompiani Editore, p. 8.
[65] Tzara T., 12 dicembre 1920,  Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, letto alla “Galerie Povolozky” e pubblicato sul n° 4 della rivista “La vie de letters”, p. 25.
[66] Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 72.
[67] Ibidem.
[68] Ibidem.
[69] E una lunga poesia recitata da Tzara con Janco e Huelsenbeck il 31 marzo 1916.
[70] Ball H. in Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 72.
[71] Caratteristici dell’età moderna, la segmentazione dell’esperienza, la successione seriale, l’omogeneità, la ripetibilità sono fattori di approccio alla realtà determinati della stampa di Gutemberg che McLuhan classifica come mezzo caldo: sollecita un unico canale sensoriale, la vista ed è costituito da segni ad alta definizione, le lettere dell’alfabeto scandite nettamente e combinabili infinitamente.
[72] Barilli R., 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano,  Bompiani Editore, p. 59.
[73] L’innovazione della pagina futurista annunciata ne La pittura futurista-manifesto tecnico (Boccioni U., Carrà C., Russolo L., Balla G., Severini G.,  11 aprile 1910 pubblicato nel 1914 in  Manifesti del Futurismo  Ed. Lacerba, Firenze) è diffusa attraverso la conoscenza mediata di Apollinaire che ne L’antitradition futurista, manifeste synthèse (apparso in “Lacerba” n° 18 del 15 settembre 1913) si ispira alle nuove forme di comunicazione istantanee dei mass media (radio e telegrafo) inneggiando all’abolizione della punteggiatura per creare una corrente discorsiva fluida.
L’impulso esplicito alla fluidità è un fattore che conduce le ricerche nella sfera della contemporaneità: si decreta la fine dello spazio moderno e della concezione spaziale omogenea, segmentata a favore della continuità e istantaneità.
[74] Taiuti L., 1996, Arte e Media. Avanguardia e comunicazione di massa, Genova, Costa e Nolan, p. 46.
[75] Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p.  73.
[76] De Paz A., Avanguardie storiche e dintorni, dispensa del corso di “Metodologia della critica delle arti”, Anno Accademico 2003-2004, p. 92.
[77] Wagner R., 1848, Opera d’arte dell’avvenire, 1963, Milano, Rizzoli.
[78] Ibidem, p. 46.
[79] Gv, 1-1.
[80] Ball H., in Pignotti L.,  Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 74.
[81] Fano G., 1962, Origine e natura del linguaggio, Einaudi, Torino, p. 345.
[82] Ibidem p. 346.
[83] Marra C., 1999, Fotografia e pittura nel Novecento: una storia senza combattimento, Milano, B. Mondadori.
[84] Schwarz A., 1977, Man Ray. Il rigore dell’immaginazione, Feltrinelli, Milano, p. 284.
[85] Ibidem, p. 5.
[86] Intervista del 1971 riportata nel catalogo della mostra a cura di Fagiolo Dell’Arco M. del 1975, Man Ray l’occhio e il suo doppio, Palazzo delle Esposizioni, Roma.
[87]Schwarz A., 1977, Man Ray. Il rigore dell’immaginazione, Feltrinelli, Milano, p. 5.
[88] Alinovi F., 1980,  Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p.164.
[89] Ibidem.
[90] Wagner R., 1848, Opera d’arte dell’avvenire, 1963, Milano, Rizzoli.
[91] Ibidem.
[92] Barilli R.,, 1974, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Nuovi saggi Bompiani.[93] Tzara T., in www.girodivite.it/antenati/xx2sec/dadaismo.htm.
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15 novembre 2011 2 15 /11 /novembre /2011 16:47

R. rO. S. E. Sel. A. Vy

 


 

Rrose Selavy, 1921, Man RayMarcel Duchamp come Rrose Sélavy, suo alter ego femminile,

in una celebre foto di Man ray.

 

 

 

 

 

 

 

Topologia di Marcel

 


4a. Ricetta per Bottiglie

 

Leggiamo in una nota della Scatola Verde:

 

E al contrario: L'asse verticale considerato isolatamente ruotante su se stesso, per esempio una generatrice ad angolo retto determinerà sempre un cerchio in tutti e due i casi: 1° girando nella direzione A; 2°, direzione B.

 

Dunque, se era ancora possibile, nel caso di asse verticale in riposo, considerare 2 direzioni contrarie per la generatrice G, la figura generata, (qualsiasi sia), non può più essere chiamata destra o sinistra dell'asse.

 

A mano a mano che c'è meno differenza da asse ad asse c o d, cioè a mano a mano che tutti gli assi spariscono in grigio di verticalità, il davanti e il dietro, il dritto ed il rovescio prendono un significato circolare: la destra e la sinistra che sono i 4 bracci del davanti e del dietro si riassorbono lungo le verticali.


L'interno e l'esterno (per esteso 4) possono ricevere una simile identificazione, ma l'asse non è più verticale e non ha più l'apparenza unidimensionale.

 

Sebbene la nota sia un po' oscura, e come sempre la sua lettura sia ardua, è possibile ipotizzare un modello interpretativo coerente con le parti principali di questa nota, modello che trova per di più una coerenza anche con alcune fondamentali opere di Duchamp.

 

Cominciamo ad immaginare un semplice rettangolo. Se tracciamo un asse verticale che lo attraversi, rispetto tale asse ha senso distinguere una parte destra ed una parte sinistra della figura. Ora, se siamo in uno spazio 3D, e con un movimento circolare chiudiamo il rettangolo a formare un cilindro (Fig. 33A) non ha più senso parlare di destra o di sinistra rispetto l'asse precedentemente tracciato, perché qualunque punto del cilindro può essere raggiunto sia girando verso destra che verso sinistra.

 

 

33a.jpg

   Figura 33A

 

 


Se vogliamo utilizzare il rettangolo per rappresentare il cilindro nel piano 2D, dobbiamo accordarci sulla semplice convenzione che i due lati verticali del rettangolo rappresentano la stessa linea del cilindro. Così, se noi camminassimo sul rettangolo come se fossimo sul cilindro, quando uscissimo da lato sinistro potremmo continuare rientrando da quello destro, e viceversa, come mostrano le Fig. 33B e 33C.

 


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Figura 33B e 33C.

 


Duchamp applica questa idea nella suggestiva Porta: II, rue Larrey del 1927 (Fig. 34) che quando chiudeva l'ambiente di destra apriva quello di sinistra, e viceversa.


rose34.jpgFig. 34. Porta: II, rue Larrey, 1927.


 

Dunque, con una semplice chiusura circolare passiamo dal rettangolo al cilindro, perdendo così la distinzione fra destra e sinistra. Ora, ripetendo la stessa operazione di chiusura circolare partendo dal cilindro, otteniamo una forma geometrica a ciambella che in topologia si chiama toro (Fig. 35A). Con questa operazione perdiamo anche la distinzione fra alto e basso.


rose36aFigura 35A.


Come prima, se usiamo il rettangolo per rappresentare il toro in uno spazio 2D, dobbiamo accordarci su una seconda semplice convenzione, analoga alla prima: i due lati orizzontali del rettangolo rappresentano una stessa linea circolare del toro, e se camminassimo sul rettangolo come se fossimo sul toro, quando uscissimo dal lato superiore potremmo continuare rientrando da quello inferiore, e viceversa, come mostrano le Fig. 35B e 35C. 

 

35c.gif
35b.gif
 

Figura 35B e 35C.

    

Ed ora, l'ultimo passo. Riferiamoci ancora ad un rettangolo nello spazio 2D, manteniamo le due regole per  l'uscita e il rientro dai lati orizzontali e verticali della figura, e introduciamo una piccola ma importante alterazione della seconda: quando usciamo dal lato superiore possiamo rientrare dal basso, ma scambiando destra e sinistra, e viceversa, (Fig. 36B e 36C).

 

 

36b.gif 36c.gif

Figura 36B e 36C.

 

 

 

È facile verificare che quando passiamo dal cilindro al toro non abbiamo questo scambio fra destra e sinistra. Vediamo in Fig. 35A i bordi del toro prima della chiusura: percorriamo le due circonferenze con lo stesso orientamento (orario o antiorario in entrambi i casi).

 

rose36a.gif

Figura 35A

 


Dunque il toro non si accorda col nuovo scambio della seconda regola. Per ottenere l'effetto desiderato, occorre che il cilindro penetri se stesso (con una autointersezione) prima di chiudersi, come illustrato in Fig. 36A.

 

rose36abis.gifFigura 36A


La nuova strana figura è chiamata Bottiglia di Klein (dal matematico Klein). L'animazione A1 aiuta a visualizzare la formazione della bottiglia a partire da un semplice rettangolo per mezzo di due chiusure circolari simultanee. (En passant: dobbiamo ammettere che la superficie kleiniana sarebbe un ottimo posto su cui disegnare una sega suicida!).


A1.gif

Formazione di una bottiglia di Klein.

 


Questo oggetto ha molte strane proprietà topologiche, fra cui citiamo la più importante per il presente contesto: mentre il toro ha due facce (interna ed esterna) la bottiglia di Klein ha solo una faccia, perché con questa figura noi perdiamo la distinzione fra interno ed esterno, come possiamo facilmente verificare con un piccolo sforzo di immaginazione, con una esplorazione mentale dell'oggetto. L'animazione A2 può servire allo scopo. Tutto ciò si accorda con l'affermazione: "L'interno e l'esterno (per esteso 4) possono ricevere una simile identificazione". Una domanda interessante: il suggerimento di Duchamp ad uno spazio 4D in questa nota ha forse una corrispondenza col fatto noto che in uno spazio 4D potremmo realizzare una bottiglia di Klein senza superfici che si intersecano? La necessità della quarta dimensione per la costruzione della bottiglia di Klein senza aoutopenetrazioni è chiaramente e intuitivamente mostrato in modo non tecnico da Rosen (1997) con alcune importanti implicazioni filosofiche.


A2.gif 

La bottiglia di Klein

 


Infine, possiamo ipotizzare un possibile significato della chiusa della enigmatica nota, riguardo al fatto che l'asse  "non è più verticale e non ha più l'apparenza unidimensionale": se guardiamo agli assi come alle linee lungo le quali chiudiamo due volte il rettangolo (la prima per passare al cilindro, e la seconda per passare alla bottiglia di Klein) non abbiamo più un asse, ma due, e così non abbiamo più unidimensionalità.

 


A3.gif

Anello di Moebius.

 


Infine, possiamo ipotizzare un possibile significato della chiusa della enigmatica nota, riguardo al fatto che l'asse  «non è più verticale e non ha più l'apparenza unidimensionale»: se guardiamo agli assi come alle linee lungo le quali chiudiamo due volte il rettangolo (la prima per passare al cilindro, e la seconda per passare alla bottiglia di Klein) non abbiamo più un asse, ma due, e così non abbiamo più unidimensionalità.

 

 

A4.gif

Anello di Moebius formante una bottiglia di Klein

 

 

 

Nella costruzione di una bottiglia di Klein, ho mostrato che per ottenere il necessario scambio destra-sinistra nella seconda saldatura occorre effettuare una autopenetrazione. Si può tuttavia ottenere un simile scambio tagliando un cilindro e richiudendo la superficie dopo una torsione a 180°, come mostra l'animazione A3.


Se ne origina una figura topologica chiamata Anello di Moebius; questa strana figura ha una singola faccia ed un singolo bordo. Dalla congiunzione di due anelli di Moebius lungo il loro unico bordo, otteniamo una bottiglia di Klein, come l'animazione A4 può aiutare a visualizzare.


Nella realizzazione di Traveller's sculpture del 1918 (Fig. 37), Duchamp sembra utilizzare una tecnica che richiama abbastanza da vicino le operazioni descritte sopra. E' noto che incollò fra loro diverse strisce di gomma colorata irregolari, tagliate da cuffie da bagno. L'oggetto originale è andata perso e quindi occorre riferirsi alle storiche fotografie ed alla descrizione che Duchamp stesso ne fece.Nelle fotografie storiche sembra di intravedere con qualche difficoltà sia autopenetrazioni che torsioni; la descrizione dell'opera che Duchamp fece a Jean Crotti (Effemeridi, 8 luglio 1918) parla di strisce di gomma «incollate assieme, ma non piatte» (corsivo mio); penso che alludesse proprio a qualche torsione (come quella necessaria per l'anello di Moebius) prima dell'incollatura. Dalla stessa fonte apprendiamo che Duchamp considerava la Scultura da viaggio più interessante della pittura Tu m'.


rose_37.jpgFigura 37.


4b. Bottiglia in Arte in Bottiglia



Jean Clair (2000) afferma che Duchamp sicuramente conosceva la bottiglia di Klein e le sue importanti proprietà topologiche, ed indica nella nota precedentemente analizzata un possibile riferimento ad essa. Inoltre ipotizza che l'ampolla dell'Air de Paris del 1919 (Fig. 38) possa riferirsi ad essa (sia iconograficamente che per i problemi che essa pone). Io credo che questa osservazione mantenga la sua validità anche per altre opere di Duchamp.


rose38.jpgFigura 38.


Come primo ulteriore esempio pensiamo al readymade Tirato a lucido del 1915 (Fig. 39), una semplice cappa di camino. Nel disegno del 1964 che ne fece Duchamp, nella parte alta della forma vediamo una curvatura che ricorda quella della ampolla citata; per di più dobbiamo pensare che la cappa di camino serve per aiutare la circolazione convettiva dell'aria fra interno ed esterno.



rose39.jpgFigura 39.


Consideriamo ora la famosa Fontana del 1917 (Fig. 40). A me pare che essa possa essere vista come una sezione trasversale della bottiglia di Klein. Il collo per la connessione col tubo dell'acqua (in primo piano nella fotografia) sarebbe l'equivalente del collo della bottiglia di Klein, che poi rituffandosi nel proprio ventre (qui la parte sezionata) andrebbe a ricongiungersi con i fori di scarico dell'orinatoio (corrispondenti al fondo introflesso della bottiglia di Klein).


rose40.jpg

Figura 40.


Di fatto la doppia funzione come fontana (dispositivo erogatore, orientato all'esterno) e come orinatoio (dispositivo per raccogliere, orientato all'interno) sembra una prima conferma di questa lettura.


Spesso si è affermato che la firma R. Mutt (vale a dire Mutt. R., ovvero Mutt Er) starebbe per Madre (Mutter in tedesco). Ciò annetterebbe nuovo senso all'associazione fra la Fontana e la Bottiglia di Klein. Infatti la Madre è colei che potenzialmente ha nel ventre la sua progenie; il suo grembo, cioè il suo interno, si estroflette esternamente attraverso la sua progenie, che a sua volta contiene progenie al proprio interno, che presto verrà estroflessa…. Nel presente di una donna è contenuto il suo futuro; in questa contemporaneità di presente (interno) e futuro (esterno) che si esprime in una sorta di estroflessione temporale, è possibile cogliere una analogia con le proprietà della bottiglia di Klein.


Se accettiamo questo punto di vista, allora possiamo anche comprendere la criptica nota della Scatola Verde:


Non si ha che: per femmina il pisciatoio e se ne vive.


Queste considerazioni proiettano a loro volta nuovo senso sul ready-made Ritratto di Famiglia. Abbiamo già ricordato che Clair ravvede nella sagoma ritagliata le parvenze della Fontana. Questo confronto è in effetti coerente con le osservazioni fatte sopra. Di fatto la Madre (con l'ultima nata) sta al vertice della composizione. L'esclusione della prole maschile evidenzia la continuità della linea femminile della discendenza. Il maschio è solo un accessorio riproduttivo: il padre è infatti in una posizione periferica. Perché allora la presenza del giovane Marcel in posizione centrale? La teoria della pulsione di Marcel per la sorella potrebbe essere una possibile spiegazione, ma io penso che il ruolo di Marcel sia semplicemente quello di un osservatore.


Infine voglio ricordare che la sagoma della Fontana è talvolta vista come un simbolo del Buddha. Se così fosse, e se volessimo mantenere l'analogia kleiniana, la mia opinione è che non dovremmo pensare all'immagine del Buddha seduto in posizione eretta, ma a quella in cui egli appare completamente ripiegato su se stesso, sprofondato in quella meditazione interiore che dischiude le porte alla contemplazione dell'universo. Nel saggio citato sopra, Rosen suggerisce che "la 'quarta dimensione' necessaria per completare la formazione della bottiglia di Klein implica la dimensione interiore dell'essere umano; non è solo un'altra arena per la riflessione, qualcosa che ci si pone davanti; piuttosto è ripiegata dentro di noi, implicando le profondità preriflessive della nostra soggettività".

Duchamp più volte afferma che tre particolari ready-made sintetizzano il mondo del Grande Vetro, e nella Boite-en-valise (Fig. 41) essi affiancano verticalmente la riproduzione dell'opus maior. Si tratta (procedendo dall'alto) di:  1. Air de Paris, (collocata all'altezza della Sposa), 2. Pieghevole da viaggio del 1916 (la fodera di di una macchina da scrivere Underwood) posto all'altezza dell'orizzonte, in corrispondenza al vestito della Sposa; 3. Fontana, posta all'altezza dell'apparecchio scapolo.


rose41.jpgFigura 41.

 

Non desidero qui fare una nuova esegesi di queste associazioni fra i tre readymades e le corrispondenti parti del grande vetro: personalmente trovo quella di Shearer, 1997, perfettamente convincente. Voglio invece sottolineare che sia alla sommità che alla base di questa colonna di ready-made stanno due oggetti riconducibili alla topologia della bottiglia di Klein (con qualche forzatura anche il ready-made intermedio potrebbe essere ricondotto alle tematiche topologiche degli altri due: infatti la copertura allude ad un ben delimitato spazio interno, che tuttavia, a causa della mancanza del fondo, non ha una ben definita distinzione rispetto all'esterno, proprio come nello strano prisma di Tu m'; inoltre l'oggetto è fatto di gomma, quindi e soggetto alle deformazioni continue della geometria di gomma, come i matematici chiamano la topologia).


Questa circostanza suggerisce di riconsiderare attentamente le immagini della Sposa, la sua storia iconografica (i disegni e i dipinti del 1912, sul soggetto della Vergine e della Sposa), nonché la rappresentazione degli scapoli. In effetti, soprattutto la Sposa (Fig. 42), e particolarmente nel dipinto del 1912, è caratterizzata da una topologia quantomeno ardua. Possiamo osservare un intrico di tubi o vasi, connessi da aste e stantuffi che attraversando diaframmi si riversano in tasche, si gonfiano in ampolle, si estroflettono in sacche, per poi defluire in canali. E' poi interessante notare che nessuna delle parti di questa composizione inizia e termina chiaramente da qualche parte.


rose42.jpgFigura 42.

 

In particolare nella Scatola Verde troviamo uno schizzo, completo di didascalie, che rappresenta l'apparato Vespa (Fig. 43): è una sorta di cono, penetrato da un cilindro che lo percorre internamente ed alla sommità fuoriesce dal cono, pur rimanendone incapsulato in una specie di nicchia.


rose43.jpgFigura 43.



E' difficile vedere in questi intrichi delle strutture che ricalchino alla lettera quella della bottiglia di Klein, ma sicuramente l'ambiguità di questo ibrido fra l'organismo dissezionato ed il motore meccanico suggerisce una topologia contorta senza chiara distinzione fra dentro e fuori, con le sue labirintiche autopenetrazioni ed il suo complesso sistema circuitale. Del resto anche le note che descrivono l'incredibile anatomia della Sposa condividono la stessa caratteristica di labirintica e circolare impenetrabilità (da questo punto di vista possiamo cogliere una sottile continuità fra il dipinto della sposa e la successiva Scultura da viaggio).


Anche nel caso della Sposa, come nei precedenti, l'analogia con la bottiglia di Klein può essere importante nella misura in cui si accorda coi significati comunemente accettati dell'opera o, ancora meglio, se può essere portatrice di nuovo senso. Ora, la contorta topologia della Sposa rispecchia la fondamentale caratteristica di chiusura sua e dell'intero Vetro: sia la Sposa che anche l'apparecchio Scapolo sono macchine autoreferenziali totalmente chiuse su se stesse; i cicli della loro attività sono di fatto drammaticamente rivolti a se stessi, come lo stesso Duchamp esplicitamente avverte in una nota della Scatola Verde:


--Vita lenta --
--Circolo vizioso --
--Onanismo–

Così, lo schema di funzionamento del Grande Vetro è un grande percorso chiuso, un labirintico circuito anulare.

In particolare vi è un aspetto della Sposa, descritto in una nota della Scatola Verde, che esplicitamente ci riconduce alle tematiche della Madre discussi sopra. Duchamp dice: "La Sposa è alla base un motore. Ma prima di essere un motore che trasmette la sua timida potenza -- essa è la potenza-timida stessa."


Qui Duchamp propone nuovamente l'idea della Sposa che è contemporaneamente sia uovo (potenza timida) che veicolo per perpetrare l'eternità dell'uovo (motore che trasmette potenza timida), cioè Madre.


Duchamp ha ribadito più volte anche con diverse parole questo importante concetto, per esempio dicendo che la Sposa è parte del Vetro, ma contemporaneamente è il Vetro stesso. Questa paradossale identità fra parte e tutto (che abbiamo già osservato a proposito della Vespa della Sposa) corrispondente perfettamente alla paradossale identità fra dentro e fuori delle forme kleiniane di Duchamp.

 

 

4c. La macchina autopoietica


Il tema del circolo chiuso autoreferenziale connesso al tema della autocreazione ha senza dubbio suggestive e affascinanti analogie con la macchina autopoietica di Maturana e Varela:


"Una macchina autopoietica è una macchina organizzata (definita come un unità) come una rete di processi di produzione (trasformazione e distruzione) di componenti che produce le componenti che (i) attraverso le loro interazioni e trasformazioni continuamente rigenerano e realizzano la rete di processi (relazioni) che li ha prodotti; e (ii) la costituiscono (la macchina) come una concreta unità nello spazio in cui esse (le componenti) esistono specificando il dominio topologico delle sue realizzazioni come una tale rete" (Maturana e Varela 78-79).

Questa definizione abbastanza difficile necessita almeno di qualche breve spiegazione.


La macchina autopoietica descritta dai due autori, in quanto sistema, è composta di parti (o unità) e relazioni fra le parti. Parti e relazioni costituiscono la struttura del sistema, e sono descritte da un osservatore (un essere umano) che può operare distinzioni e specificare ciò che distingue come unità e relazioni. Egli nota che in tale macchina le parti e le relazioni producono il mantenimento e la continua rigenerazione delle parti e delle reciproche relazioni stesse.


Una macchina autopoietica è caratterizzata da chiusura operazionale: chiusura non significa che il sistema autopoietico sia chiuso (cioè che non abbia scambi di energia e materia con l'esterno) ma che i comportamenti del sistema nell'interazione con l'esterno sono totalmente autoreferenziali; ovvero, la risposta di un sistema agli input esterni dipende esclusivamente dallo stato interno del sistema stesso e non dagli input esterni. Esprimiamo questi fatti dicendo che un sistema autopoietico è strutturalmente determinato. In altre parole un sistema chiuso operazionalmente, risponde a una perturbazione del suo equilibrio riorganizzandosi in modo da porsi in un nuovo possibile stato stabile di coerenza interna, compatibile col proprio mantenimento e col nuovo contesto prodotto dalla perturbazione. Il comportamento di un tale sistema è perciò definito autocomportamento.


Secondo questa teoria, la ricorsiva interazione fra due sistemi fa sì che essi co-evolvano plasticamente rimodellando i propri stati di coerenza interna, in modo da creare un nuovo stato di reciproca coerenza. Questo processo si chiama accoppiamento strutturale.


Nella visione di Maturana e Varela il processo della cognizione è caratterizzato dai medesimi assunti. Varela (1985) ne specifica schematicamente le caratteristiche, mettendo i sistemi autonomi (cioè i sistemi dotati di chiusura operazionale) in opposizione a quelli  eteronomi della concezione tradizionale:


- logica di fondo:  coerenza interna (vs. corrispondenza);
- il tipo di organizzazione: chiusura operazionale ed autocomportamenti (vs. input/output);
- il modo di interazione: produzione di un mondo (vs. interazione istruttiva, rappresentazione). (155)

 

 

Dopo questa presentazione necessariamente breve del concetto di macchina autopoietica, riassumiamo quegli aspetti che sono più interessanti dal punto di vista delle argomentazioni di questo articolo.


Un sistema autopoietico è caratterizzato da alcuni principali ingredienti: autoreferenzialità, ricorsione, chiusura, circolarità, capacità di autocreazione, autorganizzazione, autocomportamenti, autoproduzione di senso. Abbiamo visto sopra che questi ingredienti sono ampiamente diffusi nell'opera di Duchamp, anche se spesso in una forma embrionale. Inoltre consideriamo ora che la bottiglia di Klein, che abbiamo riconosciuto in diverse opere di Duchamp, è talvolta usata per simbolizzare i sistemi autopoietici a causa della sua autopenetrazione circolare: vedi ad esempio Palmer (2000), che ha anche sottolineato come la bottiglia illustra perfettamente quella particolare relazione fra parti e tutto che abbiamo osservato precedentemente.


Così la nozione di sistema autopoietico permette di guardare all'opera di Duchamp ed al Grande Vetro in particolare secondo una prospettiva del tutto inedita: il Grande Vetro ci presenta le parti (o unità) di un sistema estremamente complesso; le note della Scatola Verde prescrivono invece le relazioni fra le parti del Vetro. Il Vetro e la Scatola costituiscono una struttura di un sistema ermeticamente chiuso. L'ermeneuta-osservatore opera una descrizione si questa struttura. La descrizione ha luogo in un contesto di accoppiamento strutturale fra l'ermeneuta stesso ed il sistema Scatola-Vetro.


La cosa interessante in questa interazione è che le parti del sistema osservato sembrano esibire la straordinaria capacità di riorganizzarsi plasticamente in sempre nuovi stati di coerenza interna, proprio come la mente dell'ermeneuta osservatore durante il processo cognitivo della lettura del Grande Vetro. Ciò è probabilmente dovuto alla complessità (non banalità) del sistema Vetro-Scatola.


In altri termini io guardo alla coppia Vetro-Scatola come ad un sistema ermeticamente chiuso ed autoreferenziale, che nell'interazione con l'ermeneuta sembra essere in grado di ricostruire e rimodellare se stesso ricorsivamente, co-evolvendo col mondo dell'ermeneuta; questo reciproco adattamento crea nuovi mondi, cioè produce nuovo senso, nuove ermeneutiche, ed ermeneutiche di ermeneutiche. Mi piace leggere in questa prospettiva le suggestive immagini di Madeleine Gins (2000):


D. drinks M. drinking B.--drinks-toasts.
( …)
Symbols that gaze back at . . . . . . .
Forests of gazing-back symbols—

 

 

[D. beve M. che beve B.—drinks—toasts
(…)
Simboli che guardano fisso indietro a . . . . . . .
Foreste di simboli che guardano fisso indietro--]

La capacità infinita di produzione di senso (che abbiamo già notato in piccolo negli esercizi linguistici dei giochi di parole di Duchamp) è forse la vera grande opera alchemica realizzata con il Grande Vetro.


Nella prospettiva della macchina autopoietica, paradossalmente, proprio la chiusura impenetrabile del complesso sistema Vetro-Scatola può dare conto non solo dell'incredibile numero delle sue ermeneutiche, ma, sorprendentemente, anche del fatto che nessuna di esse può essere esclusa dalle altre, e che tutte, sebbene differenti, sono mutuamente compatibili, perché ciascuna di esse è effettivamente basata su uno dei possibili stati stabili di coerenza interna del sistema.


Analoga osservazione ha fatto anche Clair, quando osservava che nessuna delle ermeneutiche precedenti, da quella di Breton a quella di Schwarz, contraddiceva la sua nuova lettura del Vetro in relazione al romanzo di Pawlowsky Viaggio nel paese della quarta dimensione (103). Questo è indubbiamente uno dei maggiori motivi di fascino del pensiero e dell'opera di Duchamp, enigmatica e non finita, cioè capace di una infinita (auto)produzione di senso.


5. Conclusioni


E' possibile ravvisare nel corso delle vicende artistiche della prima metà del 900 un percorso, non ancora esaurientemente esplorato: quello della graduale emergenza di una nuova sensibilità, di una nuova prospettiva di interpretazione del mondo, di un nuovo paradigma, che scientificamente ha trovato completa espressione nelle cosiddette Scienze della complessità, definitivamente affermate negli anni 70.


Col termine di Scienze della complessità, e seguendo Hedrich (1999), intendo riferirmi


1) alla Teoria dei Sistemi Dinamici (TSD), che descrive e caratterizza il comportamento di sistemi di equazioni differenziali non lineari, e


2) agli ambiti applicativi che ammettono tali modelli matematici come descrizione appropriata.

Hedrich classifica anche questi ambiti applicativi in base alla loro distanza dal nucleo concettuale centrale della TSD:


a) nel primo guscio, immediatamente contiguo al nucleo centrale della TSD, troviamo quei settori delle scienze empiriche che si occupano direttamente dello studio, nei differenti contesti, dei fenomeni dell'instabilità dinamica, del caos deterministico e della dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali;


b) nel guscio successivo troviamo le teorie scientifiche che riguardano modelli astratti di sistemi complessi, come gli automi cellulari, le reti neurali e la geometria frattale;


c) nell'ultimo guscio troviamo infine le teorie che secondo diversi punti di vista si occupano dell'autorganizzazione, come la termodinamica non lineare di Prigogine, la sinergetica di Haken, l'autorganizzazione molecolare di Eigen, l'Autopoiesi di Maturana e Varela.


In precedenti articoli (Giunti 2001a, 2001b) ho precisato il senso di questa ricerca, focalizzando l'attenzione su alcune delle manifestazioni fenomeniche peculiari del comportamento di sistemi complessi; numerosi artisti (con maggiore o minore consapevolezza) condividono una particolare attenzione per queste manifestazioni e tendono ad esprimerle nella loro opera; queste manifestazioni hanno a che fare con concetti quali feedback circolare come meccanismo causale di base, ricorsività, autoreferenzialità, autorganizzazione, frattali, topologie complesse, instabilità dinamica, dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali, caos deterministico.


Questi aspetti sono così intrinsecamente legati l'uno all'altro che quando si manifestano (magari solo a livello embrionale) la presenza di uno implica quasi automaticamente la presenza di molti (o tutti) gli altri.

La comune sensibilità per queste manifestazioni fenomeniche dei sistemi complessi permette di stabilire legami profondi ed inattesi fra artisti che altrimenti sembrerebbero abitare pianeti totalmente differenti, come Duchamp, Klee od Escher.


Per quanto riguarda Duchamp, le mie considerazioni precedenti si sono limitate ai gusci b) e c) della classificazione enunciata sopra. Ciò non significa che non sia possibile stabilire significativi punti di contatto fra il pensiero e l'opera di Duchamp e le teorie scientifiche riferibili al guscio a). E' vero l'esatto contrario: soprattutto le idee di instabilità dinamica e di dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali costituiscono l'aspetto più immediatamente evidente e di fatto il più abbondantemente esplorato (si consideri ad esempio il Simposio di Harvard: Il caso di Duchamp e Poincaré, 1999). In ogni caso, a mio giudizio, un più dettagliato studio sul concetto di caos presso Duchamp sarebbe necessario, perché talvolta è confuso dai commentatori con l'idea di casualità (ovviamente presente in Duchamp) che però è un concetto differente, anche se collegato a quello di caos.


Nel precedente paragrafo ho associato il Grande Vetro (e più in generale l'opera di Duchamp) al concetto di autopoiesi. Si deve considerare tale relazione per il suo giusto significato, cioè, appunto, è una semplice associazione e non assolutamente una identità: non sostengo che l'opera di Duchamp sia una macchina autopoietica; essa tuttavia manifesta caratteristiche le quali possono essere ben descritte attraverso alcuni aspetti della teoria di Maturana e Varela. In particolare voglio sottolineare che questo accostamento non intende porsi come una nuova ermeneutica sostitutiva di qualcuna o tutte le precedenti. Al contrario desidero sostenere che questa prospettiva di lettura fornisce qualche elemento per comprendere l'inesauribile ricchezza delle ermeneutiche possibili e la loro compatibilità reciproca, sia per quelle passate e presenti, sia per quelle che (sono sicuro) si aggiungeranno nel futuro.


Infine, per quanto mi riguarda, la sintesi di come vedo io le cose, è nel titolo di questo articolo:


R.                     come Recursion (Ricorsione);

rO. S. (S. Or.)   come Self Organisation (Autorganizzazione);


E.                     come Eigenbehaviours (Autocomportamenti);

Sel.                  come Self reference (Autoreferenzialità);

A.                     come Autopoiesis (Autopoiesi);

Vy                    come Life (Vita)



Ringraziamenti

 

Desidero esprimere il mio ringraziamento a Gi, mia moglie, per i suoi suggerimenti. Voglio anche ringraziare l'amico Paolo Mazzoldi per la consulenza entomologica e per la supervisione per la correttezza della traduzione. Infine sono grato a Rhonda Roland Shearer e Stephen Jay Gould per aver condiviso importanti informazioni circa i Tre Rammendi Tipo, che mi hanno indotto a modificare alcune affermazioni nel presente articolo.



Nota

Le citazioni delle note della Scatola Verde sono tratte dalla traduzione pubblicata da Maurizio Calvesi in Duchamp Invisibile. (313-348).



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Maturana H. "Biology of language: The Epistemology of Reality." Psychology and Biology of Language and Thought:
Essays in Honor of Eric Lenneberg. Eds. Miller, G. A. and Lenneberg. New York: Academic Press, 1978. 27-63.

Maturana, H. and Varela, F. Autopoiesis and Cognition. Dordrecht, Holland: D. Reidel, 1980.

Palmer, K. Intertwining of Duality and Nonduality. 2000 <http://exo.com/~Epalmer/ISSS2000ab.html>.

Rosen, S. M. Wholeness as the Body of Paradox. 1997 <http://focusing.org/Rosen.html>.

Schwarz, A. La sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche. Torino: Einaudi. 1974.

Shearer, R. R. "Marcel Duchamp's Impossible Bed and Other 'Not' Readymade Objects: A Possible Route of Influence from Art to Science [Part I & II]." Art & Academe, 10: 1 & 2. (Fall 1997 & Fall 1998): 26-62; see also <http://www.marcelduchamp.org/ImpossibleBed/PartI/> and <http://www.marcelduchamp.org /ImpossibleBed/PartII/>.

- - - ."Marcel Duchamp: A Readymade Case for Collecting Objects of Our Cultural Heritage Along with Works of Art." Tout-fait 1.3. Collections (Dec. 2000) <http://www.toutfait.com/issues/issue_3/Collections/rrs/shearer.htm>.

Shearer, R. R. and Gould S. J. "Hidden in Plain Sight: Duchamp's 3 Standard Stoppages, More Truly a ‘Stoppage' (An Invisible Mending) Than We Ever Realized." Tout-fait 1.1. News (Dec. 1999) <http://www.toutfait.com/issues/issue_1/News/stoppages.html>.

Varela, F. "Complessità del vivente e autonomia del cervello." La sfida della complessità. Eds. Bocchi G. and Ceruti M. Milano: Feltrinelli, 1985. 141-157.

 

 

Roberto Giunti




[A cura di Elisa Cardellini]

 

 

LINK al post originale:

R. rO. S. E. Sel. A. Vy 


 


 

LINK alla prima parte di questo saggio:

Roberto Giunti, R. rO. S. E. Sel. A. Vy, 01

 

LINK alla seconda parte di questo saggio:

Roberto Giunti, R. rO. S. E. Sel. A. Vy, 02


 

 

LINK alla rivista di studi on line "Tout-Fait", dedicata interamente a Marcel Duchamp:

Tout-Fait

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5 ottobre 2011 3 05 /10 /ottobre /2011 06:00

R. rO. S. E. Sel. A. Vy

 

 

Rrose Selavy, 1921, Man Ray

Marcel Duchamp, come Rrose Sélavy, suo alter ego femminile,

in una celebre foto di Man Ray 



di Roberto Giunti

 

 

 

 

2. La lingua di Rrose

2a. La nota sulla Lingua nella Scatola Verde


Nelle note della Scatola Verde leggiamo una complessa nota intitolata Lingua. Eccola:  Ricercare delle "Parole prime" ("divisibili" solo per se stesse e per l'unità).

Prendere un dizionario Larousse e copiare tutte le parole dette "astratte", che non abbiano cioè riferimenti concreti. Comporre un segno schematico che designi ognuna di queste parole (questo segno può essere composto con gli arresti-campione). Questi segni devono essere considerati le lettere del nuovo alfabeto. Un raggruppamento di parecchi segni determinerà (Utilizzare i colori – per differenziare ciò che corrisponderebbe in questa (letteratura) a sostantivo, verbo, avverbio, declinazioni, coniugazioni ecc.).


Necessità della continuità ideale cioè: ogni raggruppamento sarà collegato agli altri, da un significato rigoroso (specie di grammatica che non designa più una costruzione pedagogica della frase, ma, tralasciando le differenze delle lingue e i "giri" di frase di ogni lingua, pesi e misure delle astrazioni di sostantivi, di negazioni, dei rapporti da soggetto a verbo ecc. per mezzo dei segni-campione, (rappresentando le nuove relazioni: coniugazioni, declinazioni, plurale e singolare, aggettivazione, inesprimibili nelle forme alfabetiche concrete delle lingue viventi presenti e a venire). Questo alfabeto non conviene che alla scrittura di questo quadro molto probabilmente.


In questa nota Duchamp ipotizza la creazione di una lingua artificiale che deve essere una generalizzazione delle lingue naturali. La logica sottesa alla costruzione della nuova lingua ha due aspetti essenziali intimamente collegati: la ricorsività e l'astrattezza. 
Riguardo al primo aspetto, quello della ricorsività, notiamo che gli elementi atomici della nuova lingua artificiale, cioè i suoi fonemi, sono certe parole, prese dal dizionario di un linguaggio naturale, che Duchamp indica col termine di parole prime (spiegherò la mia ipotesi circa il significato di parole prime nel prossimo paragrafo). Quindi i fonemi della nuova lingua artificiale sono parole (combinazioni di fonemi) di una lingua naturale: fonemi di fonemi, parole di parole. A ognuno dei fonemi del linguaggio artificiale corrisponde un segno grafico, cioè un grafema, composto attraverso segni-campione, che penso siano (almeno in relazione con) i Rammendi (quindi un grafema composto da grafemi).

 

Dunque in sintesi Duchamp ipotizza una lingua artificiale che sia la generalizzazione ricorsiva di una lingua naturale.

Il secondo aspetto, quello dell'astrazione, è riferibile alla focalizzazione sulla sintassi del nuovo linguaggio; infatti Duchamp parla di continuità ideale, significato rigoroso, pesi e misure delle astrazioni di sostantivi, nuove relazioni… mentre la semantica è chiaramente svalutata quando parla dell'assenza di una costruzione pedagogica della frase, dei giri di frase propri ad ogni lingua


Considerando l'applicazione di un metodo ricorsivo e l'aspirazione all'astrazione generalizzante, è possibile vedere una sorta di intuizione di due aspetti che hanno effettivamente caratterizzato la ricerca linguistica nella seconda metà del 900.


Cominciamo dal primo: sappiamo che nelle cosiddette grammatiche generative la frase è costruita attraverso regole grammaticali di tipo ricorsivo, dove ogni simbolo può essere riscritto (cioè sostituito) con altri simboli, che a loro volta possono ricorsivamente contenere lo stesso simbolo riscritto (vedi per maggiori informazioni Ghezzi e Mandrioli, 1989 o il classico Grishman, 1986).


La produzione di una sentenza per mezzo di una tale grammatica è spesso descritta attraverso speciali grafi ad albero in cui ogni riscrittura corrisponde ad una nuova ramificazione. Il semplice esempio che segue è tratto dal classico Chomsky's Universal Grammar. An introduction. Il simbolo iniziale è S (Sentenza); gli altri simboli sono: NS (Sintagma Nominale), VS (Sintagma Verbale), D (Determinante), N (Nome), V (Verbo); le regole grammaticali sono:



S —> NS VS

NS —>D N

VS —>V NS

(dove il simbolo —> sta per "riscrivi con").


Questa grammatica produce semplici sentenze nella forma Soggetto-Predicato-Complemento, come in: "The child drew an elephant" (Cook). Il corrispondente diagramma ad albero è illustrato in Fig. 28.

rose28.gif
Figure 28


 

E' interessante notare che l'unico grafema effettivamente composto da Duchamp con i Rammendi è un grafo ad albero: quello del Reticolo di Rammendi. Fornirò un secondo esempio di simili grammatiche nel prossimo paragrafo, direttamente riferito a Duchamp.


Per quanto riguarda il secondo aspetto, è noto che il progetto di una grammatica universale non è altro che lo sforzo di individuare per generalizzazioni progressive quelle strutture grammaticali astratte comuni a tutti i linguaggi naturali. Maturana (1978) precisa in modo esplicito l'importanza della ricorsività quale elemento universale fondante di ogni linguaggio: Per contro, la grammatica universale di cui parlano i linguisti come insieme di regole soggiacenti comuni a tutti i linguaggi naturali umani può riferirsi solo all'universalità del processo ricorsivo di accoppiamento strutturale che ha luogo fra gli umani nell'applicazione ricorsiva delle componenti di un dominio consensuale senza dominio consensuale (52).


Tornando a Duchamp, la nota sul linguaggio si conclude con una considerazione importante. A cosa può servire questo nuovo linguaggio? Duchamp risponde esplicitamente: è un linguaggio utile a descrivere questo quadro, cioè il Grande Vetro (ricordiamo che le note della Scatola Verde si riferiscono appunto alla progettazione e alla descrizione del Grande Vetro). Perché? Perché questo linguaggio astratto ne condivide la natura di progressiva generalizzazione ricorsiva.


Se tuttavia questo linguaggio è quello utile alla descrizione del Grande Vetro, allora serve anche per scrivere le note stesse della Scatola Verde (che sono parte integrante del Grande Vetro), all'interno delle quali troviamo la stessa nota che descrive proprio il nuovo linguaggio (abbiamo qui un primo esempio di quei cicli autoreferenziali caratteristici di Duchamp di cui parleremo oltre). Infatti notiamo che nelle note della Scatola verde Duchamp usa una sintassi effettivamente strana ed elastica, che non si accorda con le usuali regole sintattiche delle lingue naturali: troviamo verbi transitivi senza complemento, periodi ipotetici in cui sono omesse le conclusi, incisi non risolti, e così via. Così il linguaggio della Scatola Verde è forse una prima approssimazione del nuovo linguaggio, "rappresentando le nuove relazioni: coniugazioni, declinazioni, plurale e singolare, aggettivazione, inesprimibili nelle forme alfabetiche concrete delle lingue viventi presenti e a venire".


2b. Parole prime e autoproduzione


Ora, cerchiamo di chiarire cosa dobbiamo intendere per parole prime. Seguendo un suggerimento di Calvesi io penso che siano emissioni vocali primarie, come la parola Dada, o come le prime articolazioni sillabiche di un bambino, come mama o papa, quando esse ancora non hanno una precisa referenza semantica (parole astratte, dice Duchamp), cioè quando sono ancora solo pure combinazioni di fonemi elementari (135). Così, io penso che parole prime e parole astratte debbano intendersi come sinonimi.


Se le cose stanno così, possiamo intravedere qualche primo esempio di questa lingua nuova: si tratta dei famosi non-senso di Duchamp giocati sulle allitterazioni a cascata. Il più famoso:

 

Esquivons les ecchymoses des Esquimaux aux mots exquis.


Gould Ha analizzato questo gioco di parole nel saggio citato sopra (che per me è stato fonte di ispirazione e divertimento). Si tratta di continue ricombinazioni di alcuni gruppi sillabici principali, che in questo contesto possiamo considerare alla stregua di fonemi. Il fatto che dalla combinazione delle sillabe in parole nasca un non senso, corrisponde esattamente alla programmatica svalutazione dell'aspetto semantico rispetto a quello sintattico. Qui la combinazione sillabica vale esclusivamente per la sua grammatica combinatoria, ma non ha alcuna valenza espressiva, non c'è alcuna costruzione pedagogica della frase, né alcun giro di frase (leggi, come credo: forma idiomatica). Le regole grammaticali per la ricombinazione sillabica sono compendiate nella seguente semplice grammatica (ricorsiva), che può generare il gioco di parole di Duchamp (e infiniti altri non-sense, con la stessa struttura, in un puro grammelot francese): Il simbolo iniziale è P.

Gli altri simboli seguenti (in lettere maiuscole) sono i cosiddetti simboli non terminali (cioè i simboli che devono essere riscritti): W (parola), C (Connettivo), D (Doppia sillaba), S (Sillaba semplice), E (sillaba che inizia in E), K (sillaba Key). Infine, i seguenti (in lettere minuscole) sono i simboli terminali (cioè i simboli che non possono essere riscritti): es, ek, ex, von, mos, mò, mot, key, keys; essi traslitteranola pronuncia delle corrispondenti sillabe francesi.

Il simbolo | sta per "oppure".


P —> W C W

C —> C W C | le | de | o (si noti che questa regola è ricorsiva)

W —> D S | S D

D —> E K

E —> es | ek | ex

K —> key | keys




rose29.gif

Fig. 29 mostra la derivazione del gioco di parole di Duchamp.

 

Gould giustamente evidenzia che il gioco di parole è scritto sulla Rotary Demisphere del 1925 (Fig. 30), un dispositivo ottico che quando ruota genera l'illusione di una spirale che si srotola senza fine verso l'esterno. Questa significativa associazione è molto importante perché mostra come per Duchamp in questo gioco di parole si ha una autoproduzione potenzialmente infinita. Usando la grammatica proposta sopra è facile verificarlo, se ci si contenta non solo di frasi non-sense, ma anche di parole non-sense (ricordiamo che questa grammatica genera sentenze in puro grammelot francese).


rose30.jpg

Figura 30
Marcel Duchamp, Rotary Demisphere, 1925

 



2c. Autoreferenzialità e autoproduzione di senso


I giochi di parole di Duchamp hanno spesso un'altra importante caratteristica: quella dell'autoreferenzialità.
Ecco un primo esempio:



Si la scie scie la scie

et si la scie qui scie la scie

est la scie qui scie la scie

il y a suissscide metallique.


[Se la sega sega la sega

e se la sega che sega la sega

è la sega che sega la sega

allora si ha suicidio metallico]



Ho appreso leggendo le Effemeridi (17 marzo 1960) che fu composto per un'opera d'arte di Jean Tinguely (un happening, diremmo), per la cui la scena era inizialmente progettato un esercito di seghe.

Il gioco di parole non è di quelli memorabili, ma è particolarmente utile per introdurre quello che ci interessa, perché l'immagine della sega che sega se stessa è chiaramente autoreferenziale. Inoltre è presente l'elemento della proliferazione attraverso la ripetizione sillabica (autocostruzione). Infine abbiamo almeno un divertente suiss-scide, con suono quasi identico a suicide, cioè un suicidio di seghe (scie - scide) svizzere (suiss), che Duchamp scrisse probabilmente pensando ad un esercito di seghe che si muovono con perfetto sincronismo (con precisione svizzera) fino ad un inconsapevole ed ottuso suicidio (autodistruzione).


Curiosamente, l'happening di Jean Tinguely ebbe inaspettatamente le stesse caratteristiche del gioco di parole: fu autodistruttivo (e questo era previsto) ma anche autocosrtruttivo (e questo fu  inatteso). Un fantasioso macchinario, fatto di ogni sorta di materiale riciclato, doveva autodistruggersi con un incendio; ad un certo punto, temendo per un guasto imprevisto l'esplosione di un estintore, Tinguely implorava l'intervento del pompiere, il quale invece esitava; quando finalmente il pompiere iniziò le operazioni, rischiò il linciaggio da parte del pubblico che credeva il suo intervento fuori luogo nel contesto dell'happening. Così, nell'interazione fra l'opera e gli spettatori, finì per autogenerarsi un evento comico del tutto inatteso.


Torniamo ora, dopo questa digressione, al tema dell'autoreferenza nei giochi di parole di Duchamp. Egli persegue questo obiettivo con tecniche sottili ed efficaci. Come esempi considererò due giochi verbali riprendendo l'analisi che ne ha fatto Gould, e sviluppando alcune altre considerazioni.


Il primo, piuttosto semplice, è questo:


Cessez le chant

­laissez ce chant


[Cessate il canto

lasciate questo canto]


dove, come ha osservato Gould, con uno scambio delle consonanti iniziali (C e L) fra le prime due parole di ogni riga (verbo e articolo) secondo lo schema


C L

L C


egli provoca un gradevole chiasmo a livello uditivo, e una inversione del senso della frase a livello semantico. Qui desidero sottolineare che ciascuna delle due righe di testo, presa a sé, non ha alcun particolare valore al di là del suo ovvio riferimento semantico; ma nuovo senso è creato dalla congiunzione delle due frasi, a causa dei loro riferimenti interni reciproci: l'effetto del chiasmo e l'effetto di inversione di significati. In altre parole, la congiunzione delle due frasi produce un valore aggiunto che va al di là della pura somma del valore semantico delle due frasi. Dunque nel gioco verbale il tutto è superiore alla somma delle parti, ed il valore aggiunto si genera attraverso dei rimandi interni, cioè questo gioco di parole è autoreferenziale.

Il secondo gioco di parole, più complesso ed affascinante, è bilingue (francese vs. latino):


éffacer FAC

assez AC


[cancella FAI

basta E]


La parola éffacer suona come una contrazione di ef (F) ed éffacer (cancella), e quindi può significare qualcosa come: cancella F; ora, eseguendo l'operazione prescritta dalla prima parola alla parola stessa éffacer (quindi una operazione autoreferenziale) si ottiene acer il cui omofono è assez, cioè si ottiene la seconda parola francese. E qui il tutto si fermerebbe, perché assez significa basta, come dire: è abbastanza, tutto è finito. Qui entra in gioco la parte latina.

Applicando la stessa cancellazione di una F alla prima parola latina, si passa da FAC (fai) ad AC (e). La scrittura è così completata. Notiamo poi che in ciascuna riga la parola latina ha valore semantico opposto a quello della corrispondente parola francese, così da creare un'alternanza di ordini e contrordini che è sottolineato dal passaggio di lingua. Qui viene la parte interessante. L'ultima parola AC (e) implicitamente suggerisce di aggiungere qualcosa; se questo qualcosa fosse proprio la F che prima abbiamo cancellato, ed eseguissimo il comando (come abbiamo fatto per passare dalla prima alla seconda riga), otterremmo: efassez FAC, omofono di effacer FAC; avremmo cioè un ciclico ritorno alla riga di partenza, in un moto periodico infinito.


In questo gioco di parole possiamo vedere, con maggiore evidenza che nel primo, una intrinseca autoreferenza: le 4 parole prese isolatamente hanno scarso significato (giusto i loro diretti riferimenti semantici); ma la trama di relazioni che si autostabilisce fra di esse crea e mette in moto un motore che produce nuovo senso. Più precisamente, la prima delle 4 parole contiene in sé il germe dell'intero meccanismo, e nelle relazioni interne con le altre parti del sistema si autogenera un moto circolare potenzialmente infinito.


Ancora una volta, e con ben maggiore evidenza, l'autoreferenzialità genera organizzazione e quindi nuovo senso.

E' suggestivo pensare che un piccolo gioiello come l'ultimo gioco di parole può condensare in sé una quantità di caratteristiche non solo di molte altre opere di Duchamp, ma addirittura del complesso della sua opera.


In particolare, la tipica idea duchampiana di ricontestualizzare i propri precedenti lavori, come nel caso dei Rammendi, è intrinsecamente autoreferenziale, in quanto Duchamp si riferisce sempre ad un precedente Duchamp.


Nel ciclico e ricorsivo riutilizzo senza fine di idee simili in contesti sempre nuovi, si generano quei salti qualitativi, quelle generalizzazioni, quei valori aggiunti, Bateson direbbe quelle tipizzazioni logiche di livello superiore, che fanno progredire il suo lavoro ed il suo pensiero. Ogni singolo elemento della sua inesauribile attività mentale contiene in nuce, i germi essenziali delle caratteristiche generali; ogni elemento della sua produzione contiene potenzialmente una quantità di informazione sufficiente a ripercorrere.

 

 

3. Il mondo della Vespa


Consideriamo un'altra importante nota dalla Scatola Verde.


Iscrizione dell'alto

Ottenuta con i pistoni di corrente d'aria. (Indicare la maniera di «preparare» questi pistoni). Poi «collocarli» per un certo periodo di tempo, (da 2 a 3 mesi) e permettere che lascino la loro impronta intanto che tre reti attraverso le quali passano gli ordini dell'impiccato femmina (ordini il cui alfabeto e i termini sono regolati dall'orientazione delle 3 reti) (una specie di tripla «griglia» attraverso la quale la via lattea sostiene e conduce i detti ordini).


Poi toglierli in modo che non resti altro che la loro impronta rigida cioè la forma che permette tutte le combinazioni di lettere mandate attraverso la suddetta forma tripla, ordini, autorizzazioni, ecc. che devono andare a raggiungere i tiri e lo spruzzo.


Questa nota contiene per me una quantità di suggestioni, che risuonano così profondamente col mio modo di vedere le cose, che mi è molto difficile tenere distinte le proiezioni della mia immaginazione da ciò che effettivamente la nota presenta. Comunque, considerando il peculiare linguaggio adottato da Duchamp nelle note della Scatola Verde, l'analisi è sempre esposta (credo deliberatamente, da parte di Duchamp) ad un ampio margine di arbitrio interpretativo. 

Venendo allo specifico della nota, cominciamo ad osservare che attraverso le reti passano gli ordini della Sposa: nel sistema del Grande Vetro la Sposa è regina. Uno dei suoi apparati essenziali è chiamato da Duchamp la Vespa, e l'idea di una Vespa-regina mi fa pensare all'organizzazione sociale degli imenotteri (insetti come le api, le formiche o, appunto, le vespe). Al vertice della loro complessa organizzazione sistemica c'è la regina. Essa, oltre ad assolvere all'importante funzione riproduttiva, regola molte funzioni vitali della comunità emettendo varie sostanze chimiche (ad esempio, una nuova sciamatura delle api è indotta quando viene raggiunta una certa concentrazione di un particolare ormone prodotto dalla regina). Di fatto, dal punto di vista di un osservatore esterno al sistema, queste emissioni chimiche possono essere descritte come ordini. 

La Via Lattea rappresentata alla sommità del Vetro ha in effetti le parvenze di una rappresentazione entomologica (come una grossa larva, o come l'addome molle e rigonfio di uova della regina). Ed una innegabile suggestione entomologica emana anche dalla descrizione dell'apparato Vespa, con le sue secrezioni, la materia filamentosa, il meccanismo di ventilazione (proprio come il un alveare). Insomma, la prima suggestione è quella di vedere rappresentata una società di insetti: alla sommità della rappresentazione giace la regina, alla base c'è la macchinosa e complessa laboriosità delle caste subalterne.

 

(Una piccola digressione. Queste considerazioni per così dire entomologiche consentono di fornire un significato aggiuntivo al gioco di parole di Duchamp: A Guest + A Host = A Ghost (Fig. 31), già ampiamente analizzato da Gould. Diverse specie di vespe depongono le loro uova nelle immediate vicinanze di un bruco, o addirittura al suo interno,  precedentemente paralizzato con una puntura; alla schiusa, le larve potranno nutrirsi di carne fresca, avendo la precauzione di banchettare a partire dagli organi non vitali. Nello studio del parassitismo, l'organismo parassitato, qui il bruco, è detto Host; se poi indichiamo poi con Guest la larva parassita, la parola Ghost illustra perfettamente la fine del povero Host).

 


rose-31.jpg

Fig. 31.


Ora, dobbiamo sottolineare un piccolo ma significativo dettaglio. Nel Grande Vetro la Vespa è solo uno degli apparati della Sposa, mentre io ne ho parlato come se fosse la Sposa stessa. Questa identificazione fra una parte (l'apparato della Sposa) e il tutto (la Sposa stessa) è autorizzata da Duchamp stesso, come vedremo meglio oltre, perché è la stessa relazione, apertamente dichiarata da Duchamp, fra la sposa (parte) e il Grande Vetro (tutto): così, l'identificazione tutto-parte (Vetro-Sposa) viene ripetuta (ancora una volta) su scala inferiore (Sposa-Vespa). Inoltre, l'identificazione Sposa-Vespa è coerente col ritratto psichico della sposa stessa fatto da Schwarz. Egli ricorda anche un incubo che ebbe Duchamp mentre terminava il dipinto della Sposa a Monaco: la Sposa divenne un gigantesco insetto che lo torturava atrocemente (147).

 

La seconda suggestione rimanda alle schede perforate delle macchine industriali o di certi organetti musicali che circolavano per le vie delle città in quegli anni: scheda perforata significa ordine codificato; dunque, la regina emana i suoi ordini disponendo particolari combinazioni dei fori delle diverse reti-schede peforate. Le 3 reti sono collocate per 2 o 3 mesi in loco, in modo che possano spontaneamente e plasticamente conformarsi al fluire degli ordini della sposa; si verrà in tal modo a strutturare automaticamente quel codice idoneo a veicolare gli ordini della Sposa; esso sarà basato sul sistema delle mutue posizioni delle tre reti; tale codice rimarrà poi stabilmente impresso nel sistema attraverso la loro impronta.Duchamp prevede quindi una prolungata esposizione delle reti ad eventi stocastici, che finiscono per strutturare e modellare il loro stesso codice. Biologicamente parlando, tutto questo evoca l'idea di un processo di adattamento selettivo in atto. Esattamente come quello che ha condotto all'evoluzione di un efficiente sistema biochimico di autoregolazione di un formicaio, o di un alveare, o infine di un nido di vespe.

 

Un'ultima suggestione che questa nota esercita su di me, strettamente connessa alla precedente, è di tipo matematico, e riguarda il comportamento delle reti neurali. Gurney le definisce così: " Una rete neurale è un assemblaggio di semplici elementi di calcolo, unità o nodi, la cui funzionalità è liberamente ispirata da quella del neurone animale. L'abilità di calcolo della rete è immagazzinata nella forza, o peso,  delle connessioni fra le unità, ottenuta con un processo di adattamento a, o di apprendimento da, un insieme di schemi di addestramento".


 In altre parole, le reti neurali sono formalismi matematici che simulano il connessionismo e l'attività neuronale. Sono costituite da variabili numeriche interconnesse in una struttura a rete, e sono ricorsivamente ricalcolate, in modo da ottimizzare, in un continuo processo per tentativi ed errori, le prestazioni della rete stessa, in base all'obiettivo per cui è stata progettata.

Quindi le reti neurali vengono così a modellarsi, in un processo talvolta molto simile a quello evolutivo, in base all'obiettivo di volta in volta prefissato come scopo. Così, le reti neurali manifestano lo stesso tipo di organizzazione evidenziato nel processo evolutivo. Questo è il modo in attraverso cui le reti neurali apprendono: si tratta di un processo di autorganizzazione interna attraverso cicli ricorsivi.

Innegabilmente, tutto ciò è molto simile a quanto immaginato da Duchamp per le tre reti della Via Lattea.

E' ora necessario precisare che ai tempi di Duchamp non esisteva la biochimica (tantomeno quella applicata allo studio del funzionamento di un alveare); ed è pure scontato che non esistevano le reti neurali (e meno che mai le cosiddette reti multistrato, come dovremmo qualificare quelle di Duchamp); quindi non intendo ipotizzare che Duchamp potesse essere influenzato dalla conoscenza di simili nozioni, né tantomeno che egli intendesse col Grande Vetro creare una metafora di un sistema complesso (come una società di insetti o come una rete neurale). Né intendo infine sostenere che la sua intuizione abbia in qualche modo precorso nello specifico quei risultati scientifici futuri. Più semplicemente, la mia idea è che concetti come quelli di ricorsione, autoreferenzialità, feedback circolare (e così via) sono così strettamente connessi fra loro e al concetto di autorganizzazione che, in un modo o nell'altro, quest'ultimo aspetto doveva trovare il modo di esprimersi, anche se in una forma implicita, come quella evidenziata qui.

 

Un ulteriore chiarimento è necessario. Anche nella realizzazione dei Setacci del Grande Vetro Duchamp progettò un altro sistema stocastico, e realmente lo pose in atto, esponendo il Vetro alla polvere per circa 4 mesi. La celebre foto di un dettaglio del Grande Vetro coperto di polvere, titolata Allevamento di polvere (Fig. 32), eseguita da Man Ray nel 1920, documenta il risultato. Tuttavia questo esempio (per quanto importante) non riguarda l'aspetto dell'autorganizzazione suggerito sopra: qui abbiamo una pura casualità che ciecamente produce un risultato, sicuramente interessante, ma senza una specifica organizzazione; là invece avevamo la stessa casualità che invece produceva organizzazione (la creazione del codice); in altre parole, e parlando in termini di entropia, qui abbiamo un'entropia che aumenta, là avevamo una riduzione.


rose-32.jpg

Fig. 32.

Dust Breeding di Man Ray, 1920.




 

Roberto Giunti



 

[A cura di Elisa Cardellini]


 

 

LINK al saggio originale:

R. rO. S. E. Sel. A. Vy 
 


 

LINK alla prima parte di questo saggio:

Roberto Giunti, R. rO. S. E. Sel. A. Vy

 

 


LINK all'importantissima rivista multilingue on-line Tout Fait dedicato esclusivamente a Duchamp:

 R. rO. S. E. Sel. A. Vy

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21 giugno 2011 2 21 /06 /giugno /2011 15:16

 

 

 

Alcune considerazioni sulla poetica di Marcel Duchamp

 

 

 

di Renzo Principe


einstein1.jpgLa congiunzione tra arte e pensiero scientifico è un elemento fondamentale di tutta la cultura del Novecento che investe non solo l'idea stessa di progresso e modernità, il così detto modernismo, ma cambia radicalmente la collocazione dell'arte all'interno della conoscenza estetica. Da questo punto di vista, le avanguardie artistiche del primo Novecento, rappresentano una elaborazione interna all'arte, alla conoscenza poetica, volta ad integrare le innovazioni scientifiche, filosofiche e tecniche, che andavano prepotentemente trasformando la cultura europea di fine Ottocento. Non si è più certi di poter fondare la realtà su postulati puramente astratti, teorici o metafisici; cade la razionalità cartesiana proprio su quella inconoscibilità della materia (del mondo sensibile e del corpo) così tenacemente espulsa dalla cultura occidentale e, con essa, cade anche tutto il pensiero positivo che aveva fondato le proprie idee sulle certezze del pensiero illuminista. Non solo Einstein, sferra un colpo mortale alla certezza del Logos, ma in questa stessa direzione si ritrovano sul medesimo cammino, la Fenomenologia, le nuove teorie scientifiche e soprattutto le nuove concezioni sul tempo, sullo spazio e sulla relatività di ogni possibile sapere e conoscenza. Tra gli artisti del Novecento che più di ogni altro hanno fondato la propria poetica nella congiunzione tra arte e pensiero, tra arte e speculazione scientifica, ritroviamo Marcel Duchamp.

 

 

duchamp scacchi 1963


marcel-duchamp-nu.descendant.escalier.1912.jpgNon è un caso che le opere di Duchamp del 1911-12-13, come i suoi famosi nudi (Nu descendant un escalier, del 1912 e di proprietà della collezione W. Arensberg), partono proprio da una critica interna al cubismo o, se vogliamo, da una visione non statica della prospettiva cubista. Alla spazialità cubista, pluriprospettica, Duchamp aggiunge la temporalità propria della concezione futurista, il movimento, ma con un interesse del tutto opposto e antitetico a quello dei futuristi. Se per i futuristi il macchinismo è una esaltazione del progresso e della continuità (anche se i futuristi si pongono, in arte, contro la tradizione), per Duchamp, al contrario, rappresenta un regresso. Infatti le "macchine inutili" di Duchamp, come i ready-mades o i giochi di linguaggio e le sue performance, sono congegni che mettono a nudo la strumentalità del pensiero e del linguaggio discorsivo; funzionano secondo logiche non razionali non entrate nell'uso, rompono i rapporti causali tra gli oggetti e gli eventi e ci mettono di fronte a un mondo spazio-temporale diverso da quello che siamo abituati a cogliere, con i nostri sensi, nell'ambito della vita quotidiana. L'opera di Duchamp, quindi, è una denuncia forte del tecnicismo razionale dell'epoca, che sfocia nella distruttività della macchina da guerra messa in opera dalle potenze europee; prefigura un mondo leggero, ironico gioioso e giocoso, un mondo dove l'arte svolge una funzione primaria, che è quella dell'esercizio del pensiero.

 

conrumoresegreto1916Con rumore segreto, 1916, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

perché non starnutirePerché non starnutire, 1921, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Duchamp.-Porte-bouteilles--1914--1964-.jpgScolabottiglie, 1914, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

duchamp--ruota-su-sgabello--1913.jpgRuota su sgabello, 1913, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

duchamp--L.H.O.O.Q.-1919.jpgL.H.O.O.Q., 1919, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

aria di ParigiAria di Parigi, 1919, ready made.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fontana, Duchamp, 1917Fontana, 1916-17, ready made.

 

 

 

 

 

Far pensare e ritrovare nuovi schemi concettuali è la funzione che Duchamp assegna alla sua poetica e che egli stesso definisce poetica dell'indifferenza, del distacco dal mondo degli oggetti precostituiti e strumentali. Ciò che vale, per la sua poetica, è tutto ciò che ha perso il proprio valore referenziale e che può essere reinserito in un nuovo ambito di valori non riconosciuti dalla tradizione. Rompere con la tradizione, non solo in pittura, ma nella vita, è l'opera a cui Duchamp ha maggiormente aspirato. A differenza dei surrealisti, l'inventore dei ready-mades, cerca la leggerezza dell'essere (questo stato in cui le cose si corrispondono e perdono i loro confini stabiliti), non tanto nel mondo enigmatico e sommerso del subconscio, quanto nel gioco, nella sospensione del giudizio e nell'humor. È per questo motivo, che Duchamp cerca nella scienza del suo tempo una nuova dimensione (un non-luogo, si potrebbe dire oggi usando un concetto caro a Marc Augé), in cui collocare le cose del mondo e mostrarle attraverso una specularità, uno specchio, un Grande Vetro, dove si riflette una trasparenza impossibile, un gioco tra presenza e assenza che mostra il vero senso delle cose.

 

rose, 10 Il Grande Vetro, 1915-1923.

 

 

 

 

L'interesse per la Quarta dimensione, che agli inizi del Novecento era esplosa dopo la teoria di Einstein, "ci derivava - scrive Duchamp - dal desiderio di sfuggire la banalità della routine". Duchamp pensa l'arte su una scala più ampia, come qualcosa di totale che coinvolge la totalità dell'agire umano. A tale proposito, supera le idee convenzionali e tradizionali, che sono paradigmaticamente espresse, in pittura, dalla corrente impressionista, ma anche da certe concezioni cubo-futuriste. Il gesto di negazione dadaista di Duchamp, nei confronti dell'arte retinica, è un gesto contro un'idea di arte interamente pensata al servizio dei sensi, al servizio dell'occhio. In questo caso - dice Duchamp - ci troviamo di fronte ad un atteggiamento superficiale dell'arte che tocca solamente la pelle della realtà. Contro l'arte del "cavalletto" egli pensa che il valore artistico debba essere ricercato, non tanto in rapporto ai sensi, quanto piuttosto in rapporto al pensiero, al concetto. Duchamp è l'uomo delle intuizioni geniali e la grandezza della sua opera e della sua esistenza è quella di avere posto come elemento primario della poetica la scelta  dell'artista che concettualizza un mondo che sta dietro al mondo dei fenomeni. Arte dunque come conoscenza superiore della mente; oppure come linguaggio, veicolo e segno comunicativo polisenso, come vita, come esperienza sociale e scientifica. Superata la prima fase di formazione artistica, in cui Duchamp attraversa tutti gli stili e ripercorre tutte le scuole pittoriche del suo tempo (dall'impressionismo al cubismo, dal fauvismo all'influenza di Cézanne), Duchamp mette a punto una nuova concezione circa il valore dell'arte che lo conduce dalle "fredde speculazioni astratte" sulla quarta dimensione alla messa in opera del Grande Vetro (La Mariée mise à nu par ses célibataires, même) 1915-23.

 

Rrose-S-lavy--01.jpgFrech Window, 1920.


Il punto di partenza di tale processo - scrive Artur Schawarz - potrebbe essere l'interesse di Duchamp per le nuove teorie scientifiche che prefigurano uno spazio-temporale a quattro dimensioni dove l'ombra proiettata da una figura quadridimensionale, nel nostro spazio, è una figura tridimensionale. Ciò che noi consideriamo come qualcosa di reale e tridimensionale, in realtà non sarebbe altro che l'ombra, il sigillo direbbe Giordano Bruno, di una realtà più ampia che ci possiamo immaginare solo con l'occhio della mente, mai con i sensi. Questo problema di ordine metafisico risalente a Platone, alla fine dell'Ottocento, è suscettibile di divenire oggetto di analisi di una teoria scientifica. All'intuizione romantica Duchamp sostituisce ciò che è "esteticamente vecchio e soggettivo" con il nuovo e "più obiettivo".


Cosa è il nuovo e più obiettivo?


Non è altro che il disegno meccanico, infatti Duchamp compie uno spostamento dalla pittura al tratto lineare e schematico del disegno meccanico, perché in esso il gusto viene depurato dal tratto essenziale. Duchamp si scaglia contro l'idea di gusto, perché è qualcosa di negativo che non produce una nuova creazione; le idee nuove non vengono tutti i giorni e la maggior parte dei grandi pittori, conformando il proprio stile al gusto dominante, non fanno altro che ripetersi, non fanno altro che ripetere la medesima idea. È così che si forma, in una determinata epoca, una certa concezione del bello che diviene una moda, una consuetudine, una convenzionalità e una tradizione. Rendere il più possibile anonima (meccanica) l'opera d'arte è il primo passaggio che Duchamp compie nella ricerca di uno spazio-tempo nuovo. Non è un caso che egli abbia creato diverse macchine inutili, come la macinatrice di cioccolato, rendendole sempre più rarefatte, cioè viste alla luce di una nuova dimensione, sotto un angolo visuale non umano (disumanizzazione dell'arte dice Ortega y Gasset), che si caricano di ironia e di humor noir.

 

Duchamp-macinatore-cioccolato-1914-3-.jpgLa macinatrice di cioccolato, 1913.

 



In Duchamp è fin da subito presente il senso di annientamento operato dalla tecnologia nei confronti della natura; per questo motivo i ready-mades sono macchine il cui funzionamento è liberato da ogni possibile rapporto con il senso e il significato. Sono congegni a-significativi che si pongono tra senso e non senso e smascherano i meccanismi perversi della modernità. Secondo Duchamp anche il linguaggio è un meccanismo perverso. Noi non possiamo mai comunicare senso attraverso il linguaggio discorsivo, poiché esso è valido, come veicolo di senso, solo se colto nel suo valore poetico. Così la parola, in Duchamp, entra a far parte dell'opera, ma è una parola che inganna, che non corrisponde più a ciò che essa deve rinviare. È una traslazione che pone il senso in uno spazio vuoto infinitamente aperto, al confine tra ciò che si vede e ciò che sta dietro l'immagine. Traslazione che Duchamp compie anche nei confronti dell'oggetto materiale. Quindi il distacco nei confronti dell'oggetto equivale ai giochi di parole creati da Raymond Roussel, da Alfred Jarry o da Brisset, che sono artifici di omofonia attraversati da accostamenti di elementi eterogenei.

 

duchamp, porte 11, rue Larrey1196188595 fPorta aperta e chiusa, 1927.


È a questo che mira la poetica dell'indifferenza: indifferenza per il gusto, per il senso precostituito, per gli oggetti presi nel loro uso comune; è ricerca di nuovi spazi conoscitivi, di nuove tecniche e materiali, di nuovi colori, di nuove leggi, di nuove trasparenze, di nuovi rapporti dove l'immagine del mondo viene ad essere incorporata in una opera d'arte.

 

 

 

 

L'atto creativo non è compiuto esclusivamente dall'artista. Lo spettatore porta l'opera a contatto con il mondo esterno decifrandone e interpretandone le caratteristiche interne, e in questo modo apporta il suo contributo all'atto creativo"

[A cura di Elisa Cardellini]

LINK al post originale:
Alcune considerazioni sulla poetica di Marcel Duchamp


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24 aprile 2011 7 24 /04 /aprile /2011 07:00
L'invisibile attraverso la manipolazione della luce: Man Ray
 

Cinzia Busi Thompson

 

ray-.jpgMan Ray è da considerarsi un'artista multimediale. Il suo mezzo preferito era la pittura, ma ritengo che le sue opere più interessanti siano quelle fotografiche, poiché questo corpus è molto vasto ed estremamente diversificato sia dal punto di vista tecnico che dei contenuti. Inoltre, la fotografia è un atto bidirezionale in quanto nello stessa momento in cui essa si svela, essa occulta la realtà attraverso la trasformazione della tridimensionalità in bidimensionalità, dando luogo ad una costruzione d'ipotesi.

In questo vasto panorama ho scelto alcune immagini significative per la ricerca dell'invisibile, tema che si sta affrontando in questo ambito.

duchamp scacchi 1963Numerosi studiosi hanno esaminato la sua opera dal punto di vista simbolico, con riferimenti alla psicanalisi, soprattutto freudiana, ma resta difficile determinare quanta consapevolezza ci fosse nella poetica di Man Ray e quanto, invece, fosse il risultato di manifestazioni inconsce. La scacchiera, ad esempio, che spesso appare nelle opere di Man Ray (il suo amico Duchamp era un grande esperto di scacchi), costituisce uno di quei simboli che racchiudono quegli indizi che possono portare allo scoprimento dell'invisibile nella sua poetica; infatti, le caselle sono 64 (numero dell'unità cosmica), le bianche e le nere si alternano regolarmente rappresentando l'alternarsi del giorno e della notte, la scansione temporale della vita.

ray--enigma-di-Isidore-Ducasse.jpgL'assemblaggio "L'enigma di Isidore Ducasse" (1920), omaggio a Lautréamont (ovvero il poeta Isidore Lucien Ducasse che scrisse "Bello come un incontro fortuito sopra un tavolo di anatomia fra una macchina per cucire ed un ombrello"), che anticipa gli impacchettamenti di Cristo, è una delle opere più simboliche nella ricerca dell'invisibile in quanto sotto la tela e le corde altro non c'è se non l'invisibile.

ray--larmes.jpgCon la fotografia "Larmes" (1930) compie un'operazione dadaista in quanto applica all'occhio truccato di una ballerina delle lacrime di vetro che non  esprimono alcuna emozione.

La parola "fotografia" deriva dal greco e significa scrivere con la luce; il fotografo è quindi un manipolatore di luce. Inoltre la parola Man pronunciata all'inglese richiama alla mente il suono della parola francese "mains", ovvero mani. Per meglio entrare nell'opera di un artista occorre avere alcune coordinate biografiche essenziali, possibilmente estratte direttamente dagli scritti dell'autore stesso, per "entrare nel suo cuore".

alfred StieglitzMan Ray (1890-1976) nasce a Filadelfia (USA) come Michael Radnitzky (anche se sul vero cognome ci sono tuttora delle perplessità). Nel 1904 segue corsi di disegno libero ed industriale, nel 1910 mentre lavora come grafico a New York, frequenta la galleria 291 aperta da Alfred Stieglitz nel 1905, dove scopre le avanguardie artistiche europee. Stieglitz è infatti il primo gallerista americano ad alternare a mostre fotografiche, quelle di artisti delle avanguardie europee quali Matisse, Rodin, Toulouse-Lautrec, ma anche oggetti di artigianato africano.

Marcel%20DuchampNel 1915 partecipa, in veste di pittore, alle prime mostre dove ha occasione di incontrare Marcel Duchamp, con il quale nel 1920 comincia a collaborare. Nel 1921 si trasferisce a Parigi, dove grazie a Marcel Duchamp, si avvicina al gruppo dei Dadaisti. Il vocabolo Dada fu preso a caso dal dizionario (francese) e, nel linguaggio dei bambini, significa cavallo a dondolo. Tzara dice: "Dada non significa nulla, è un prodotto della bocca".

000cover.jpgGli artisti appartenenti a questo movimento rifiutano il concetto di arte; il gesto dell'artista eleva il comune oggetto prodotto in serie, decontestualizzandolo dal quotidiano, al grado di opera d'arte al fine di ridurre tutti gli oggetti e le opere d'arte allo stesso livello. Alla base ci sono la distruzione dei valori e legami etico-culturali, la casualità, l'ironia e l'assunzione di materiali ritrovati, ovvero degli objets trouvés come mozziconi, foglie, ecc. "Ciò che mi interessa è un oggetto che non sembri un'opera d'arte; qualcosa che sia più o meno utile ... Non è necessario andare in un museo o in una galleria; essi sono vicini a noi".

Poiché con la sua attività pittorica non riesce ad avere entrate economiche sufficienti a mantenersi, inizia a fare ritratti fotografici e foto di moda per Paul Poiret. Usa inoltre la fotografia per "documentare" le sue opere, in quanto gli oggetti, una volta usati, vengono spesso distrutti, gettati o dimenticati. Questa sarà una funzione utilitaria della fotografia che egli non esclude mai.

Ray--ritratto-della-marchesa-Casati.jpgÉ un errore fotografico a renderlo famoso presso l'alta società parigina. Infatti, fotografando la marchesa Casati in scarse condizioni di luce, ottiene dei negativi sfocati dove però appaiono tre paia di occhi. La marchesa rimane strabiliata dal risultato asserendo che ha ottenuto "il ritratto della sua anima". Da quel momento comincia a fotografare deliberatamente fuori fuoco in quanto, attraverso la sfocatura, riesce ad ottenere una fusione tra gli elementi di contorno ed il soggetto. È questo uno dei tanti momenti in cui, nella poetica di Man Ray, si comincia a trovare un collegamento con l'invisibile.

ray-Matisse.jpegIn un'altra occasione, accingendosi a fare un ritratto di Matisse, si accorge di aver dimenticato l'obiettivo della sua macchina fotografica; lo sostituisce con i suoi occhiali da vista ed il risultato che ottiene è una foto sfocata, dove però gli elementi più importanti sono nitidi. La mancanza di fuoco gioca un ruolo definito nella fotografia; il soggetto spogliato dai suoi aspetti materiali, condivide i ritmi degli elementi di contorno e si fonde con essi in una relazione simbiotica.

In alcune immagini sfrutta l'effetto del mosso che, assieme a quello degli specchi, secondo l'interpretazione che alcuni critici ne danno, al di là dell'effetto visivo stesso, vuole esprimere l'emotività personale ed il disagio verso la realtà di vita moderna. Essi, infatti, servono a confondere il senso della spazio del fruitore, ovvero a creare riferimenti visivi non correlati. Questa è la caratteristica che si collega alle esposizioni multiple dal punto di vista dell'estetica.

Man Ray non è particolarmente interessato alla tecnica fotografica, ma riesce ad acquisire una preparazione tecnica tale da permettergli di padroneggiare il mezzo ed usarlo per i suoi scopi. Egli, in quanto artista multimediale è, senza dubbio, colui che può, meglio di chiunque altro definire i "confini" fra pittura e fotografia, diatriba ormai secolare che si trascina dalla nascita di quest'ultima. Fotograferei un'idea piuttosto che un oggetto, ed un sogno più che un'idea. Nella fotografia egli infatti inventa e reinventa tutto; là dove la fotografia "classica" non basta ai suoi scopi, egli sviluppa nuove tecniche e procedimenti che si rifanno a quelli del secolo precedente.

Ray_portrait.jpgDipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non desidero dipingere. Se mi interessano un ritratto, un volto o un nudo, userò la macchina fotografica. É un procedimento più rapido che non fare un disegno o un dipinto. Ma se è qualcosa che non posso fotografare, come un sogno o un impulso inconscio, devo far ricorso al disegno o alla pittura. Per esprimere ciò che sento mi servo del mezzo più adatto per esprimere quell'idea, mezzo che è sempre anche quello più economico. Non mi interessa affatto essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo. Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri musicisti e poeti nello stesso tempo. Non ho mai condiviso il disprezzo ostentato dai pittori per la fotografia: fra pittura e fotografia non esiste alcuna competizione, si tratta semplicemente di due mezzi diversi, che si muovono in due diverse direzioni. Fra le due non c'è conflitto.

ray--cliche-verre-corot.gifEgli infatti mette la fotografia al servizio della pittura. Riscopre indipendentemente la tecnica del cliché-verre (utilizzata un secolo prima da pittori come Corot e Delacroix), ma come supporto, anziché una lastra di vetro affumicato, usa una lastra negativa esposta alla luce, sviluppata e fissata sulla quale va a "disegnare". Una volta finito, appoggia la lastra ad un foglio di carta sensibile e la espone alla luce ottenendo un numero indefinito di copie.

La casualità con la quali egli scopre e riscopre le tecniche, sembra essere fortuita, ma non è così. In realtà è il risultato di un lavoro mentale che lo porta a considerare la macchina fotografica come un attrezzo al servizio della mente, e quindi ad affrontare certe problematiche inerenti al mezzo proiettandosi verso il nuovo, lo sconosciuto.

ray--rayografia-1922.jpgEd ecco che, mentre sta sviluppando un positivo, mette un foglio di carta sensibile non esposto nello sviluppo e vedendo che non appare immagine alcuna, lo mette da un lato appoggiandoci sopra un imbuto di vetro, una provetta ed un termometro. Quando riaccende la luce, si accorge che sulla carta comincia ad apparire le silhouette dei tre oggetti ottenendo un fotogramma che egli ribattezza Rayografia. Sostanzialmente il procedimento è lo stesso seguito da Talbot per ottenere i suoi calotipi, diverso è invece lo spirito di Man Ray che non vuole riprodurre la natura, bensì esprimere lo spirito Dada usando objets trouvés. Inoltre queste Rayografie somigliano alle radiografie per suggerire la capacità della fotografia di penetrare la materia solida e suggerire l'invisibile. Le Rayografie hanno la peculiarità di essere uniche e quindi non riproducibili.

Le sue Rayografie, inoltre, si differenziano notevolmente da quelle dei suoi contemporanei, come Schad e Moholy-Nagy, in quanto utilizza la luce con angolazioni diverse per ottenere ombre che hanno una vasta gamma di grigi e quindi creano un senso di spazialità.

Ray-1933-autoritratto-solarizzato.jpgNessun altro fotografo ha sperimentato tanti procedimenti quanto Man Ray: la sgranatura, la distorsione ottenuta inclinando l'ingranditore, l'effetto rilievo ottenuto ingrandendo contemporaneamente un negativo ed una diapositiva della stessa immagine leggermente sfalsati, e soprattutto la solarizzazione, procedimento scoperto da Armand Sabattier nel 1860-62. Essa consiste nell'esporre alla luce, durante la fase di sviluppo, la carta con l'immagine latente; si ottiene così uno scurimento dei contorni che fa risaltare meglio il soggetto rispetto al fondo. L'uso della solarizzazione nel nudo fa' sì che il soggetto "estraniato" abbia una valenza erotica relativa, mentre quando viene usata nei ritratti permette una quasi introspezione psicologica, benché, nel caso di Man Ray, essi sembrino seguire uno stereotipo.

La sua attrezzatura fotografica è estremamente basilare. Una "modesta Kodak", lampadine e, in mancanza della camera oscura, il buio della notte. Durante la sua vita alterna l'attività di fotografo a quella di pittore e cineasta. Partecipa a numerose mostre ed ottiene numerosi premi.

ray.jpgAnche nell'adozione dello pseudonimo (Man= uomo Ray= raggio di luce), compie un'operazione dadaista in quanto esso non ha nessuna particolare relazione con l'uomo; anche i titoli che egli dà alle sue opere non hanno analogia alcuna con il loro contenuto (esempio la serie di Rayografie "Les Champs Délicieux"); forse rappresentano una sorta di indizio su una delle mille possibili interpretazioni che lo "spettatore" può ottenere facendo appello ai suoi pensieri ed alla sua immaginazione. É proprio tramite questa titolazione che egli compie l'operazione Dadaista di estraniazione dell'oggetto dal suo contesto.

L'esempio più chiarificatore è quello della fotografia di un frullino che dapprima Man Ray intitola "La Femme" (1918) e poi, in seguito ad un'inversione di cartellini ad un'esposizione, diventa "L'Homme"; questo scambio non viene corretto in quanto, in ogni caso, i titoli non fanno riferimento diretto all'immagine. Non bisogna rastrellare i nostri cervelli in cerca di una soluzione, dobbiamo vivere come se non ci fossero problemi e come se non ci fossero soluzioni da ottenere. Questa è l'arte finale che non richiede sforzo se non quello di vivere ed aspettare. Nel 1941 rientra negli USA dove resta sino al 1951, per poi ritornare a Parigi dove morirà nel 1976.

Ray--1975.jpgInteressante è una considerazione fatta da Helmut Gernsheim, fotografo e storico della fotografia, sulle tecniche "sperimentali" che, in Europa si sono sviluppate nel periodo fra gli anni '20 e '30: "Innegabilmente questi esperimenti rivoluzionari hanno allargato i limiti della fotografia e sradicato le condizioni superate. La maggior parte di essi (esperimenti) sono stati ottenuti attraverso tecniche puramente chimiche o ottiche e quindi non possono essere criticate dal punto di vista fotografico. Tuttavia molti artifici hanno condotto ad un vicolo cieco come succede inevitabilmente quando i pittori si interessano di fotografia per scopi personali, dimenticando che la fotografia e pittura devono seguire strade differenti".

 

Cinzia Busi Thompson

 

Bibliografia:

Man Ray: Fotografia anni 30" Università di Parma, C.S.A.C., 1981

Man Ray: Photographs" Thames & Hudson, NY, 1981-1982

Man Ray "Autoritratto", SE, Milano, 1998

Arturo Schwarz "Man Ray" Art Dossier, Giunti, 1998

Petr Tausk "Storia della Fotografia del 20° Secolo" Mazzotta Editore, 1980


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2 marzo 2011 3 02 /03 /marzo /2011 18:20

La ricerca dell'invisibile in Marcel Duchamp


Marcel%20Duchamp

 


di GuglielMina Frau


Il mio intervento è finalizzato a mostrare, attraverso le immagini di alcune opere, una traccia parziale della poetica di Marcel Duchamp.

 

Il procedimento che utilizzo è analitico e di decodificazione dei caratteri che formano nell'insieme la poetica duchampiana.

 

Duchamp ha superato lo spazio retinico legato ancora alla cultura gutenberghiana, fruendo le sue opere è possibile sfiorare diversi livelli di conoscenza "oltre" la costante di normalità accettata.

 

Le proposte della sua poetica sfociano spesso (o quasi sempre) in spazi ancora non esplorati; si tenterà in questa indagine, di esplorarli, cercando di utilizzare le sue stesse parole e i concetti espressi nelle argomentazioni affrontate da Duchamp durante le numerose interviste.

 

Che cos'è il tempo?

 

C'è differenza tra spazio e tempo? Sono queste alcune domande sulle quali Marcel Duchamp riflette cercando di trovare un modo, attraverso la produzione artistica, per afferrare il tempo, darne una esplicita testimonianza.

 

duchamp, il-grande-vetro-allevamento-di-polvere Duchamp, Allevamento di Polvere, 1920.


Nel 1919 in occasione del matrimonio della sorella Suzanne, Marcel Duchamp elabora un regalo per gli sposi che consiste in alcune istruzioni per appendere un libro di geometria fuori dal balcone: lo scorrere del tempo, la forza degli elementi atmosferici, avrebbero trasformato il libro in qualcosa di diverso. Le pagine si sarebbero irrigidite, la scrittura scolorita, polvere, pioggia, vento, avrebbero contribuito a distruggere per sempre le frasi scritte sul libro di geometria; il tempo unito naturalmente ai fattori climatici avrebbe agito sull'oggetto, trasformandolo e trascinandolo verso altre dimensioni. La ricerca di Duchamp sull'azione del tempo è sempre al centro dei suoi pensieri.

 

Insieme a Man Ray, nel 1920 a New York, allestisce un: Allevamento di Polvere.

 

Il 7 novembre 1919, il quotidiano londinese Times, annunciava l'emergere di un mondo nuovo, nel quale i vecchi valori di spazio e tempo assoluti erano perduti per sempre. Per chi proveniva dalle devastazioni della Grande Guerra, esso significava il sovvertimento di tutti i riferimenti assoluti, tanto nella morale, quanto nella filosofia, nella musica o nell'arte: in un recente compendio della storia del secolo XX, lo storico britannico Paul Johnson sostiene che l'era moderna non ha avuto inizio nel 1900, e nemmeno nell'agosto del 1914, ma piuttosto in occasione dell'avvenimento che diede origine a quel titolo del Time [1].

 

Notizie più precise sulla quarta dimensione circolano in ambito francese già dopo il 1910.

 

Tra il 1911 e il 1912, Gaston de Pawlowski, direttore del più importante quotidiano letterario e artistico intitolato Commedia, pubblica a puntate i capitoli di quello che sarebbe diventato un classico della fantascienza francese dell'inizio del secolo: Il viaggio al Paese della quarta dimensione. L'argomento è di dominio pubblico non solo in ambito scientifico. Duchamp, si interessa a questa nuova dimensione dove tempo e spazio sono unificati; poiché relativisticamente parlando, la curvatura dello spazio e quindi delle forme in esso immerse, sono influenzate vicendevolmente. Queste nuove teorie scientifiche costituiscono una vera rivoluzione per la società del Novecento. La teoria della relatività, dei quanti e della geometria non euclidea, allargano gli orizzonti della scienza e mettono in forte crisi le vecchie certezze. La nuove coordinate spazio temporali allargano le conoscenze della fisica, ma non solo, soprattutto si producono dei profondi cambiamenti tecnici e psicologici in tutta la società.

Pawlowski_Voyage_au_pays_Fasquelle.jpgGaston de Pawlowski, Viaggio al paese della quarta dimensione, 1913.

 


einstein-1.jpgAlbert Einstein nella sua ricerca si rende conto che alla base della nozione di tempo-spazio, è unita anche quella di simultaneità. La svolta einsteiniana fondata sul principio di relatività, accoglie tutti i fenomeni fisici; indica un nuovo modo per osservare la realtà. L'ipotesi mcluhaniana di fondo vuole che a una tecnologia di base fornita dall'elettronica (dalle applicazioni dell'elettromagnetismo e dell'elettronica) faccia riscontro un'epistemologia (una metodologia generale) fondata sul prevalere delle totalità, delle strutture, delle qualità globali piuttosto che delle quantità, delle sommatorie (questo l'esito più importante delle equazioni del campo elettromagnetico elaborate da Maxwell e poi riprese dalla teoria della relatività di Einstein). Per altro verso, si impongono concezioni probabiliste, indeterministe messe a punto da Planck, Bohr, Heisemberg. Per effetto congiunto di queste svolte epistemologiche, le discipline del gruppo fisico-matematico si sono avvicinate come non mai a quelle del gruppo umanistico [2].

 

boite-verte.jpg

Duchamp, Scatola verde, 1934.

 

Nell'intervista rilasciata da Marcel Duchamp a P. Cabanne, l'artista affronta l'argomento dicendo: "Ciò che ci interessava a quel tempo era la quarta dimensione. Nella Scatola verde ci sono un mucchio di note sulla quarta dimensione [...]. Siccome credevo che si potesse dipingere l'ombra di una cosa a tre dimensioni, un oggetto qualsiasi - come la proiezione del sole sulla terra che crea due dimensioni - per semplice analogia intellettuale considerai che la quarta dimensione poteva proiettare un oggetto a tre dimensioni; in altre parole ogni oggetto a tre dimensioni che osserviamo freddamente è una proiezione di una cosa a quattro dimensioni che non conosciamo. Era quasi un sofisma ma, in fin dei conti, era anche una cosa possibile" [3].

 

Le opere duchampiane che meglio esprimono questo concetto sono più di una, osserviamo tuttavia la più evidente, Porta 11, rue Larrey  del 1927; è questa una porta che non delimita una zona di confine (si apre mentre si chiude e si chiude mentre si apre). Duchamp è interessato al varco di comunicazione tra l'ambiente in cui  abitualmente ci muoviamo e quello che invece riusciamo soltanto a percepire. Questo è il mondo relativistico einsteniano, dove spazialità e temporalità sono legate-unificate e risentono di tutto ciò che accade. L'attenzione di Marcel Duchamp è rivolta esclusivamente all'arte concettuale, intellettuale, soprattutto alle idee e non solo alle parti visive.

duchamp--porte-11--rue-Larrey1196188595_f.jpgDuchamp, Porte 11, rue Larrey, 1927.


Lo scopo è di condurre l'attenzione degli uomini verso la conoscenza, in una condizione di silenzio che sfiora la magia,uno spazio in cui D. cerca di trovare un luogo di nuove possibilità. Una problematica profonda di questa parte della poetica duchampiana, è il suo tentativo di mostrare i passaggi dimensionali tra i vari livelli di realtà. Un'altra opera che tenta di acchiappare l'invisibile è per esempio: Aria di Parigi, 1919.

aria-di-Parigi.jpgDuchamp, Aria di Parigi, 1919.

 

 

duchamp--Jeune_homme_et_jeune_fille_dans_le_printemps--1911.jpg
  Duchamp, Giovanotto e ragazza in primavera, 1911.

Nel 1915 Duchamp inizia l'esecuzione del Grande Vetro, un'opera che è il punto centrale di tutta la poetica duchampiana, dove convergono idee e lavori significativi, sia precedenti al Grande vetro, come per esempio Giovanotto e ragazza in primavera del 1911, sia altre opere successive come Étant donnés. Il Grande Vetro propone anche una nuova realtà dell'opera come organismo, corpo, che occupa uno spazio all'interno della realtà che lo accoglie. Nel 1926 a Brookliyn, il Gande Vetro viene caricato in un camion per essere trasportato, durante il viaggio (circa 90 km ) le lastre di vetro subiscono una filatura. Nel vedere la sua opera danneggiata, l'artista, reagisce con molta serenità anzi dichiara di vedere in quelle incrinature del vetro rotto una nuova forma simmetrica, una nuova intenzione al di fuori delle sue decisioni, che accetta come un evento della realtà quotidiana dell'opera d'arte. Così come tutti i corpi presenti nel livello materiale dell'esistenza, che con il passare del tempo irrimediabilmente cambiano, mutano strutturalmente, acquistando o perdendo caratteristiche nella propria forma materiale.

 

duchamp-etant-donnes.jpg
Duchamp, Etant donné, 1946-66.

Il progetto iniziale dell'opera prevede due spazi ben distinti, uno dedicato alla sposa e l'altro ai nove scapoli: tra i due mondi, Duchamp lascia un terzo spazio di possibilità nella pura trasparenza del vetro, che potrebbe diventare il "campo d'incontro dei due mondi separati". Oggi non è più possibile vedere questo terzo spazio, poiché è stato annullato con l'aggiunta di un asse di sostegno del vetro, dopo l'incidente del trasporto. Ora, lo spazio della sposa è completamente chiuso, così anche lo spazio degli scapoli, non può esserci comunicazione tra i due e tutto il significato originario dell'opera è mutato. Il mondo rappresentato dal Grande Vetro è quello dell'apparizione cioè di una realtà al di là di ciò che appare, l'artista propone un percorso di iniziazione dello spettatore, che sfocia verso livelli di contemplazione in cui i fruitori stessi, diventano i protagonisti diretti (attraverso la loro partecipazione percettiva), a quanto avviene nell'opera stessa.

 

Duchamp definisce il Grande Vetro come un mondo in giallo, sottintendendo una propagazione della luce negli strati della materia, il G.V. diventa quindi una rappresentazione simbolica della luce quasi un cosmogramma. M.D. trova una soluzione coerente e idonea alla sua poetica, una poetica che ha sempre richiesto allo spettatore una partecipazione, uno sforzo mentale, un avvicinamento fra l'arte e la realtà vissuta. Sono queste le condizioni per arrivare all'opera d'arte totale,ossia l'opera senza limiti, tra la vita e l'arte (punto Zen).

rose, 10Duchamp, Il Grande Vetro, 1915-1923.

 

 

I READYMADES

 

Come nasce un ready-made duchampiano? Duchamp ha più volte ribadito quanto la nascita dei suoi ready-mades è sempre sottoposta a regole ben precise. Uno dei fattori principali è rappresentato dal caso, seguono poi l'ordine e l'indifferenza. Marcel Duchamp si prepara mentalmente attraverso alcune diverse fasi di preparazione spirituale. Duchamp vuole progettare i suoi ready-mades in un momento del futuro (tal giorno, tal data, tal minuto) una specie d'appuntamento. Inoltre il ready-mades deve ora, recare un'iscrizione che invece di descrivere l'oggetto, così come avviene nel caso di un titolo, deve portare la mente dello spettatore verso altre regioni più verbali, assegnarli una nuova etichetta e una firma, dirottare l'oggetto dalla sua destinazione e riclassificarlo.

 

L'oggetto originale è momentaneamente sospeso da qualsiasi valore simbolico. L'artista ora procede all'attivazione di diverse fasi che si sviluppano progressivamente almeno in quattro momenti:

 

1) Traslazione dell'oggetto, ottenuta dopo una forte concentrazione mentale dell'artista.

 

2) Sospensione momentanea del giudizio di gusto, indifferenza, necessaria per la sospensione o spaesamento dell'oggetto, che viene trasferito in una nuova dimensione (o realtà).

 

3) Posiziona il manufatto, mutando la sua posizione abituale (ma non sempre), affida un nuovo nome all'oggetto (ma non sempre), trova un  luogo dove far conoscere la propria opera( galleria o altro), presentandola al mondo dell'arte istituzionalizzato e assumendone pienamente la paternità.

 

4) Legittima l'identità artistica dell'opera.

 

La valenza simbolica dell'oggetto coincide con il livello di appartenenza ad una certa quota (livello) di realtà; ossia l'oggetto presentato da Duchamp non muta la sua origine o forma materiale, ma diventando opera infilza la realtà in quel preciso istante nel suo divenire - essere (né prima né dopo).

 

Il prolungamento simbolico dell'oggetto materiale che si offre all'esperienza estetica,p orta con sé tutte le caratteristiche del mondo meccanizzato. I Ready-mades interessano non tanto da un punto di vista plastico quanto invece da un punto di vista critico e filosofico. Si tratta di attivare un gesto contrapposto all'opera d'arte tradizionalmente intesa, il ready-made è un attacco contro il concetto stesso di opera d'arte. Davanti ai primi ready-mades la reazione dei fruitori è di stupore. Da parte di Marcel Duchamp c'è la volontà di sottrarsi all'arte tradizionale e con essa a tutto ciò che comporta, particolarmente alla speculazione dei mercanti d'arte. Duchamp ha dimostrato ribellione nei confronti di un mondo dell'arte strutturato in ruoli e codici fissi, egli cerca di volta in volta una nuova apertura verso altre direzioni.

 

Ma come si sviluppa, da un punto di vista estetico, il concetto di oggetto duchampiano?

 

Le valutazioni estetiche che si formano dentro le nostre idee, attraverso la percezione dei nostri cinque sensi, ci mettono fenomenologicamente in grado di fruire l'oggetto materiale sotto due precisi momenti, il primo è l'oggetto in sé, il secondo l'analogia e il simbolo di una cosa. L'atto di prelievo di un nuovo ready-made da parte di Marcel Duchamp. è un momento di superamento dello stato abituale di normalità, è un introdursi in una "qualche dimensione di ricerca subconscia". Quando si parla di bellezza dell'indifferenza, si vuol mettere in risalto proprio quest'aspetto così sottile ed aereo che distingue il momento del prelievo (funzione costruttrice dell'opera), da qualsiasi altro attimo della vita dell'artista. Duchamp infatti si organizza come se dovesse celebrare un rito, il giorno, l'ora, il luogo in cui avrebbe prelevato dalla realtà quotidiana un nuovo oggetto da proporre come opera d'arte. Ciò significa che oltre il gesto materiale di prelevamento dell'oggetto dal mondo della quotidianità, l'artista si mette anche in una specifica situazione psicologica, ossia il prelevamento avviene in un momento di concentrazione mentale tale da provocare nel medesimo un momento di indifferenza psicologica che è oltre lo stato di normalità.

 

L'oggetto prelevato e presentato come opera d'arte, non è più uno scolabottiglie ma é diventato lo "Scolabottiglie" di Marcel Duchamp: - 1) oggetto storico - opera d'arte, isolato dal mondo reale dei manufatti - 2) in comunicazione con il mondo più interno del subconscio e idee dell'artista - 3) in rapporto diretto con il mondo dell'arte istituzionalizzato. L'indagine in questo senso si dirige oltre qualsiasi superficialità, mette l'attenzione del fruitore non sull'oggetto in se, ma nel varco di comunicazione che l'opera apre.

Duchamp.-Porte-bouteilles--1914--1964-.jpg


Duchamp proclama il valore supremo dell'indifferenza e conferisce al gesto del prelievo un senso unico di istantaneismo. Un cogliere l'attimo che intende abolire la spaccatura tra la vita e l'arte, per arrivare sempre più vicino all'opera d'arte totale. In questa stessa linea rientra anche l'attività rivoluzionaria della cultura Dada (1916-'21), con le sue  proposte di una nuova filosofia  di vita.  Dada e Surrealismo sono stati gli unici movimenti a proporre, oltre la rivoluzione visiva, anche una rivoluzione culturale. Duchamp li ha attraversati entrambe, ma tenendosi tuttavia indifferentemente staccato per poter spaziare oltre.

duchamp-ruota-di-bicicletta-1913.jpg

 

Prendendo un oggetto comune dell'ambiente abituale e sistemandolo in un luogo, tale che il suo significato muti, M.D. ha favorito una produzione di nuovi concetti, una nuova produzione mentale che entra di diritto nel campo di ricerca della polisemia . Dalle parole ai fatti; ecco di seguito un breve excursus tra alcuni dei circa trentacinque  ready- mades. Osserviamo:

 

READY - MADES RETTIFICATI: l'artista compie una correzione mantenendo intatta la base sulla quale si interviene:

 

RUOTA DI BICICLETTA, 1913           

 

SCOLABOTTIGLIE,          1914

 

FONTANA (Sig. Mutt),      1917

 

L.H.O.O.Q.,                         1919

Fontana, Duchamp, 1917

 

L'umorismo di Marcel Duchamp spesso è iconoclasta. Uno degli esempi più noti è l'imposizione dei baffi alla Gioconda leonardesca, un gesto spesso giudicato oltre che burlesco, anche irriverente nei confronti di un' opera famosissima.


duchamp--L.H.O.O.Q.-1919.jpg

 

Oltre queste prime impressioni, il gesto di Duchamp (con o senza la consapevolezza dell'artista) ha allargato un nuovo spazio nella storia dell'arte contemporanea - postmoderna, ottenendo una visione totalmente differente che produce nuova cultura e nuovi concetti estetici.

 

L'artista, divenuto operatore «mentale», si cimenta nell'impresa di rivendicare al valore estetico ogni oggetto e circostanza preesistente a lui: basta volerlo, dichiararlo, apprestare una opportuna «intenzione». Né è detto che queste «intenzioni» si debbano rivolgere ai soli e solidi oggetti materiali; si potrà trattare ugualmente bene di frasi e dichiarazioni verbali, di fenomeni aerei, posti nel regno dei fluidi, o infine di ragionamenti mentali. L'intero universo può essere riconsiderato «sotto specie»di valore estetico, pur di far scattare gli indici opportuni (come premere un tasto e ottenere che tutti i caratteri si stampino in maiuscolo [4].


SEMI READY - MADES: sono sicuramente tra i ready-mades più particolari. Si tratta di una sorta di assemblage, più o meno modificati. Due opere destano degli interrogativi per il loro " non senso", si tratta di:



- CON RUMORE SEGRETO, 1916

conrumoresegreto1916.jpg

 

Nel primo Marcel Duchamp, con la complicità di Walter Arensberg, unisce due piastre di ottone con quattro viti; all'interno un gomitolo di spago contenente un oggetto misterioso,scelto dall'amico Arensberg (unico a conoscere la natura dell'oggetto nascosto). Il rumore prodotto dall'oggetto sarà l'unica traccia per il fruitore, che tenterà di riconoscerlo. L'opera apre verso differenti modi di fruizione: visione, movimento, rumore.


 

 

 

 

 

 

PERCHÈ NON STARNUTIRE, 1921

perche-non-starnutire.jpg


 

La seconda opera citata è una piccola gabbietta per uccelli con dei cubetti di marmo bianco, sistemati al suo interno più un osso di seppia incastrato nella griglia di ferro. La visione del semi ready-made condurrebbe a supporre una certa delicatezza (i cubi sembrano zollette di zucchero), ma il suo peso è contrapposto a questa prima impressione.

 

Si possono fare cose che non siano opere d'arte?

 

Nel 1916, Duchamp si propone di eleggere il grattacielo della Woolworth Building a New York, come ready- made . Poiché non trova mai una frase appropriata per nominarlo, decide di tenerlo come ready- made latente.

 

E' possibile accumulare delle cose simili (manufatti), tutte acquistata New York nella 10° strada, per arrivare ad una "massa critica" tale che l'ultima aggiunta determina il passaggio dalla quantità alla qualità?

 

Se è vero che tutti i tubetti di colore usati dagli artisti sono manufatti (prodotti pronti all'uso) possiamo concludere che tutti i quadri al mondo sono dei ready-mades aiutati.

 

Se l'opera d'arte e l'opera di "non arte " sono essenzialmente la stessa cosa, e se l'oggetto comune può essere elevato al rango di un'opera d'arte grazie alla scelta dell'artista, può essere vero anche il contrario? L'operazione consisterebbe nel prendere una qualsiasi opera, per es. un Rembrandt, e trasformarlo in qualcosa di comune, soggetto all'uso quotidiano nella vasta schiera di utensili come per esempio un asse da stiro.

 

 

ARTE CINEMATOGRAFICA: DUE FILM SPERIMENTALI.


anemic_cinema.jpgL'arte cinematografica mette i fruitori in condizione di fruire l'opera ma anche di diventarne protagonisti (con la percezione e sensibilità) tanto da riconfermare il concetto duchampiano: "sono gli spettatori che fanno un'opera d'arte". Nella storia dell'arte cinematografica si è cercato di analizzare i conflitti interni provocati nel fruitore dalle immagini che scorrono, coinvolgendo la percezione ma non solo. Il cinema scompone le immagini frammentando la vita rappresentata in fotogrammi in rapido passaggio: oggetti, persone, luoghi, si offrono all'esperienza visiva dello spettatore che compie a sua volta una rapida ricomposizione di forme che è il film stesso.

 

Già i dadaisti e i surrealisti avevano concepito un' arte fondata sul frammento, lo choc, la sorpresa: il cinema porta a compimento le loro intenzioni. Se le inquadrature colpiscono lo spettatore con la stessa rapidità di uno choc, ciò ha conseguenze rilevanti sulla sua struttura psichica [5]. Nel cinema la realtà è assente e la percezione del fruitore è l'unica forma di realtà di quel preciso istante di visione delle immagini cinematografiche riprodotte.

 

Duchamp nel 1925-26, insianemic-Cinema--2.jpgeme a Man Ray e a Marc Allégret, realizza un breve film intitolato "Anémic Cinéma". Si tratta di un classico film sperimentale, muto, 35 mm, 7 minuti, bianco e nero, prod. Rrose Sélavy. Il pic colo film comprende la ripresa di 19 dischi che si alternano in un movimento continuo, 10 dischi ottici con spirale + 9 frasi scritte a spirale (dei giochi di parole tali che la fine della frase è anche l'inizio), dedicate a Rrose Sélavy. Le immagini sono chiaramente ancora strettamente meccaniche e suddivise in piccoli momenti; si è ancora molto lontani dai film in cui l'apparenza rappresentata riduce a zero o annulla del tutto la differenza tra vita vera e opera prodotta.

Anemic.Cinema-3.jpgL'arte cinematografica è ancora in una fase iniziale che tuttavia prelude a spazi da scoprire e raggiungere. Nel primo breve film girato da Marcel Duchamp, ci sono le tecniche tipiche del cinema muto. Le immagini esprimono solo il presente di quel preciso istante (né passato né futuro) l'immagine è ciò che accade dinanzi ai nostri occhi. Tutto ciò è possibile con gli effetti ottici che si collocano, in relazione ai mezzi tecnici, fuori da qualsiasi spazio e tempo. Sono la traduzione delle idee dell'artista, le immagini ottiche sono il significato in rapporto diretto con le sequenze che vengono presentate al pubblico, che può fruire in pieno della forma in tutta la sua essenza.

 

entr_acte_clair_1.jpgNel 1924, Marcel Duchamp insieme a Man Ray, diventano attori principali in un brevissimo film, intitolato Entr'Acte, [6]. Le riprese sono fatte con un movimento della macchina lento, le inquadrature afferrano frammenti di realtà; la macchina da presa fissa i volti degli uomini ma anche il gusto dell'epoca (il modo in cui sono vestiti, pettinati). Il film permette agli spettatori di diventare testimoni oculari di un'epoca che ormai non esiste più, che comprende sequenze dei due amici, seduti sul tetto del Théatre des Champs - Elysées. "Mentre si svolge la partita vengono ripresi un mezzo primo piano della testa di Duchamp con il comignolo sulla sinistra e una veduta aerea di Parigi sullo sfondo. A seguire viene ripresa una serie di primi piani di Duchamp sbigottito, ansimante per lo stupore, i capelli ritti in avanti per il vento. Si susseguono varie sequenze della scacchiera e delle mani di Duchamp e Man Ray, fino all'improvviso e potente spruzzo d'acqua di una canna che spazza via scacchi e scacchisti".

 

entr-acte.jpgIl film prosegue con delle immagini metaforiche che lasciano allo spettatore il compito di comporre la storia, unico elemento indicato dal regista è la volontà di trasmettere diverse fasi di realtà quotidiana, in cui la velocità, più o meno, determina e muta il significato dell'azione. Osserviamo come la pacata scena del funerale, si sviluppa in un crescendo di accelerazione che trasforma (attraverso il movimento) tutta la situazione, nel suo perfetto contrario, cioè diventando un paradosso di comicità. Infine, il tema dell'invisibile è documentato nell'ultima scena dove una bacchetta che simbolizza lo scorrere del tempo, come per magia, elimina la materialità dei corpi rendendoli invisibili.

 

 



duchamp-scacchi-1963.jpgDuchamp 1963.

 

 


 

GuglielMina Frau

 

 

 

 

 

[Rielaborazione del post originale e ricerche iconografiche e filmiche di Elisa Cardellini]

 

 

 

 

 

 

 

NOTE:

 

 

[1] M. Will Clifford, Einstein aveva ragione?, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 56.


[2] R. Barilli, Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, Il Mulino, Bologna 1992, pp.41-42.


[3] P. Cabanne, Ingegnere del tempo perduto, Multipla edizioni 1979, pp. 54-55.


[4] R. Barilli, op. cit. p. 134.


[5] M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino.

 

[6] M. Pezzella, Estetica del cinema, Il Mulino.

 


Link al saggio originale: 

La ricerca dell'invisibile in Marcel Duchamp

 

 

LINK ad un mio video su Marcel Duchamp:

 


 


 

 

 

 

 

 

Anémic Cinéma

 


 

 

 

 

 


  Entr'Acte, 1924, 1/2

 

 

 

 

 


  Entr'Acte 2/2

 

 

 

 

© 1985/2003 Parol - quaderni d'arte e di epistemologia

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2 febbraio 2010 2 02 /02 /febbraio /2010 10:00

Proponiamo all'attenzione degli appassionati del dadaismo e dei suoi principali esponenti,  la prima di due parti di un saggio eruditissimo e argomentativamente complesso ma di grandissima soddisfazione sul piano della fruizione storica e critica rivolta verso una singola opera artistica o un singolo autore. I richiami ad altre opere di Duchamp rende il saggio ancora più intrigante tanto più che allo scopo di essere chiaro quanto esaustivo sul piano interpretativo, l'autore, Roberto Giunti, dedica ampio spazio alle tecniche utilizzate da Duchamp in quest'opera. Ricordiamo che Rrose Sélavy è il personaggio creato da Duchamp nel 1920 e per cui egli posò vestito da donna in una celebra fotografia di Man Ray (che riproduciamo sotto il titolo), in termini ermetici la sua anima femminile attraverso cui trasformarsi, anzi perfezionarsi e completarsi in un essere ermafrodita.


R. rO. S. E. Sel. A. Vy

 

 

 

 

 

Rrose Selavy, 1921, Man RayMarcel Duchamp nei panni del suo alter ego femminile Rrose Sélavy,

in una celebre foto di Man Ray.




di Roberto Giunti



1. L'odissea dei Rammendi



1a. Tre Rammendi Tipo



Rose, 01

Figure 1

Marcel Duchamp, Three Standard Stoppages, 1913-14




È già stato ampiamente discusso dagli studiosi il fatto che la procedura operativa descritta da Duchamp per la realizzazione dei Tre Rammendi Tipo (1913-14) (Fig. 1) non sembra essere attendibile. L'evidenza sperimentale fa infatti escludere la possibilità di ottenere qualcosa di simile ai Rammendi di Duchamp. Non solo, ma una ispezione dell'opera esposta al MOMA ((Museum of Modern Art in New York City) evidenzia delle imbastiture sul retro delle tele di supporto, che definitivamente sembrano escludere quanto descritto nella celebre nota della Scatola Verde. Tutto questo è accuratamente documemtato da Shearer & Gould (1999), i quali tuttavia precisano anche l'insistenza con cui Duchamp, esplicitamente intervistato a proposito, conferma la veridicità del contenuto della nota. In questo primo paragrafo intendo presentare alcune considerazioni sull'argomento.


Una semplice misurazione mostra che la distanza (in linea retta) fra i due capi visibili di ciascuno dei tre Rammendi è costante. Ciò è evidenziato anche dal fatto che in Tu m' (Fig. 2), di cui parleremo più avanti, Duchamp presenta i Rammendi accuratamente appaiati, capo contro capo. Ora, è assolutamente improbabile che tre fili che cadono liberamente si dispongano mostrando tre volte di fila la stessa distanza da un capo all'altro. Ciò sembra confermare una volta di più l'impossibilità pratica di ottenere un risultato come quello presentato da Duchamp seguendo le istruzioni della nota della Scatola Verde.



rose--02.jpg

Figure 2
Marcel Duchamp, Tu m', 1918



Tuttavia, se Duchamp sostiene caparbiamente di essersi attenuto a quel protocollo operativo, questa insistenza deve farci riflettere. E' vero che la sua opera è disseminata di tranelli e di ambiguità volutamente fuorvianti; tuttavia usualmente Duchamp opera in modo che siano i nostri sensi ad ingannarci, e non le sue parole; in altri termini la sfida che egli ingaggia con l'osservatore è una sfida leale, mantenuta costantemente su un piano di correttezza: le tracce potranno essere volutamente rese ambigue, tuttavia sono messe davanti all'osservatore nella loro oggettività: sta all'osservatore leggerle con razionalità.


È interessante notare che nei Tre Rammendi Tipo, Duchamp sembra dissimulare accuratamente l'uguaglianza delle sei misure in linea retta dei fili e delle loro sagome di legno.


Osserviamo come li dispone Duchamp, quando i fili e le sagome siano posti verticalmente (come suggerisce l'orientamento dell'etichetta di testo di ogni filo). Per questo scopo considererò la riproduzione miniaturizzata dei Tre rammendi Tipo della Boite-en-valise (1941) (Fig. 3), perché è la sola rappresentazione che io conosca dove tutti e sei le componenti (3 fili e tre sagome) sono sicuramente disposte da Duchamp stesso. Ma simili considerazioni potrebbero essere fatte anche per tutte le altre disposizioni che io conosco, inclusa quella al MoMA.


rose--03.jpg

Figure 3
Marcel Duchamp,
Miniature version of Three Standard Stoppages,
in Boîte-en-valise, 1941


Mentre le etichette poste vicino al lato inferiore delle tele sono accuratamente allineate l'una con l'altra, i fili sono incollati a partire da differenti distanze dal lato superiore, e ciò preclude la possibilità di confrontarne a colpo d'occhio le lunghezze e l'allineamento delle estremità superiore ed inferiore dei tre fili. Si potrebbe imputare questo sfasamento alla casualità della caduta. Si ricordi tuttavia che Duchamp tagliò le strisce di tela su cui sono incollati i fili dopo l'esecuzione dell'opera, in un tempo differito, diversi anni dopo; così come Duchamp pose attenzione all'allineamento delle etichette, avrebbe ugualmente potuto porre la stessa attenzione per l'allineamento dei punti iniziali dei fili. Analoghe tecniche di dissimulazione sono utilizzate anche per la presentazione delle sagome di legno. Per prima cosa, l’ordine di presentazione dei tre fili (F) è, diciamo, FA, FB ed FC, mentre le sagome (S) sono presentate nell’ordine SC, SA, SB. Secondo, le sagome sono ruotate di 180° rispetto ai fili corrispondenti, rendendo ancora una volta difficile il confronto a colpo d’occhio. Terzo, per poter sovrapporre la sagoma sul corrispondente filo, dobbiamo mentalmente ribaltare le sagome SC e SA, perché i loro profili mostrano una simmetria assiale rispetto ai corrispondenti fili FC e FA. Lo schema risultate è questo:




Fili (F)

Sagome (S)

FA

FB

FC

SC

SA

SB

rotazione a 180° & ribaltamento

rotazione a 180° & ribaltamento

rotazione a 180°



Infine, mentre in due sagome il punto di partenza del profilo curvilineo è evidenziato da una tacca ben incisa nel legno (e ad uguale distanza dal lato superiore), nella terza abbiamo ancora una volta uno sfasamento (in avanti) del punto di partenza del profilo curvilineo. (Con quest'ultima sagoma sembra tuttavia che Duchamp intenda fornirci un piccolo indizio, perché qui manca l'incisione della tacca nel punto di partenza del profilo curvilineo: una difformità che balza subito all'occhio).


Non sappiamo se questi spiazzamenti nella disposizione degli elementi della composizione sono casuali o no (noi sappiamo tuttavia che Duchamp era molto meticoloso nella pianificazione e preparazione delle sue opere). Se no, possiamo pensare che ciò che viene nascosto così meticolosamente deve assolutamente avere una grande importanza. Nel caso contrario, possiamo almeno capire perché, fina ad ora, gli studiosi non hanno considerato il dato oggettivo che sto discutendo, in relazione alle nuove difficoltà che introduce per l’accettazione del protocollo operativo dichiarato da Duchamp per i Rammendi.


Quindi, comunque sia, le distanze fra i capi visibili dei fili sembrano essere un punto cruciale.


Ora, ammettendo che effettivamente Duchamp abbia lasciato cadere i fili, allora deve esservi stato un qualche dispositivo per mantenere costante la distanza fra i due capi nel corso della caduta. A questo punto si possono congetturare diverse possibili di tecniche esecutive, compatibili 1. con quanto possiamo vedere nei Rammendi; 2. con ciò che è descritto nella nota della Scatola Verde; 3. con quanto dichiarato da Duchamp in diverse interviste. A titolo di curiosità ne presento un paio.


Il primo ipotetico dispositivo può essere un semplice tutore, come nello schizzo in Fig. 4 -- il tutore dovrebbe cadere assieme al filo.




rose, 04


Fig4
Stoppages Device 1


Le eccedenze di filo rispetto alla regolare lunghezza di un metro, visibili alle estremità del dispositivo, costituirebbero i due tratti di filo necessari per l'imbastitura che in ogni Rammendo osserviamo nel lato posteriore delle tele (essi potrebbero avere già infilato l'ago necessario per l'imbastitura).

Un altro dispositivo, illustrato in Fig. 5, potrebbe essere costituito da due guide verticali; anche in questo caso potremmo avere le due eccedenze di filo per le imbastiture alle opposte estremità del filo.


rose--05.jpg


Fig5
Stoppages Device 2



Sebbene dobbiamo considerare questi dispositivi come mere congetture, dobbiamo almeno riconoscere che in tutti e due i casi, durante la caduta essi permetterebbero al filo: 1. di torcersi a proprio piacere; 2. di mantenere quella morbida linearità che con una caduta completamente libera pare impossibile ottenere, 3. di mantenere costante la distanza fra gli estremi del filo. Inoltre (fatta salva qualche maliziosa reticenza): 4. la procedura descritta dalla nota della Scatola Verde risulterebbe veritiera, 5. Duchamp non avrebbe mentito nelle interviste.

Comunque sia, nei Tre Rammendi Tipo possiamo considerare due punti fissi A e B, e tre linee che passano per essi, come mostra la Fig. 6.


rose--06.jpg


Fig6
Axiom of three lines running through two fixed points



Ciò può evocare alla nostra mente l'assioma euclideo dell'esistenza e unicità della retta per due punti. Come è noto, il motivo dei Rammendi ricompare spesso nell'opera di Duchamp, e basandosi su questo elemento, egli sviluppa numerosi ed importanti concetti. Non sembra essere arbitrario pensare a quest'opera come una sorta di assioma a partire dal quale Duchamp deduce la costruzione dell'intero edificio della sua opera (geometrico, ma non solo). Ma, cosa asserirebbe questo assioma?

Col suo modo strambo e apparentemente ingenuo, pare che Duchamp intenda rimuovere dall'assioma euclideo l'assunto di unicità della retta per due punti: le rette per due punti sarebbero infinite, tutte quelle ottenibili dal caso attraverso la caduta del filo, ed i Tre Rammendi starebbero in rappresentanza di esse (dopo tutto occorre ricordare che spesso in Duchamp il numero 3 sta per molteplicità o infinità). Di fatto sappiamo da tempo dell’interesse di Duchamp per le geometrie non euclidee. Henderson afferma che: Per Duchamp le geometrie n-dimensionali e non euclidee erano stimoli per andare al di là della pittura a olio tradizionale per esplorare le relazioni fra le dimensioni e anche per riesaminare la natura della prospettiva tridimensionale. Come Jarry prima di lui, anche Duchamp trovò qualcosa di deliziosamente sovversivo nelle nuove geometrie, con i loro cambiamenti di così tante ‘verità stabilite’. (341)


Comunque, l'operazione concettuale di Duchamp è meno ingenua di quanto possa sembrare a prima vista. In geometria, concetti come punto, retta, piano e così via non vengono definiti: essi sono enti o concetti primitivi; essi sono indirettamente definiti dando le loro regole d'uso, che sono assiomi e teoremi; in altre parole, in una assegnata geometria, retta, punto, o piano… possono essere qualunque cosa che si comporti esattamente secondo gli assiomi e i teoremi di quella geometria. Ad esempio, nel celebre modello di Poincaré di geometria iperbolica, piano è rappresentato da un cerchio, e retta è un particolare arco di circonferenza. Nei Tre Rammendi Tipo di Duchamp sembra esservi una consapevolezza di questo aspetto; d'altra parte è noto che Duchamp amava leggere testi di geometria e in particolare conosceva alcuni aspetti del pensiero di Poincaré, come anche Shearer ha evidenziato in Marcel Duchamp's Impossible Bed and Other 'Not' Readymade Objects… (26--62).


Tuttavia, ciò che interessa nella prospettiva di questo articolo, non è tanto il possibile contenuto non euclideo dell'assioma dei Rammendi, ma la rimozione dell'assunto di unicità. Attraverso questo assioma Duchamp sembra affermare un nuovo principio: quello della ripetizione, o più precisamente quello della iterazione di uno stesso procedimento seguendo accuratamente una stessa regola.


1b. Reticolo di Rammendi



I Rammendi ricompaiono in una nuova opera elaborata nel medesimo periodo: il Reticolo di rammendi (1914) (Fig. 7).


rose--07.jpgFigure 7
Marcel Duchamp, Network of Stoppages, 1914



Il reticolo è dipinto sulla seconda versione incompiuta del giovanile Giovane e Fanciulla in Primavera (1911) (Fig. 8).




08_big.jpg
Figure 8
Marcel Duchamp, Young Man and Girl in Spring, 1911



Cominciamo col notare che rispetto all'orientamento originale di Giovane e fanciulla in primavera lo sfondo del Reticolo è ruotato di 90°. (Fig. 9) E' noto che la rotazione ad angolo retto in Duchamp ha importanza e significato del tutto particolari (vedi per esempio Gould & Shearer); questa rotazione usualmente denota il passaggio da uno spazio ad n dimensioni ad uno ad n+1 dimensioni (perché l'aggiunta di una nuova dimensione richiede l'aggiunta di un nuovo asse cartesiano, perpendicolare a ciascuno dei precedenti). In questo caso abbiamo il passaggio dalla monodimensionalità di ciascun Rammendo alla bidimensionalità del Reticolo. Ma più in generale in Duchamp la rotazione a 90° indica che siamo in presenza di un salto qualitativo. Cerchiamo allora di capire che tipo di salto vediamo del Reticolo.

09_big.jpg
Figure 9
Young Man and Girl in Spring (1911), rotated 90°


La tesi che sostengo è che con questa opera in modo intuitivo Duchamp focalizza ulteriormente un nuovo concetto, che oggi chiamiamo ricorsione, e che in forma latente egli stava elaborando da qualche anno, come vedremo.

Di fatto nel Reticolo Duchamp utilizza ricorsivamente i Rammendi: abbiamo i tre Rammendi ripetuti tre volte, organizzati in terne e con una gerarchizzazione espressa da un grafo ad albero piuttosto astratto, che sembra sottolineare una diramazione.


La stessa diramazione è la cifra formale unificante del dipinto Giovane e fanciulla in primavera, sebbene qui la diramazione abbia lo specifico significato di sdoppiamento: infatti tutta la composizione è basata su un motivo a forma di Y. In accordo con La sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, anche, dobbiamo far risalire questa cifra al simbolismo alchemico, dove Y sta per androgino (Schwarz, 111). Sia il Giovane che la Fanciulla levano le braccia aperte in una Y; i loro stessi corpi hanno una innaturale disposizione obliqua, che se osservata capovolta mostra nuovamente le diramazioni di una Y. Alla base della composizione abbiamo due archi diramanti, mentre alla sommità troviamo le diramazioni di un albero.


Al centro della composizione c'è una forma circolare all'interno della quale vediamo una piccola figura umana; da questa forma circolare parte l'albero con le sue diramazioni; quindi se guardiamo alle due figure del Giovani e della Fanciulla come al prolungamento di tali diramazioni, esse costituiscono le diramazioni della piccola figura umana al centro della composizione. (Secondo Schwarz gli archi diramanti sono glutei, la figura circolare rappresenta Mercurio nell’ampolla, e l’albero con le sue ramificazioni rappresenta un fallo; infine, il percorso che ho descritto dovrebbe essere letto all'inverso, come il desiderio dei giovani di ricongiungersi in una primordiale unità androgina).


Qualunque interpretazione si dia del dipinto, esso presenta un dato oggettivo: quello di una cascata di sdoppiamenti, a cui guardo come un antecedente formale del motivo della ricorsione. Inoltre si noti che le forme sferiche suggerite dagli archi alla base della composizione sono ripetute, sia dall'ampolla, sia dai numerosi cespugli fioriti dello sfondo; e, cosa più interessante, all'interno dei cespugli sferici osserviamo numerose infiorescenze sferiche (come nell'ortensia). Così abbiamo un nuovo suggerimento di ricorsione: fiori sferici, all'interno di infiorescenze sferiche, all'interno di cespugli sferici, assieme ad altre forme sferiche. Per di più qui abbiamo una prima evidenza di quelle ripetizioni su scala ridotta (cespuglio, infiorescenza, fiore) che discuteremo più avanti.


Il motivo sferico è a sua volta connesso con un ulteriore importante motivo: quello della circolarità. Seguiamo ancora una volta nel dipinto la cascata di sdoppiamenti: i due archi in basso (come getti di una fontana) sostengono il cerchio contenente la piccola figura umana, a partire dal quale cresce l'albero diramante; questa diramazione ricade verso il basso attraverso la diramazione delle due figure dei giovani, che a loro volta poggiano i piedi proprio sui due archi alla base della composizione; in altre parole possiamo vedere in questo dipinto una sorta di moto convettivo, che ritorna circolarmente al punto di partenza.


Dunque, eseguendo il Reticolo di Rammendi sulla copia (incompiuta) di Giovane e fanciulla in primavera, Duchamp puntualizza gli antecedenti formali dell'opera. Possiamo sottolineare la stretta continuità fra le due opere osservando che l'unico dettaglio ben definito della copia è il busto della fanciulla con le sue braccia aperte: questa ramificazione umana è innestata con perfetta continuità sulle diramazioni del reticolo. Questo innesto (ricorsivo) di una opera su un'altra opera costituirà anche negli anni a venire uno degli elementi distintivi del modo di operare di Duchamp.


Aprendo il paragrafo abbiamo detto che in Duchamp le rotazioni di 90° sono speciali segnali, per mezzo dei quali viene allertata la nostra attenzione. Vediamo quali significati può avere in questo caso. L'inarcamento del busto e la posizione delle braccia della fanciulla denotano una postura eretta che tuttavia è chiaramente contraddetta dall'orientamento del quadro; come a dire: non interessa l'elemento figurativo della ragazza, ma il motivo formale della diramazione. Dunque, nel passaggio dai Giovani al Reticolo Duchamp ci chiede di focalizzare l'attenzione sull'aspetto concettuale (della ricorsione), mentre l'elemento narrativo (il mondo psichico dei due giovani e le vicende connesse) è apertamente confinato sullo sfondo (ma chiaramente non rimosso): questo passaggio all'astrazione è un primo salto di qualità.


Il secondo salto qualitativo si ha nel passaggio da una iterazione su base 2 (sdoppiamenti) ad una ricorsione su base 3 (tre volte tre Rammendi). Abbiamo già ricordato che per Duchamp 3 spesso significa molteplice o infinito.


Non riesco a vincere la tentazione di proporre qualche una congettura interpretativa: stiamo forse osservando la Sposa supina che leva le braccia nel delirio sei sensi, soggiacendo all'abbraccio tentacolare dello Scapolo? O forse il Reticolo non rappresenta dei tentacoli ma delle fiamme? Della passione o della punizione? Siamo forse testimoni della progressiva messa a fuoco da parte di Duchamp di quell'innesto uomo-macchina che ci verrà compiutamente rappresentato nel Grande Vetro? (Fig. 10)


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Figure 10

Marcel Duchamp, The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even

[a.k.a. The Large Glass], 1915-23


Comunque sia, la prossima stazione dell'odissea dei Rammendi è segnata da una nuova rotazione a 90°, per mezzo della quale il Reticolo di Rammendi viene prospetticamente proiettato su un piano orizzontale e diviene il sistema dei Capillari nell'Apparato Scapolo del Grande Vetro. Il salto di qualità connesso a questa nuova rotazione non ha bisogno di essere sottolineato. Esso comporta (fra altre importanti considerazioni) l'esportazione del principio del 3 (e quindi anche del 9) al Grande Vetro, a cominciare dagli Stampi Maschi (Fig. 11), che devono essere uno per Capillare, quindi appunto 9, mentre sappiamo dalla lettura delle note della Scatola Verde che nel progetto iniziale erano solo 8.


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Figure 11
Marcel Duchamp, Nine Malic Moulds, 1914-15

 

 

1c. Tu m'

Nel 1918 Duchamp realizza il suo ultimo dipinto Tu m', in cui riprende e elabora ulteriormente le tematiche che nello stesso periodo sviluppa nel Grande Vetro. All'interno del dipinto (di cui Schwarz, 1974, ha fornito una esauriente e convincente interpretazione) ricompaiono i Rammendi in una strana composizione che voglio analizzare in questo paragrafo.


Sulla sinistra del dipinto e in basso abbiamo una rappresentazione delle sagome dei Rammendi; qui sembra che Duchamp voglia giocare a carte scoperte: le sagome sono tutte e tre accuratamente allineate, in modo da evidenziarne le uguali lunghezze. I Rammendi sono direttamente rappresentati altrove nel dipinto, come vedremo oltre. Tuttavia Duchamp usa solo due delle tre sagome, la prima e l'ultima; quella centrale, qui non utilizzata, è la stessa che ci aveva ingannato nei Tre Rammendi Tipo (forse un'espiazione?)


Una mano col dito puntato, dipinta approssimativamente al centro della composizione, indica chiaramente la parte destra, dove, a colpo d'occhio, riconosciamo chiaramente i Rammendi; essi sono disposti nuovamente a coppie, e formano quattro coppie: il Rammendo rosso (corrispondente alla sagoma più in basso) e il Rammendo nero (sagoma più in alto). Nelle due coppie più in alto (una coppia di coppie) i Rammendi hanno lo stesso orientamento, mentre nelle coppie più in basso (altra coppia di coppie) i Rammendi sono disposti con orientamenti differenti. Così, abbiamo una coppia di coppie di coppie: un altro suggerimento di ricorsività, sebbene nuovamente a base 2.


Ricordiamo che abbiamo già osservato la stessa oscillazione fra 2 e 3 come base numerica della ricorsione nelle note della Scatola Verde, dove Duchamp prevedeva solo 8 (=23) Stampi Maschi ( da cui dovevano partire 3 capillari per ogni Stampo) mentre la scelta definitiva sarà 9 (=32,  uno per ogni Capillare). Ma questa scelta non è definitiva, come testimonia il ritorno al 2 in Tu m'.


Torniamo alla descrizione del dipinto. I Rammendi paiono fluttuare liberamente nella superficie del dipinto. Da essi si dipartono perpendicolarmente dei raggi colorati da cui irradiano delle circonferenze (composti alla Kandinsky, suggerisce Schwarz). I raggi ci danno prospetticamente la dimensione della profondità, e sembrano alludere vagamente a evolute e evolventi di una curva, che Duchamp può aver visto sui testi di geometria. O, seguendo Henderson i raggi con le loro irradiazioni potrebbero essere una allusione alla presenza di Elettricità. In King and the Queen surrounded by Swift Nudes (1912) and the Invisible Worldof Electron dice che: "simili immagini circolari o spiraliformi continuerebbero a servire a Duchamp in numerose opere susseguenti come indicatrici della presenza di elettricità o magnetismo."


Considerando la profondità suggerita dai raggi colorati, la nostra attenzione è attratta da uno strano quadrilatero sghembo color latte, appena percepibile rispetto ad uno sfondo quasi del medesimo colore. Notiamo così che le quattro coppie di Rammendi si dipartono esattamente dai quattro vertici del quadrilatero, perpendicolarmente ad esso, venendo così a formare uno strano prisma in prospettiva. Il fatto che rammendi e quadrilatero debbano essere considerati come un tutto unico è prospetticamente sottolineato dal comune punto di fuga, posto sul margine inferiore del dipinto alla destra della mano indicante. Dunque, Duchamp attira la nostra attenzione sullo strano prisma (vedi Fig. 13).


rose--13.jpgFigure 13
A prism in perspective with shared vanishing point,
Tu m' (1918), detail




C'è una interessante ambiguità (probabilmente voluta) nella scelta del sistema di rappresentazione di questo strano prisma. Ne abbiamo già indicato l'impianto prospettico col suo punto di fuga. Ora, secondo le regole della prospettiva, i rammendi più lontani dovrebbero essere prospetticamente scorciati, ma l'assioma dei Rammendi tipo impone di conservarne rigidamente le lunghezze. Di conseguenza, Duchamp non disegna (non può farlo) la seconda faccia del prisma (parallela alla prima color latte) perché ciò determinerebbe un secondo punto di fuga, come mostrato in Fig. 14.


rose--14.jpgFigure 14
Second vanishing point of the prism, Tu m' (1918), detail


Ciò comporta una visione assonometrica e non prospettica.Dunque il Prisma di Tu m'è rappresentato contemporaneamente sia attraverso un sistema prospettico che assonometrico, e delimita quindi uno spazio ambiguo, che per di più sembra chiuso ma in realtà è aperto. D'altra parte, essendo i Rammendi delle generalizzazioni di segmenti o di rette, c'era daaspettarsi che lo spazio delimitato dal prisma avesse qualche proprietà generalizzata rispetto ad uno spazio ordinario. Ma devo alla acuta capacità di osservazione di Gi Lonardini, mia moglie, la scoperta della principale e straordinaria proprietà di questa regione dello spazio. Per comprenderla dobbiamo volgere l'attenzione alle ombre dei ready-made dipinte nella composizione.



A partire dalla sinistra del dipinto abbiamo l'ombra della Ruota di bicicletta del 1913 (Fig. 15)


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Figure 15

The shadow of Bicycle Wheel (1913) in Tu m' (1918), detail

 


(che starebbe per Duchamp, nell'interpretazione di Schwarz), poi osserviamo l'ombra del Cavatappi del 1918 (Fig. 16)



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Figure 16

The shadow of Corkscrew (1918) in Tu m' (1918), detail




(secondo Schwarz sarebbe il fallo dello Scapolo-Duchamp, che desidererebbe consumare l'incesto violando l'intimità della sposa, e questo sarebbe il significato del trompe l'oiel dello strappo al centro della composizione) e infine sulla destra l'ombra della Cappelliera del 1917 (Fig. 17) (essendo appesa al soffitto simbolizzerebbe l'impiccagione quale punizione per l'incesto, ancora una volta secondo Schwarz).


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Figure 17

The shadow of Hat Rack (1917) in Tu m' (1918), detail



Per la verità nel quadro è presente (quasi) sempre una quarta ombra, quella vera (cioè non dipinta) proiettata da un vero  scovolino per bottiglie piantato nel centro dello strappo, perpendicolarmente alla tela; e con questa quarta, anche le 3 ombre sarebbero ricondotte ricorsivamente a 4 cioè ad una potenza di 2.

Ho provato un certo imbarazzo nel constatare che l'ombra della Cappelliera sembra eseguita maldestramente rispetto alle altre ombre, la cui esecuzione invece è impeccabile. Poi ho notato che mentre nelle fotografie del ready-made la cappelliera ha sei steli, nell'ombra proiettata sembra di scorgerne (ma in modo incerto) più di sei: uno più marcato che mostra la sua tipica arricciatura, ed altri sfumati e solo leggermente accennati… L'interpretazione di Gi è che stiamo osservando l'ombra dell'ombra. Questa è la straordinaria proprietà (ricorsiva) dello spazio generalizzato racchiuso dal prisma.


Una vicenda della biografia di Duchamp pare in relazione con quanto osservato, e sembra indicare una persistente presenza delle tematiche nel pensiero di Duchamp nel periodo in cui elaborò Tu m'. Ho appreso infatti dalla lettura delle Effemeridi di Gough-Cooper & Caumont (1993) che il 23 luglio del 1918 (l'anno di Tu m') Duchamp regalò all'amica Carrie Stettheimer per la sua casa delle bambole una miniatura in inchiostro e matita di 9.5x5.5 mm del proprio Nudo che discende le scale n.2 del  1912 (Fig. 18), che venne collocato nella sala da ballo miniaturizzata. Così, possiamo osservare la stessa idea di ripetizione in scatola che abbiamo incontrato in Tu m', ma qui abbiamo inoltre l'importante specificazione della scala ridotta.


rose, 18

Figure 18
Marcel Duchamp, Pencil-ink miniature of Nude Descending a Staircase, No. 2, 1918

 



Possiamo riconoscere tracce dell'idea della ripetizione in scatola e su scala ridotta anche in altre opere. Ricordiamo Le delizie di Kermoune, del 1958 (Fig. 19): Duchamp creò un grafo ad albero che ricorda il Reticolo di Rammendi, composto di aghi di pino fissati ad un foglio con la stessa tecnica a imbastitura usata per i Rammendi; era un regalo di ringraziamento per l'ospitalità ricevuta da Claude e Bertrande Blancpain a Kermoune.


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Figure 19
Marcel Duchamp, The Delights of Kermoune, 1958



Apprendo dalla lettura delle Effemeridi (alla data 1-8-58) che Duchamp pose l'opera in una scatola grigia nascosta nell'armadio degli ospiti.


Nell'idea di ripetizione in scatola e su scala ridotta sembra di poter leggere una sorta di presagio dell'idea di frattale. In una nota della Scatola Verde leggiamo:


Fare un armadio a specchi

Fare questo armadio a specchi per stagnola.


Così, se l'armadio dei Blancpain fosse stato un simile armadio (con specchi interni), allora la scatola grigia sarebbe stata ripetuta infinite volte, proprio come in un frattale.


Il tema della ripetizione in scala ridotta è anche sviluppato a fondo nella Boite-en-valise del 1941 (Fig. 20).




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Figure 20
Marcel Duchamp,
Boîte-Series F, 1966


Qui notiamo un'altra suggestiva ripresa del prisma dalle strane proprietà di Tu m': guardiamo il modello del ready-made Perché non starnutire Rose Sélavy? (del 1919) contenuto nella Boite-en-valise (Fig. 21).


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Figure 21
Marcel Duchamp, Reproduction of
Why Not Sneeze Rrose Sélavy
(1920)
for the Boîte, 1940



L’articolo Marcel Duchamp: A Readymade Case for Collecting Objects of Our Cultural Heritage Along with Works of Art sottolinea una importante proprietà dell'opera: il punto di partenza è una foto (2D) del celebre ready-made; la piccola gabbietta è ritagliata lungo i lati destro, alto e sinistro; questa sagoma è poi ripiegata su uno sghembo prisma solido (3D) che ha la sezione simile a quella del prisma di Tu m'. Dunque abbiamo superficie 2D che simula un oggetto 3D (per mezzo della piega lungo il lato frontale superiore della gabbietta, così da sovrapporsi al corrispondente lato del prisma). Così, la dimensionalità di questo oggetto è un numero fra gli interi 2 e 3.


Si tratta di una sorprendente coincidenza: l'idea di ripetizione (dell'ombra, in Tu m', dell'oggetto in scala ridotta, nella Boite-en-valise) è esplicitamente associata ad una dimensionalità non intera, cioè ad una dimensionalità frattale: un'altra suggestiva proprietà dello strano prisma. Altrove troviamo un esplicito riferimento ad una dimensione non intera da parte di Duchamp, nei versi composti per Mina Loy; il titolo è Mina's poems à 2 dimensions ½ (Effemeridi, 14 aprile 1959) (Fig. 22).


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Figure 22
Marcel Duchamp,
Mina's Poems  2 Dimensions
, 1959

Un chiarimento è ora necessario per evitare possibili fraintendimenti. Non desidero affermare né che le opere di Duchamp esaminate (e altre che considereremo nel seguito) siano frattali (i frattali sono oggetti geometrici ben definiti, con diverse ben definite proprietà che non possiamo notare in Duchamp: questo è assolutamente ovvio), né che Duchamp abbia chiaramente intuito un tale concetto. Dobbiamo solo ammettere che l'idea di ripetizione ricorsiva in scala ridotta è oggettivamente collegata a quella di frattale, così che, in presenza dell'idea di ricorsione (anche se solo intuita) l'idea di frattale deve assumere una qualche evidenza, almeno in una forma embrionale. Io penso (ed ho iniziato a mostrare altrove, Giunti, 2001b) che nella misura in cui l'intuizione della ricorsione da parte degli artisti diviene più definita e precisa, allora anche la rappresentazione di frattali risulta essere consapevole, più chiara e più pertinente (come ad esempio nei casi di Klee ed Escher).


Tuttavia, dobbiamo riconoscere che l'intuizione di una dimensionalità non intera, specialmente se relazionata ad una ripetizione su scala inferiore, è una intuizione straordinaria, che non possiamo notare (per quanto ne so) in nessun altro artista dello stesso periodo. Si ricordi inoltre che il primo libro di Mandelbrot sui frattali, dove egli li definisce in termini di dimensionalità non intera, fu pubblicato nel 1975. Infine torniamo a Tu m' per un'ultima considerazione. Una fotografia che ho visto nelle Effemeridi (9 gennaio 1918) mostra la libreria di Miss Dreier prima dell'installazione di Tu m' (Fig. 23). In primo piano vediamo chiaramente una gabbia per uccelli. Forse lo strano prisma era già in partenza concepito come una voliera.


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Figure 23
Photograph of Katherine Dreier's library room before the installation of Tu m', 1918
 


1d. Due brevi divagazioni circolari


Sebbene il tema della ricorsione sia frequentemente collegato al motivo del Reticolo (vedremo nel seguito altri esempi riferibili all'odissea dei Rammendi), riconosciamo la sua eco in altre opere nel corso dell'intera carriera artistica di Duchamp. Qui voglio discutere altre due opere, entrambe riferibili alla sua biografia; queste opere che si collocano emblematicamente agli opposti estremi della sua vita artistica: Giovane triste in treno del 1911 (Fig. 24)



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Figure 24

Marcel Duchamp, Sad Young Man on a Train, 1911

 



e Ritratto di famiglia del 1964 (Fig. 25).



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Figure 25

Marcel Duchamp, Family Portrait (1899), 1964

 

 

 

Giovane triste in treno è un autoritratto (in cui sono evidenziati due oggetti di affezione: il bastone da passeggio e la pipa). Leggiamone la descrizione di Duchamp:  "Prima di tutto c'è l'idea del movimento del treno, e quindi quella del giovane triste che si muove nel corridoio; per cui si hanno due movimenti paralleli corrispondenti."
L'idea di un moto nel moto è certamente ricorsiva, ed è sottolineata dall'allitterazione presente nella titolazione originale: Jeune homme triste dans un train. Questa allitterazione (triste, train) è stata analizzata in un importante articolo da Gould (2000) che richiamerò estensivamente nella prossima sezione di questo articolo. Egli fra l'altro si interroga sul perché il giovane uomo dovrebbe essere triste? Egli ipotizza diverse risposte. Qui richiamerò due di esse.


Il primo motivo di tristezza è che il giovane sente col proprio moto di aggiunge solo poca cosa al moto generale del treno. Questa congettura di Gould conduce a mia volta ad una ulteriore congettura. Se guardiamo al moto nel moto come ad una precoce intuizione dell'idea di frattale, allora la tristezza del giovane sarebbe in relazione con l'intuizione di una importante caratteristica dei frattali: quella dello scaling dimensionale. Così, la tristezza del Giovane è simile a quella di Achille, che nel paradosso di Zenone, non può raggiungere la tartaruga.


Il secondo motivo di tristezza è che nel suo moto il giovane è doppiamente vincolato (dai binari e dal corridoio della carrozza) ad un percorso lineare, che Duchamp sente come fortemente limitativo: così sembra esservi la percezione della limitatezza della linearità; di fatto lo stesso anno, in Giovane e fanciulla in primavera, Duchamp introduceva l'importante elemento della circolarità nella iterazione, attraverso le turbolenze convettive che già abbiamo indicato in un paragrafo precedente.


Veniamo al Ritratto di famiglia, che lo ritrae fanciullo assieme ai genitori ed alle sorelline. Si tratta di una vecchia fotografia di famiglia (1899) (Fig. 26) , che Duchamp ritaglia secondo uno strano contorno curvilineo.

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Figure 26
Duchamp's family photo, 1899


Possiamo riconoscere una tecnica alla Arcimboldo, ampiamente sperimentata anche da Salvador Dalì (ad esempio nel celebre Mercato di schiavi con apparizione invisibile del busto di Voltaire (Fig. 27), o anche meglio nel Volto della guerra, opere entrambe del 1940): si tratta infatti di un busto umano composto da tanti busti umani: ricorsione ovunque (e qualcosa che ancora ricorda i frattali).

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Figure 27
Salvador Dalì,  Slave Market with Invisible Apparition of Voltaire's Bust, 1940


Le teste della madre e della piccola Magdeleine formano gli occhi, mentre la testa del giovane Marcel è la bocca; infine Suzanne, Yvonne ed il padre Eugene formano le braccia ed il torace. Per adesso sorvoliamo sul significato (non solo psicologico) dell'esclusione dei fratelli maschi da questa composizione (ne riparleremo in un paragrafo successivo, dopo aver acquisito nuovi elementi). Ora limitiamoci alle conseguenze sul piano formale di questa esclusione: notiamo che la sagoma formata dall'esclusione di un fratello forma in modo funzionale l'incavo dell'ascella del grande busto di busti, mentre la permanenza del secondo fratello e delle altre persone presenti nella foto originale avrebbero reso irriconoscibile o almeno deformato la sagoma del grande busto.


Ora, voglio osservare che Duchamp ha ottenuto questa opera a partire dalla fotografia di una famiglia (la propria); in questo modo la ricorsione, che abbiamo notato sul piano formale, è ricollegata, sul piano dei contenuti, alla ricorsione ciclica del perenne ricambio generazionale, in cui i figli diventano i nuovi genitori, che avranno nuovi figli che diventeranno nuovi genitori… Dunque abbiamo l'associazione di ciclicità e ricorsione. Questa associazione è rinforzata dal fatto che la sagoma che si viene a creare attraverso il ritaglio operato non ha più nulla delle rigidità rettilinee a senso unico del primo autoritratto, ma ha piuttosto, come giustamente nota Clair (2000) le curve e le rotondità di un famoso readymade: quelle della Fontana del 1917. Ritorneremo più avanti su questa importante osservazione.


Infine, se guardiamo al Ritratto di famiglia come alla filogenesi di Duchamp, allora l'autoritratto di Giovane triste in treno potrebbe illustrare la sua ontogenesi (dopo tutto questo autoritratto non è statico ma una rappresentazione piuttosto dinamica della sua evoluzione temporale). Se così fosse, dovremmo riconoscere l'implicita affermazione che entrambi i processi (filogenesi e ontogenesi) condividono le medesime modalità ricorsive.



 

Roberto Giunti

 

 

 

[A cura di Elisa Cardellini]




LINK al saggio originale:

R. rO. S. E. Sel. A. Vy

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27 agosto 2009 4 27 /08 /agosto /2009 10:17

Con i pochi saggi già riprodotti nella categoria "Dada dalla rete" nel presente blog, pochi ma estremamente densi di analisi ed informazioni, credevamo di aver esaurito quanto in lingua italiana esista a proposito di dadaismo. È invece con sorpresa unita a gioia che abbiamo scoperto il presente saggio approfondendo altri autori ed argomenti legati a dada. Ve lo propongo quindi all'attenzione di chi sa apprezzare i rari contributi esistenti concernenti questo straordinario movimento che inesorabilmente volge al suo centenario. Va da sé che il presente saggio trova un eccellente complemento con quello di Maurizio Nicosia La voce della luce che abbiamo presentato mesi fa e che a sua volta raccomandiamo vivamente.


Rrose Sélavy e la gnosi erotica

 

Antonio Castronuovo



 

Nel 1920 Marcel Duchamp si duplicò scegliendo sembianze femminili: quelle di Rose Sélavy. Con questo nome è indicato il copyright di Fresh Widow (Fig. 1), ready made derivante dal montaggio artigianale di una finestra verde in stile francese con pannelli di cuoio nero. Quei pannelli, per insistenza di Duchamp, dovevano essere lucidati ogni giorno; e forse per questa ragione, per il quotidiano e lubrico strofinamento di quella pelle, la French Window diventò, nella trasformazione di Duchamp, una Fresh Widow, vale a dire una Vedova impudica.


 

Da quel momento le opere di Rose si moltiplicano. Al suo nome è legato, sempre nel 1920, l’apparecchio ottico a motore detto Rotative plaques verre (optique de précision) (Fig. 2). Il ready made del 1921 costituito da una gabbietta con cubetti di marmo e osso di seppia è battezzato Why not sneeze Rose Sélavy? (Fig. 3). Frasi sensuali della donna sono scritte a spirali di lettere bianche su nove dischi neri nel cortometraggio Anémic Cinéma (Fig. 4) La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (Fig. 5) contenente note e riproduzioni in facsimile, meglio conosciuta come la Boîte verte.


 

Ma ancora: nell’aprile 1939 uscì a Parigi in 515 copie un opuscolo di scritti di Marcel Duchamp intitolato Rrose Sélavy, collezione di “poils et coups de pied en tous genres”. girato presso Man Ray e proiettato il 30 agosto 1926 in una sala cinematografica di Parigi: mentre girano, i dischi creano sensazioni pulsanti ed erotiche. Nel settembre 1934 la donna lancia anche le sue edizioni con un libro di perfetta—per quanto tardiva—espressione dadaista: una scatola detta La Marié mise à nu par ses célibataires, même (Fig. 5) contenente note e riproduzioni in facsimile, meglio conosciuta come la Boîte verte. Ma ancora: nell'aprile 1939 uscì a Parigi in 515 copie un opuscolo di scritti di Marcel Duchamp intitolato Rrose Sélavy, collezione di  "poils et coups de pied en tous genres".

 

 

 

Nel frattempo il nome di Rose si era trasformato in Rrose. L’evento è del 1921: un gioco di parole pubblicato a pagina 6 di “Le Pilhaou-Thibaou” (quindicesimo numero della rivista “391”) è firmato Rrose Sélavy. Picabia aveva estratto la frase da una lettera che Duchamp gli aveva inviato da New York a gennaio. Era la prima volta che a quel nome floreale veniva aggiunta una “r” e ciò non faceva che duplicare il personaggio appena nato. Fu sufficiente la semplice aggiunta di una consonante per delineare ancor meglio il mistero del doppio: una creatura appena nata cominciava subito a trasformarsi, a possedere una propria “biografia”.

 


 

Esiste anche documentazione fotografica di Rrose. Nel 1921 Man Ray collaborò al numero unico della rivista “New York Dada” pubblicando una fotografia che aveva scattato a Duchamp nelle vesti femminili di Rrose Sélavy: un cappellino con fascia a motivi geometrici e un elegante collare di volpe sorretto dalle mani che ne palpano il calore. La fotografia ritrae un viso dall’espressione inafferrabile: labbra atteggiate in un sorriso misterioso, occhi di sottile indifferenza. L’attraente cappellino era stato prestato a Marcel-Rrose da Germaine Everling, la compagna di Picabia: l’antiromantico Duchamp aveva scelto come segno più vistoso della sua trasformazione un copricapo che apparteneva a una donna il cui nome—Germaine—alludeva al nucleo rovente dell’illusione romantica: il germanesimo. Il sorriso indifferente di Rrose ricorda quello della Gioconda (Fig. 6): nel ready made L.H.O.O.Q. (Fig. 7) del 1919 Duchamp aveva già deformato la Gioconda disegnando a matita un paio di sottili baffetti su una riproduzione del celebre quadro di Leonardo [1].

 

Cosa rappresenti Rrose può essere chiarificato grazie alla dedica che appare sulla fotografia e che svela l’identità: «Lovingly, Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp». Fu dunque un altro io, da aggiungere a quello già esistente senza nulla nascondere. Tuttavia Rrose ambì a una personalità legale e presto si armò di un biglietto da visita:

Ottica di precisione
Rose Sélavy
New York – Parigi
Assortimento completo di
baffi e trucchetti

Non serve sapere che nell’emporio di Marcel-Rrose si vendono baffi a volontà per capire che lo pseudonimo puntava foneticamente in una direzione erotica: Rrose Sélavy suona infatti come “Eros c’est la vie” (“Eros: così è la vita”). Ma non solo di questo si trattava. In un colloquio con Pierre Cabanne, Duchamp espresse alcune illuminanti considerazioni: «Volevo cambiare la mia identità e dapprima ebbi l'idea di prendere un nome ebraico. Io ero cattolico e questo passaggio di religione significava già un cambiamento. Ma non trovai nessun nome ebraico che mi piacesse, o che colpisse la mia immaginazione, e improvvisamente ebbi l'idea: perché non cambiare di sesso? Da qui viene il nome di Rrose Sélavy. Oggi suona abbastanza bene, perché anche i nomi cambiano col tempo, ma nel 1920 era un nome sciocco. La doppia “R” ha a che fare con il quadro di Picabia Oeil Cacodylate (Fig. 8), esposto nel cabaret “Le Boeuf sur le Toit”—non so se è stato venduto—e che Picabia chiedeva a tutti gli amici di firmare. Non mi ricordo cosa scrissi, ma il quadro è stato fotografato e perciò qualcuno lo sa. Credo di aver scritto “Pi Qu'habilla Rrose Sélavy”». La frase che Duchamp scrisse sul quadro di Picabia suona foneticamente come "Picabia l'arrose c'est la vie". E ciò allarga il senso da “Eros c’est la vie” alla frase “Arroser la vie”, cioè “berci sopra, fare un brindisi alla vita” [2].

 

Ambedue i significati del nome rinviano alla visione della vita nutrita da Duchamp: se a una prima considerazione superficiale la trasformazione di Duchamp in Rrose Sélavy sembra innescare un vivace gioco di interpretazione, un’osservazione più precisa dimostra che la trasformazione coagula invece un’erotica duratura: quella derivante dalla gioia di vivere e di vagare liberamente col pensiero. Infatti, oltre a firmare alcuni ready made, Rrose scrive dei bon-mots, dei giochi di parole intenzionalmente senza senso, ma che a volte suonano altamente espliciti.

  

Rrose possiede dunque una personalità “linguistica” che nasce da un’idea precisa di linguaggio. In un’intervista apparsa su “L’Express” del 23 luglio 1964, Duchamp affermò: «Il linguaggio è un errore dell’umanità. Tra due esseri che si amano la parola non esprime quanto di più profondo essi provano. La parola è un sassolino usurato che si applica a trentasei sfumature di affettività. Il linguaggio è comodo per semplificare ma è un mezzo di locomozione che detesto». «E tuttavia—ribatte l’intervistatore—con lo pseudonimo di Rrose Sélavy, lei si è interessato al linguaggio». «Era per divertirmi. Nutro un grande rispetto per l’umorismo, costituisce una sorta di salvaguardia che consente di passare attraverso tutti gli specchi» [3].



Cosa si realizza alla lettura dei detti di Rrose? Semplicemente la gioia di leggere qualcosa di sempre nuovo, un’esperienza che potrebbe ricordare quella di raccogliere frutti in un eden. Duchamp lo aveva preannunciato nel 1911 con la tela Jeune homme et jeune fille dans le printemps (Fig. 9): una scena di gioia pagana in cui due giovani nudi colgono liberamente frutti da una pianta che cresce in una natura lussureggiante. La questione di fondo è che solo la donna può farsi capire senza ricorrere al significato, come succede negli aforismi di Rrose. In altre parole, solo la donna è imprendibile. Come l’ironia.

 

Duchamp persegue una forma primitiva di eros: ciò è evidente dalla sua idea di matrimonio, inteso come vicolo cieco, come tomba dell’amore. La caricatura Dimanches del 1909 è a tal riguardo impietosa: la coppia matrimoniale, con il bambino appena nato, si riduce la domenica alla noiosa passeggiata in cui è l’uomo a spingere la carrozzina, mentre la moglie, di nuovo gravida, cammina stancamente al fianco. Sulla propria scelta di scapolo, attratto dalle donne ma respinto dal matrimonio, Duchamp dichiarò una volta a Pierre Cabanne: «Io mi resi conto fin da giovane che non ci si dovrebbe appesantire con troppa zavorra, con troppi lavori, con una moglie, con dei figli, una casa di campagna, un’automobile; per fortuna me ne convinsi subito. È per questo che ho potuto vivere con molta maggior semplicità, come scapolo, di quanto avrei fatto se avessi dovuto vedermela con tutti i problemi abituali della vita». Duchamp difese sempre questo senso di libertà, e scrivendo una volta ad Arturo Schwarz sul senso del matrimonio affermò: «L’ho evitato accuratamente fino all’età di 67 anni. Ho sposato una donna che, a causa della sua età, non poteva avere figli». Anche se in realtà si era già sposato nel 1927, rimanendo coniugato per l’irrisorio periodo di tre mesi. L’eros è per Duchamp una cosa seria; è ciò che sostituisce l’ironia assente. In un’intervista dell’8 dicembre 1961 Alain Jouffroy chiese a Duchamp se credeva che l’umorismo fosse indispensabile per la creazione dell’opera d’arte, e lui rispose: «In modo assoluto. Ci tengo particolarmente perché la serietà è cosa molto pericolosa. Per evitarla è necessario l’intervento dell’umorismo. L’unica cosa seria che potrei prendere in considerazione è l’erotismo. Quello sì che è serio!» [4].

  

Questa idea è alla base della filosofia di Rrose Sélavy, autrice che converte il pathos dell’aforisma in un piacere e l’emozione della scrittura in un pensiero. Al fondo della sua procedura c’è erotismo, perché l’eros scaturisce dalla situazione della continua novità: il pensiero diventa erotico quando si manifesta come pensiero in perenne formazione, e come tale emerge dai lavori di Duchamp del 1911 e 1912: Dulcinée; Jeune homme triste dans un train; Nu descendant un escalier. Per ambire alla novità erotica si deve utilizzare la lingua nei suoi componenti elementari. La lingua è per Rrose quel cioccolato che Duchamp macina nella Broyeuse de chocolat (1914) per ottenere una polvere di cacao che, con l’aggiunta dello zucchero umoristico, diventa una polvere dolce utilizzabile in molte miscele, cosa non praticabile col cioccolato solido.



C’è inoltre un ready made di Duchamp che può essere letto in senso antifrastico: l’Egouttoir del 1914, lo scolabottiglie circolare (Fig. 10) che sta in piedi senza appoggi, oggetto molto comune nella Francia dei vini. Esso sembra rappresentare ciò che non deve succedere nel linguaggio: gli aforismi di Rrose non devono prosciugarsi come le bottiglie infilzate a testa in giù nello scolabottiglie. Egouttoir si riferisce ovviamente al verbo égoutter, sgocciolare, che a sua volta richiama molto da vicino égoûter, togliere gusto: se una cosa viene prosciugata perde tutto il gusto. La procedura erotica implica la conservazione del gusto: erotica è la differenza, non la ripetitività. Uno dei punti fermi della biografia di Duchamp è la ragione del suo abbandono della pittura: interrogato in merito, rispondeva sempre in maniera simile. Nell’intervista apparsa il 23 ottobre 1965 sul giornale spagnolo “Siglo XX” rispose che era «per via della ripetizione: si possono fare tre o quattro cose eccezionali, ma tutto il resto è ripetizione». Nell’intervista al “Paris-Normandie” del 12 aprile 1967 disse che «non c’è nulla di più noioso della ripetizione. Tutto ciò che non è inusuale o insolito cade nell’oblio». Ma l’erotica implica anche la necessità di sfuggire al gusto fermo creato da una tradizione statica. Nel cortometraggio A conversation with Marcel Duchamp mandato in onda dalla NBC il 15 gennaio 1956, Marcel affermò a un certo punto che esisteva il pericolo di giungere a una specie di gusto: «Se si ripete un certo numero di volte, la cosa diviene gusto».[5].

 

Se c’è un rischio che Duchamp ha sistematicamente evitato è quello di ripetersi: tentò di continuo strade nuove di espressione, fino al silenzio volontario. Duchamp ci prende per mano e ci conduce a una lussuosa visione del Nulla: nonostante questo, la sua opera scatena concitazione. Succede per il corpo del Jeune homme triste dans un train, e per quello nudo che scende le scale: entrambi assumono una forma sempre diversa, come le idee, per loro natura liquide ed eternamente mobili. Duchamp non ha scelto di ritrarre forme ferme, istantanee di un tempo preciso, così come gli aforismi di Rrose non sono forme linguistiche correlate alla logica comune.

 

Duchamp elimina ogni riferimento di autorità: lo fa sciogliendo il significato in una pasta molle ad uso libero. Un uomo (l’artista) traccia il segno e lascia che l’altro uomo (il fruitore) ne tragga il significato che vuole. C’è dunque l’Uomo, carnoso e tondo; c’è il Segno, geometrico e scricchiolante come il pennino che lo traccia; ci sono infine i Significati, mare del Nulla. Col Segno si può creare autorità: si possono creare le utopie e le teologie. Assegnare un Significato al Segno è come stabilire un rapporto di autorità. Ma si può anche liberare il Segno dall’autorità: ecco l’azione erotica, il compito dell’indifferenza, la nullificazione del senso. Se si toglie al Segno il Significato, appare la purezza. Duchamp è giunto a liberare—con gesto d’arte—il Segno dai Significati, e a lasciare al Segno la libertà di intridersi del Significato che arbitrariamente il fruitore gli assegna. E libertà del Significato è gesto d’arte, gesto “politico” nella sua essenza.

 

Nel Dictionnaire abrégé du surréalisme Éluard e Breton inserirono la definizione di Duchamp sul ready made: «Oggetto usuale promosso alla dignità di oggetto d’arte per la semplice scelta dell’artista». Ma Duchamp ricorre in altri punti del dizionario, e forse le iniziali M. D. che siglano la voce “Hasard” sono le sue: «Hasard en conserve». La definizione significa “Il caso in conserva”; potrebbe essere deformata in “Marmellata del caso” e vi si potrebbe trovare già un senso, certamente non voluto da Duchamp. Si potrebbe cioè pensare al fatto che il caso si mescola molto bene col restante caso a formare la marmellata di ogni singola esistenza. La conserva del caso di Duchamp è da lui raggiunta mediante un atto di puro arbitrio. Nella sua opera, egli induce l’osservatore a un’interpretazione, a fare un commento, ad aggiungere al dato (semmai il semplice dato del ready made) altri dati.

 

Tutto comunque è arbitrario, inutile, sterilmente inefficace. La produzione di Rrose (e di Duchamp) provoca uno stupore arcano, refrattario a ogni speculazione razionale. L’erotica di Rrose sfocia in una sterilità di sapore gnostico: c’è infatti una forma di celibato sterile nei detti di Rrose Sélavy. Sono frasi arbitrarie che scatenano un’idea, un’immagine, una reazione di commento, una serie di interpretazioni a loro volta sterili, inutilmente reiterate all’infinito. E ciò rinvia alla grande intuizione religiosa di Giordano Bruno: quell’universo infinito che contrasta con la necessità di universo finito su cui il Tomismo si reggeva. Bruno tuttavia investe la materia di divinità (panteismo), Duchamp dimostra invece che la materia è infinito Nulla. Bruno reclama un gesto di coscienza: farsi consapevoli che l’infinito è immagine del Dio presente in ogni granello di universo; Duchamp reclama invece un gesto di incoscienza: «L’incosciente è orfano, ateo, celibe» [6]. Solo mediante incoscienza si conserva il celibato e l’ateismo. Il celibe è figura dell’incredulo, come l’orfano è figura dell’abbandono al nulla. In ambito religioso Duchamp coltiva un puro ateismo, quello che lievita dal caso messo in conserva.

 

Ma se l’arbitrio domina l’agire di Duchamp, la sua scelta di sterilità è libera. Egli potrebbe scegliere di essere fertile; sceglie invece di essere sterile, e lascia che la moltiplicazione del nulla sia attuata da chi è fertile, cioè dagli “altri”. Egli lascia in eredità un castello: che sterilmente si moltiplichino le interpretazioni delle sue opere d’arte o—nel caso di Rrose—dei suoi aforismi. In tal modo stabilisce un rapporto a doppia direzione: lo sterile fa in modo che il fertile possa perpetuare la sua inutile fertilità; il fertile concede al celibe–sterile di restare tale: gli concede il piacere dell’onanismo (il celibe è onanista per definizione).

 

Non va considerato di secondaria importanza il fatto che nel biglietto da visita di Rrose il primo titolo sia quello aziendale di “Ottica di precisione”: è un chiaro invito ad assumere, nel commercio con Rrose, uno sguardo preciso che nulla tralasci, o che almeno non metta in seconda linea alcune osservazioni per le quali è necessario armarsi di un’ottica speciale.

Si tratta dell’ottica gnostica.

 

Idea gnostica è che l’uomo sia un grumo di luce acceso nella tenebrosa prigione del mondo, intriso di dolore e di male. L’uscita dal mondo è possibile solo con una purificazione, perseguibile anche mediante la trasformazione in una creatura diversa. Rrose è una creatura erotica e al contempo pura: con la sua nascita, come quella della Primavera di Botticelli dalle onde del mare, Duchamp approdò a una conquista inaudita di conoscenza e di visione. La sua trasformazione in un personaggio femminile non fu un sacrificio in nome della Grande Madre Mediterranea, ma la definizione gnostica dell’essere puro (cataro) come creatura che vive al di fuori del mondo.

 

Amante di tutte le forme moderne di espressione, anche Breton si soffermò più volte sulla figura di Duchamp. In Testimony 45, articolo apparso nel marzo 1945 sul numero speciale dedicato a Duchamp dalla rivista statunitense “View”, Breton si pose un quesito radicale: in quale misura, dopo l’apparizione della maggiore opera di Duchamp, La Marié mise à nu, sia legittimo continuare a dipingere come se essa non esistesse. L’apparizione di Duchamp diventa secondo Breton qualcosa di sempre più imperativo: «Essa tende a denunciare come obsoleta e vana la maggior parte della produzione artistica recente» [7].

 

Ecco l’azione purificatrice di Duchamp, il suo catarismo evangelico: fare tabula rasa di tutto, imporre la necessità del Radicalmente Nuovo. Lo fece incarnandosi in Rrose Sélavy e realizzando una Gnosi Erotica o, se si preferisce, una Erotica Gnostica: in ogni caso giungendo alla posizione più alta per capire cosa nel mondo—e nella vita—valga la pena sia tentato.

 


 

NOTE

 

[1] L’androginia della Gioconda coi baffetti è solo l’aspetto più vistoso di un fenomeno che ha sviluppi ben più profondi. Si veda il lungo articolo di Lanier Graham, Duchamp & Androgyny: The Concept and its Context in Tout–Fait. The Marcel Duchamp Studies Online Journal, vol. 2, n. 4, gennaio 2002. <http://www.toutfait.com/issues/volume2/issue_4/articles/graham/graham1.html> In questo ambito potrebbe anche rientrare l’alterazione sessuale di Etant donnés (del 1946–1966): i genitali femminili osservati attraverso i buchi del portone appaiono decentrati, come se la realtà artistica sia diversa da quella della natura. Ma tornando a Man Ray va notato che egli era il fotografo sia della nudità femminile sia di quel priapo fermacarte che esiste in versioni di marmo e di metallo. Fotografando Rrose, Man Ray attuava un mescolamento del femminile e del priapico, fino a ritrarre una creatura sessualmente ambigua e infertile. Se infatti il priapo fissa l’erezione in una gelida inettitudine così anche la donna eternamente nuda di Man Ray non solleva più tensioni fisiologiche e l’osservatore si trasforma in un gelido inetto.

[2] M. Duchamp, Ingénieur du temps perdu. Entretiens avec Pierre Cabanne, Parigi, Belfond, 1967, p. 118. La frase precisa scritta sul quadro di Picabia era “en 6 qu'habilla rrose Sélavy”; si può osservare una buona riproduzione del quadro in Arturo Shwarz, Almanacco Dada, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 340. Ma si veda anche Jennifer Gough–Cooper e Jacques Caumont, "Effemeridi su e intorno a Marcel Duchamp e Rrose Sélavy 1887–1968," nel volume Marcel Duchamp, Milano, Bompiani, 1993, alla data del 1 novembre 1921. 

[3] L’intervista del 23 luglio 1964 è pubblicata nelle citate Effemeridi, alla data. La produzione aforistica di Rrose Sélavy è raccolta in Marcel Duchamp, Marchand du sel. Ecrits de Marcel Duchamp, a cura di M. Sanouillet, Parigi, Le Terrain Vague, 1958 (traduzione italiana: Cava dei Tirreni, Rumma Editore, 1969) e in Duchamp du signe. Ecrits, a cura di M. Sanouillet, Parigi, Flammarion, 1994. Michel Sanouillet e Elmer Peterson hanno dedicato a queste frasi un intero capitolo del loro libro Salt Seller. The Writings of Marcel Duchamp, New York, Oxford University Press, 1973. 

[4] Per l’intervista di Cabanne cfr. Ingénieur du temps perdu, cit., p. 23. L’idea espressa a Schwarz è riportata in Le macchine celibi, a cura di Harald Szeeman, Milano, Electa, 1989, p. 189 nota 4. L’intervista dell’8 dicembre 1961 è pubblicata nelle citate Effemeridi, alla data. Sul valore dell’umorismo si leggano anche le prime battute dell’intervista rilasciata da Duchamp a Guy Viau della Radio–Televisione canadese il 17 luglio 1960, ora pubblicata col titolo Changer de Nom, Simplement in Tout–Fait. The Marcel Duchamp Studies Online Journal, vol. 2, n. 4, gennaio 2002. <http://www.toutfait.com/issues/volume2/issue_4/interviews/md_guy/md_guy.html> L’erotica perseguita da Duchamp sembra calarsi nella teoria che Susan Sontag esprime nel saggio Contro l’interpretazione; la scrittrice statunitense vi afferma che la vitalità di un’interpretazione si salva fondandosi su una procedura “erotica”, non “ermeneutica”. 

[5] Per tutte queste affermazioni si vedano le citate Effemeridi, alle rispettive date. 

[6] Gilles Deleuze, in Le macchine celibi, cit., p. 15. 

[7] L’articolo è ora raccolto in André Breton, Oeuvres complètes, vol. III, Parigi, Gallimard, 1999, pp. 144–145. 


 

Figure 1-5, 7, 9-10
©2003 Succession Marcel Duchamp, ARS, N.Y./ADAGP, Paris. All rights reserved.



[Traduzione di Elisa Cardellini]

LINK al post originale:
Rrose Sélavy e la gnosi erotica

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18 giugno 2009 4 18 /06 /giugno /2009 09:47


Anche se in modo piuttosto singolare, presentiamo un grande artista dadaista tedesco della prima ora, reperendolo addirittura dal web italiano, a quanto ho potuto constatare, unico esempio di un suo trattamento sodddisfacente, anche se limitato dalla prospettiva di un suo uso politico, cosa comprensibile in quanto l'articolo, o meglio il servizio fotografico è  uscito su una rivista intitolata Patria Indipendente, che potrebbe far pensare di questi tempi a qualsiasi orientamento, soprattutto di destra, ma che in realtà non è altro che una rivista dell'ANPI, cioè dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia.

Avremo modo successivamente di trattare degli esordi artistici di Heartfield e della sua attività nella Germania del primo dopoguerra. Questo saggio, anzi articolo fotografico che non a caso è stato presentato in una rubrica intitolata "Le Fotostorie",  rende invece piuttosto omaggio al periodo pre e postweimeriano. Si tratta infatti di una documentazione
centrata prevalentemente sull'ascesa al potere di Hitler che Heartfield, cercò come artista impegnato politicamente (ahimé in campo purtroppo stalinista!), di mostrare in tutta la sua ferocia e brutalità.

Non potevamo trovare niente di meglio per illustrare concretamente la tecnica del fotomontaggio utilizzata con immensa perizia, da Heartfield, una tecnica artistica squisitamente dada ed in cui molti artisti di questo movimento diedero formidabili contributi, soprattutto nella denuncia e rigetto delle concezioni estetiche dominanti.








Uno dei più famosi fotomontaggi di John Heartfield: "Come nel Medioevo così ora nel III Reich".



Heartfield, il "dada" antinazista.

 

 

 

di Wladimiro Settimelli



Prima di tutto cosa vuol dire “dada”? Lo scrittore, critico, creatore di idee e di mostre, Tristan Tzara, interpellato da un giornalista nel 1915, sul significato del termine del grande movimento artistico di avanguardia, poi sfociato a Parigi nel surrealismo, rispose: «dada non vuol dire proprio nulla. È semplicemente un prodotto della bocca». In realtà, secondo la leggenda e le voci di tanti artisti “dada”, la strana parola era stata ascoltata dalla bocca di un bimbo piccolissimo che si agitava in braccio alla madre seduta ai tavolini di un caffè di Zurigo nel 1915. Avevano ascoltato quel “dada, dada, dada”, alcuni pittori, attori di teatro, registi, scrittori che avevano scelto quel caffè come una specie di sala di riunioni e di dibattito. Il movimento nacque, dunque, proprio per spazzare via l’accademia, il perbenismo della forma e i mille modi tradizionali e borghesi di fare arte e cultura. Era, appunto, il 1915 e le squille di guerra già stavano scuotendo l’Europa. Ed ecco, nel 1916 nascere il “cabaret Voltaire” ad opera del regista teatrale Ball. Sono con lui Tzara, Arp, Richter.


Vengono allestiti una serie di spettacoli dedicati all’arte russa, e francese, alle canzoni popolari, alle danze esotiche, poemi simultanei, jazz e provocazioni di ogni genere, C’è dentro molto futurismo e cubismo: insomma, vita, spettacolo, follia. Vengono subito stampate anche due riviste “dadaiste”: “Cabaret Voltaire” e “Dada” che ospitano dibattiti, insulti, poemi, fotografie di dipinti, collages, poesie astratte con il contributo diretto di Tzara, Arp, Picabia. Il “Dada” si estende a Barcellona, negli Stati Uniti, con Duchamp, Man Ray e altri. La battaglia è ancora contro ogni legame etico e culturale.


Duchamp lavora agli “oggetti rifatti”, sulla casualità e ironia dei materiali trovati: i celebri “readymade” che tanto scalpore susciteranno in America. Naturalmente “Dada” nasce anche a Berlino, la Berlino di Weimar, dove il nazismo sta cominciando a muoversi. I “dada” berlinesi sono però molto più politicizzati e conducono straordinarie battaglie di classe su giornali e riviste. Ovviamente “Dada” è anche a Parigi. Ma quello di Berlino colpisce davvero dove deve colpire, in maniera concreta e specifica. Intorno al “Dada” di Berlino lavorano Grosz, Dix, Picabia, Brecht che già ha fondato il suo teatro, il “Berliner Ensemble”, e quel singolare e straordinario personaggio che è John Heartfield, il famoso “fotomontatore dada”. È lui ad avere inventato il fotomontaggio politico, tagliando e incollando migliaia e migliaia di fotografie riprese da giornali e riviste o fatte appositamente scattare dai suoi amici o da operatori incaricati che lavorano, in pratica, come sotto l’occhio di un regista.


Quello del fotomontatore, da “dada” solo provocatorio, diventa il “dadaismo sociale tedesco” che avrà un incredibile impatto politico in tutta la  Germania. Così Heartfield comincia a realizzare copertine per libri, manifesti, mostre e viene processato decine di volte dalle autorità berlinesi per insulti al capo della polizia, ai parlamentari, al governo. Sul periodico comunista “Aiz” (un famoso giornale modernissimo di quel periodo  che vendeva qualcosa come 500mila copie) vengono pubblicati i suoi lavori più famosi. Sono i mesi e gli anni nei quali Berlino ribolle, nelle  gallerie d’arte, nei teatri, ma anche in piazza, tra mille speranze di rivoluzione e di ribellione. Ovunque nascono gruppi culturali straordinari e scuole come il “Bauhaus” di Gropius o il “Novembergruppe”, composto da un gran numero di artisti di sinistra che si rifanno al cubismo, all’anarchismo, al primitivismo, al futurismo e al costruttivismo. Una serie di “ismi” senza fine, ma tutti “tosti”, straordinari, nuovi.


John Heartfield veniva da una famiglia di idee socialiste, aveva vissuti nella miseria, ma non si era mai scoraggiato. Era riuscito persino ad andare ad una scuola di “arti e mestieri” e si era messo poi a lavorare nell’ambito pubblicitario. Questo spiega la sua capacità, fin dall’inizio, di scrivere motti e sberleffi, di tagliare, creare slogan, battute e occuparsi di immagini. Lui, in realtà, si chiamava Helmut Herzfeld, ma aveva deciso in John Heartfield, per protestare contro la propaganda sciovinista tedesca che urlava sui giornali “Dio punisca l’Inghilterra”.


John aveva idee precise sulla fotografia. Sosteneva che la fotografia ingannava anche a prescindere dalle intenzioni del fotografo. Bastava guardare le fotografie propagandistiche a favore della guerra per capirlo. Poi aggiungeva: «Essa inganna perché il nostro occhio non è in grado di penetrare la realtà senz’altro, sulla base di una immagine momentanea quale è la fotografia. Occorrerebbe una scienza che neanche il migliore degli obiettivi potrebbe cogliere e produrre: conoscenza di cause ed effetti e conoscenze dei legami di questi con gli avvenimenti storici».


Per spiegare ancora meglio Heartfield, diciamo che nei fotomontaggi, il nostro montatore ha trasformato la fotografia da mezzo di  comunicazione di “impressioni”, a mezzo di "espressione” ugualmente efficace, ma di inaudita potenza. Ma riprendiamo a raccontare.  Ecco che la polizia di Hitler spazza lentamente via ogni libertà in Germania, arresta e uccide. Gli intellettuali, i grandi scrittori, i pittori, i poeti, i grafici, i maestri delle grandi scuole come il Bauhaus, gli “sperimentatori” di ogni genere e tipo, partono e si spargono in tutto il mondo.

Migliaia di altri, operai, sindacalisti, oppositori liberali e socialdemocratici, finiscono in prigione e nei campi di sterminio. John Heartfield, insieme al fratello, proprietario di una piccola casa editrice, riescono a salire su un aereo diretto a Praga. Appena in tempo e poco prima dell’arresto. Quando i nazisti occupano anche Praga, John, con una corsa disperata, riesce a salire sull’ultimo aereo diretto negli Stati Uniti. In America trova immediatamente da lavorare con i suoi fotomontaggi e realizza manifesti e copertine per libri dei più noti e conosciuti scrittori americani “liberal”.


Finita la guerra, il “fotomontatore dada” torna a Berlino, nella DDR, ossia nella Germania orientale. Ha esposto i suoi fotomontaggi in tutto il mondo: da Mosca a Praga, da Parigi a New York, da Londra a Basilea, da Varsavia a Cracovia, da Budapest a Pechino a Shanghai. Nel 1965, i fotomontaggi dell’artista tedesco, vennero esposti alla galleria di Roma “Il fante di Spade”.


In quell’occasione ebbi l’onore di conoscerlo e di avere, con lui, un dibattito di una intera giornata sulla storia della fotografia e sul fotomontaggio. In pratica girammo a piedi tutta Roma, mentre lui scattava, scattava, e scattava ancora foto. I suoi lavori sul nazismo, anche in tempi di computer e di “Adobe”, conservano ancora una straordinaria forza d’impatto. Una forza ottenuta soltanto con immagini, forbici e colla.

Il “ fotomontatore dada” è morto negli anni ’70.


W.S. (Wladimiro Settimelli).

Molte delle nostre illustrazioni sono state riprese dal catalogo della mostra “John Heartfield. Il fotomontaggio politico”, Milano, Castello Sforzesco, maggio-giugno 1978, edito da Gabriele Mazzotta Editore.

Altri fotomontaggi di Heartfield sono stati riprodotti dal catalogo della mostra tenuta a Roma, alla galleria “Il Fante di Spade” nel 1965.











1. Fotomontaggio di Heartfield. Il titolo spiega:  "Adolf il superuomo: ingoia oro e dice idiozie".








2. Il famoso montaggio dal titolo “Dietro a me milioni”. Il significato è evidente: il capo del nazismo riceve denaro da un tipico rappresentante del capitalismo tedesco.








3. Questo montaggio si intitola: “Dieci anni dopo”. Sfilano dei ragazzini in divisa militare e hanno alle spalle gli scheletri dei soldati morti in guerra dieci anni prima.






4. Una “messa in scena” di Heartfield per la copertina di un libro di Upton Sinclair pubblicato nel 1931.






5. Il fotomontaggio di Heartfield pubblicato sulla copertina del numero speciale della rivista “AIZ”, dedicata al processo per l’incendio del Reichstag. Si vede Goering “acconciato”  come il boia del Terzo Reich.








6. Questo è invece dedicato alla guerra di Spagna del 1936. Gli “uccellacci” sono i volontari nazisti e i soldati di Franco. I soldati lealisti ripetono il celeberrimo “No pasaran” e gli altri  rispondono “passeremo”. Il lavoro del fotomontatore dada fu utilizzato per la copertina del periodico “AIZ”.








7. Altra copertina di “AIZ” dedicata alla conferenza di Ginevra del 1932. Il titolo del montaggio dice: “Dove vive il capitale non può vivere la pace”.









8. La giustizia nazista secondo Heartfield. La didascalia spiega: "Con tutte le loro contorsioni e le loro giravolte pretendono ancora di dirigere la giustizia in Germania".















9. Questo montaggio è dedicato alle guerre di Mussolini. La spiegazione dice: “Segni di gloria fascista”.








10. Ancora un fotomontaggio dedicato ai fascisti e ai nazisti che partecipano alla guerra di Spagna. Dice la didascalia: “Questa è la salvezza che essi portano”.









11. Il titolo del lavoro è: "Un pangermano". Si riferisce ovviamente all’espansionismo nazista che porta morte e distruzione.








12. Il famoso manifesto di Heartfield per le elezioni politiche del 1928. La scritta precisa: “5 dita ha la mano - con 5 fermi il nemico. Vota la lista 5 del Partito comunista”.









13. Anche questo fotomontaggio, negli anni del “dada” berlinese, ebbe un grande successo. Il titolo diceva: "Neri e bianchi uniti nella lotta".










14. Copertina di Heartfield per il numero di "AIZ" del 1936. La scritta spiega: "Chi legge i fogli borghesi diventa cieco e sordo. Basta con le bende che rimbecilliscono".








15. Di nuovo un montaggio per “AIZ”, dedicato ai libri bruciati dai nazisti sulle piazze. La scritta spiega: "attraverso la luce alla notte - Così parlò il dr Goebbels. Accediamo nuovi roghi affinché i ciechi continuino a dormire".











16. Montaggio ispirato al processo per l’incendio del Reichstag pubblicato da “AIZ” numero 32 del 1933. La scritta precisa: “Il boia e la giustizia”. Poi è stata aggiunta una  dichiarazione di Goering che afferma che, per lui, la giustizia è una cosa sanguigna.
Wladimiro Settimelli



Da: LE FOTOSTORIE, Patria indipendente del 31 gennaio 2009.

 

[a cura di Elisa Cardellini]


LINK al post originale:
Heartfield, il "dada" antinazista

 

 

LINK ad un mio video su Heartfield sul mio canale You Tube:

 

 


 


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21 marzo 2009 6 21 /03 /marzo /2009 16:15




Dopo il superbo saggio dedicato all'opera ed alla figura di Hannh Höch ad opera di Paolo Mastroianni e che abbiamo presentato la settimana scorsa, lo stesso autore dedica un altro lungo saggio ad un'altra eminente figura di artista dada, Sophie Taeuber, compagna di uno dei fondatori del movimento dada, Han Arp, così come la Höch era stata anche lei compagna di un altro famoso artista dada, Raoul Haussman. Due grandi recuperi saggistici quindi, resi possibili dal web, e che siamo contente di proporre a chi ama le avanguardie artistiche e soprattutto i loro protagonisti.




CROMATISMI E ASTRAZIONE GEOMETRICA IN SOPHIE TAEUBER. 


Sophie Taeuber, Elementi di tensione (1917)



sonia.jpgQuasi dipanando un filo comune che l'intreccia a destini di personaggi femminili analogamente emergenti nel campo dell'espressione artistica primonovecentesca, anche Sophie Taeuber, come Sonia Delaunay (cui fu peraltro legata da rapporti d'amicizia e collaborazione) e Natalja Goncarova, si attivò con originale impegno di sintesi forgiando soluzioni nuove per lo sviluppo estetico nel settore decorativo, e parimenti a loro investì l'espansione delle proprie qualità creative in un processo di elaborazione intellettuale celebrato in comunione emotivo-professionale con una figura maschile dal ruolo assai ingombrante, specificamente quella del marito-pittore e scultore Hans (o Jean) Arp, che a causa della consueta (e limitativa) lettura androcentrica attribuita al primato gerarchico dell'esperienza artistica ne ha pur inintenzionalmente obnubilato fino a tempi recenti l'oggettiva visibilità della genesi culturale.

 

 
Goncharova.jpgCon lo scoppio del conflitto bellico la Svizzera, e in particolare l'importante crocevia zurighese, divenne una colonia consistente di transfughi europei, intellettuali, politici, trafficanti o personaggi torbidi, che si autoesiliavano dai paesi d'origine per diverse e talvolta contrastanti motivazioni individuali, accomunati però dall'esigenza immediata di sfuggire agli effetti nefasti della guerra, sottraendosi istintivamente agli apparati organizzativi di quell'irreggimentazione nazionalistico-antisemita in cui la "civiltà" del continente più antico sembrava incontrovertibilmente precipitata almeno dai tempi dell'affaire Dreyfus. Se Lenin allestì proprio da questa sede gli eventi preparatori della storica rivoluzione d'ottobre, la fortuita contingenza neutrale del luogo raggruppò numerosi artisti convenuti separatamente nella località elvetica, che si trovarono a convogliare il loro estro espressivo per configurare la fantasiosa kermesse da cui nel 1916 scaturì l'irripetibile "casualità" dell'esperienza dadaista, frammentata dopo la guerra in specifici epigonismi "nazionali" ma altresì arricchita con la qualità delle eterodosse strategie inventive attuate in Francia, Germania e altrove.
  

sophietaeuberarpAnche Taeuber partecipa fino al '20 alle soirées organizzate presso il Cabaret Voltaire, "mitico" locale di ritrovo intellettuale sulla Spiegelgasse animato da Hugo Ball, in cui venivano inscenati gli happenings spettacolari della neonata compagine artistica, esibendosi come ballerina in appassionate performances danzanti analogamente ad altre donne associate al clima provocatorio e anticonformista del movimento, quali Emmy Hennings, Susanne Perrottet, Berthe Trumpy e Mary Wigman, che nell'esplicitazione delle proprie capacità corporee ne comunicavano una conoscenza e consapevolezza assolutamente non inficiate dai retaggi moralistici o convenzionali attribuiti al ruolo coevo della prassi estetica femminile.




Sophie Taeuber, Composizione di macchie quadrangolari, policrome, dense (1921)

  

 

hans_arp-con-monocolo--1928.jpgAveva già incontrato Arp l'anno precedente, in occasione di un'esposizione collettiva cui egli partecipava con opere pittoriche e tessilo-artigianali, e la comune insofferenza manifestata verso le declinazioni accademiche dell'arte, assieme all'incompatibilità per le connesse metodologie tradizionali di esecuzione, posero le basi del fecondo e perdurato sodalizio artistico-sentimentale. Comporrà con lo scultore alsaziano i papiers decoupés a "quattro mani", affidando il loro assemblaggio alle ironiche leggi della casualità teorizzate poi come usuale fenomeno inventivo da Tristan Tzara nel Manifesto sull'amore debole e l'amore amaro, che demistificano il valore dell'esperienza estetica paventando la provocatoria indistinzione tra la coscienza del prodotto creativo e la sua sintesi fortuita.

  

 Dopo i cimenti dedicati allo studio di nudi, paesaggi e nature morte, accanto agli schizzi per la realizzazione di ricami e altri oggetti decorativi, la sua reale maturazione artistica risulta snodarsi in questo periodo, quando comincerà a delinearsi nelle prime prove la rappresentazione della forma quadrata, ricalcata sugli schemi ortogonali della tramatura tessile ma liberata dalla dipendenza enunciativa che poteva ridurre tale ipotesi figurativa a mera applicazione estensiva del modello strutturale. L'assemblaggio delle numerose Composizioni verticali-orizzontali testimonia già nel 1915-16 la decisa inclinazione verso la bidimensionalità delle soluzioni astrattistico-geometriche, acclarata dal contemporaneo inserimento del triangolo, del rombo e infine del cerchio, destinato quest'ultimo a "erodere" la monoteticità dell'elemento rettilineo con l'introduzione della sinuosa eterogeneità incarnata dalla variabile modulare curvo-serpentinata.

  

 La concertazione del dispositivo reticolare che la pittrice svizzera appresta in queste formulazioni configura tracce di sviluppo autonomo nelle qualità costruttive della materia, privilegiando le sole coordinate di forma e colore, aldilà di intenti simbolico-decorativi o mimetico-naturalistici. L'avvertita necessità di affrancare l'evoluzione artistica dalla riproduzione oggettiva del reale si rivela in Sophie quale determinato accorgimento di allontanare dall'orizzonte compositivo qualsiasi evento o allusione iconografica alla presenza del mondo sensibile, scartando dunque anche le soluzioni biomorfiche che lo stesso Arp ha inseguito come criptica traccia di residualità organica all'interno del vitalismo pittorico. Atteggiamento questo, eluso solo raramente per connotare riferimenti a cose, animali e talvolta a sagome umane, come si desume a titolo esemplificativo nelle due Composizioni verticali-orizzontali con elementi di oggetti, eseguite nel '19 in collaborazione col suo compagno, ma anche nel più tardo Parigi, cimitero di Montmartre o nella coppia di Composizioni con motivi di uccelli, tutti ascrivibili al 1926-27, in cui l'attestazione fisica degli oggetti viene ridotta ad apostrofazione stilizzata di frammentati e appena riconoscibili dettagli essenziali, originariamente inglobati nella totalità visiva della figurazione. Ma l'originalità di Taeuber consiste nella strategia astrattiva da lei concepita, in cui l'enunciazione geometrica del segno formale scandisce, con l'ausilio primario della caratterizzazione cromatica, i vincoli spaziali assegnati allo sviluppo e all'identità strutturale, che assurge propriamente a composizione architettonica secondo l'idea di un principio ordinativo basato sui significati corrispondenti delle linee costruttive e sull'autonomia di tali elementi "figurativi".

 

Diversamente dalle estroflessioni spirituali poste in rilievo dall'espressionismo kandinskiano o dalla Bauhaus, che misurano su una leggibilità emotiva di derivazione mistico-teosofica le risultanze astratte scaturenti dal progetto di realizzazione estetica, e lungi dal redigere una sperimentazione contingente dell'ipotesi aniconica, punto di partenza "obbligato" per le istanze coeve dell'avanguardia, la pittrice elvetica si avvia lungo il crinale della sintesi formale attraverso la definizione di elementi concretamente commisurati alla lucidità del disegno costruttivo. Ecco perché la sua partecipazione all'efflorescente attività zurighese del distruttivismo dadaista, accompagnata oltretutto dall'allestimento coreografico per lo spettacolo Schwarze Kakadou (Il cacatua dalla proboscide), oltreché conservare zone visibili di riserva (talvolta tradotte, lei così discreta, in evidente sopportabilità per quelle esternazioni così chiassose!) assume altresì un valore di contingente temporaneità, dettato dallo spirito di appartenenza al gruppo assommato all'esigenza di mantenere aperti i canali delle ipotesi sperimentative.

 

Questo non le impedì infatti di realizzare una "testa dadaista", pubblicata nel '23, ormai sulle ceneri del movimento, dalla rivista "Merz" ad Hannover dall'eccentrico Kurt Schwitters, personale interprete nell'assemblaggio di materiali scartati dal ciclo di consumo urbano. Chiare appaiono invece le connessioni con l'olandese Theo Van Doesburg, fondatore del movimento De Stijl e poi della successiva formazione indicativamente chiamata "Arte Concreta", col quale lavorerà insieme ad Arp nel '27 per il restauro de L'Aubette a Strasburgo, oggi non più esistente. Impegnata nella trasformazione dell'antico palazzo in locale multifunzionale d'intrattenimenti, per la sistemazione della Sala da the affida a calde tonalità coloristiche l'affermazione di un fondo plastico, che emerge così dalla preesistente parete chiusa creando un trasferimento di materia visiva giocato sugli effetti "tattili", impartiti dai paramenti decorativi e dalle finzioni illusionistiche attuate dai pannelli-specchi alle modalità percettive della quinta architettonica.

 

Se la geometricità orizzontale-verticale adottata per l'articolazione murale asseconda l'intenzionale finalità "neoplastica" di Van Doesburg, adibita a integrare l'intento pittorico con la strutturazione del contiguo spazio ambientale, essa evidenzia altresì un'ipotesi aggiuntiva (ma non casuale) che permette alla superficie parietale di ottenere mediante il ritmo cromatico una visiva mobilità aggettante, configurandosi peraltro come dispositivo dotato di concreta autonomia figurale, parimenti a qualsiasi forma oggettiva riprodotta sul modello della realtà naturale. In questo modo, nell'esperienza di contenuto astrattivo Taeuber rivendica una legittimità soggettiva di linguaggio espressivo che trae significato dal suo costituirsi in componente ordinativa del mondo sensibile, erigendosi poi a principio d'armonia cosmico-universale secondo leggi derivate da rapporti logico-spaziali, pur distaccandosi da esercizi d'ispirazione mimetica ma inserendosi concretamente (da qui l'origine dell'aggettivo, in apparenza paradossale, da lei usato per definire intrinsecamente il valore assegnato al carattere aniconico delle proprie composizioni) nelle coordinate della sintesi costruttiva, fondato com'è sull'adozione di quegli elementi strutturali di forma, colore e spazio, chiaramente attingibili alle regole matematico-geometriche della realtà.

 

Tali idee si ammantavano d'altronde di espliciti richiami alle interpretazioni teoriche di Wilhelm Worringer pubblicate sul celebrato testo del 1908 Astrazione e empatia, elaborate a loro volta sulle intuizioni di Alois Riegl nell'ambito della scuola viennese, che restituivano validità al processo astrattivo come ampliata vocazione dell'orizzonte espressivo a svincolarsi dalle finalità imitative di riproduzione, assumendo una lettura della realtà orientata in senso simbolico e antipositivistico. Fedele a quell'atteggiamento novecentesco che abolisce l'enfatizzazione dell'isolata individualità artistica, Sophie contempla la feconda laboriosità dell'elaborazione collettiva, come rivela una serie di litografie stampate postume ed eseguite nel '41 a Grasse in collaborazione con Arp, Sonia Delaunay e Alberto Magnelli, assecondando non solo una personale inclinazione di ritrosia spontanea bensì perseguendo quell'intento di sottrazione al protagonismo attivo che caratterizzerà anche l'atteggiamento del marito e, seppure con accenti diversi, di Duchamp, teso a depauperare la tradizione classico-romantica con l'annullamento della "sublimità" soggettiva incarnata nell'identità artistica in favore della centralità accordata al momento progettuale della creazione, all'attimo fuggente della meteora inventiva.

 

Con tale lente ottica può osservarsi l'adesione nel 1930-31 al gruppo parigino "Cercle et Carré" di Michel Seuphor e dell'uruguayano Joaquim Torres-Garcia, accanto ad Arp, Mondrian e Kandinskij, seguita con lo scioglimento del cenacolo intellettuale all'ingresso nell'associazione "Abstraction-Création", insieme a Sonia e Robert Delaunay, Van Doesburg, Albert Gleizes, lo scultore Georges Vantongerloo e l'amico-architetto zurighese Max Bill, ove rimarrà fino al '35. Già trasferita in un'abitazione-atelier (da lei stessa progettata anche per gli arredi interni, come farà su esplicita commissione per altri appartamenti) nella cittadina di Meudon presso Parigi, dopo i molteplici riconoscimenti ottenuti nella capitale francese durante gli anni venti, soprattutto nel settore delle arti decorative (suoi arazzi verranno inoltre inviati negli Stati Uniti per comparire in esposizioni internazionali) e nell'ideazione di mobili, l'inserimento di Taeuber nel primo raggruppamento ne riflette la posizione nel dibattito allora asserito dalle diverse ipotesi semantiche all'interno dell'avanguardia: la conferma di una dichiarata tendenzialità verso il momento costruttivo dell'evento compositivo e la decisa deliberazione di programmi esecutivi intesi a privilegiare l'assunto cromatico quale definizione strutturale, utilizzando le linee come elementi dinamici per configurarne ritmi e limiti spaziali.

 

La qualificazione geometrico-figurativa conferita alla denominata formazione "Cercle et Carré" intendeva difatti evocare la polarità dei contrasti ascrivibile al contesto artistico-astrattivo, estendendo l'assunzione delle qualità formali a sintesi concettuale di più vaste metafore artistico-esistenziali, saldamente attestate sul dualismo metafisico del pensiero occidentale, per cui il cerchio assurgeva a simbolo del mondo irrazionalistico-sensoriale, rimandando al corredo psicologico-emotivo immesso come "luogo comune" nel segno storico della sessualità femminile col suo universo generativo di emanazioni biomorfiche, mentre al quadrato veniva oppositivamente accostata la razionalità costruttiva del maschile accanto alle sue certe e "rettilinee" definizioni.

 



Sophie Taeuber - Composizione con rettangoli e bracci angolari (1928)
 
Occorre allora qualificare legittimamente le affermazioni offerte dal teorico del gruppo Seuphor, quando alludendo a queste dicotomie indicherà rispettivamente in Arp e Mondrian i rappresentanti delle due tendenze descritte, ascrivendo alla lettura della parte femminile nel primo l'accresciuta consapevolezza nella simbiosi esistenziale con Sophie (d'altronde riconosciuta apertamente dall'artista con esplicite attestazioni di merito, e ulteriormente valorizzata dalla rispettosa delicatezza adottata nei memoriali verso la sua compagna per enucleare i sintomi della ferita mai sopita, derivata da quella perdita), raggiunta fino a egemonizzarne lo spirito creativo, in contrasto con l'evidente "unilinearità" di carattere assegnata invece al secondo.
 
Pur convergendo con le ricerche elementaristico-astrattive di Van Doesburg, che emergono nel corso della collaborazione per il restauro de L'Aubette realizzando quell'auspicata fusione paventata tra pittura e architettura, Taeuber se ne distacca certamente quando il teorico fiammingo approda all'esigenza di un rigore formale sempre più rarefatto, che proclama "arte concreta" la priorità assoluta dell'ideazione progettuale quale sintesi "pura" e intuitiva dello "spirito libero". Diversamente però da Kandinskij, che proclama una responsabilità evocativa della coscienza psichica sulle finalità esplicative della creazione, l'auspicato intervento delle forze interiori non viene qui affidato a corrispondenze "lirico-musicali" ma presuppone l'emanazione di fondativi e introiettati principi tecnico-matematici, comunque tesi a realizzare una subalternità dell'impresa espressiva ai dettami di intime scaturigini irrazionali.
 
Appare dunque evidenziarsi per la pittrice svizzera una deriva inaccettabile dell'autonomia estetica, che obnubila la possibilità di qualificare il modello geometrico-aniconico come elemento applicativo impostato su regole desumibili dalla "concreta" realtà naturale, e non da pulsioni incontrollabili, in quanto l'energia dei moti spirituali emerge palesemente da eventi posti in un campo di determinazioni metafisiche ed extrasensibili. La presenza nell'associazione "Abstraction-Création" costituisce negli anni trenta un segno di decisa continuità con l'esperienza astratta, essendo il gruppo impegnato in una caleidoscopica territorializzazione delle pur non omogenee tendenze europee nell'ambito della trasversalità neoplastico-costruttivista.
 
In questo stadio della sua vita artistica, Taeuber arricchisce la statica regolarità assunta dalla nitidezza dello schema compositivo ortogonale, dominato dalla compartimentazione lineare orizzontale-verticale, immettendo all'interno delle forme reticolari il flusso dinamico dell'elemento curvilineo e circolare, che pur non rompendo la bidimensionalità costruttiva appare invocare un orizzonte orientato maggiormente in senso plastico. In effetti, seppure giocata sulla scelta di forme lineari, è possibile osservare un'esigenza di spostamento dalla rigida frontalità geometrica già nelle soluzioni proposte dall'artista elvetica nei primi anni di adozione dello schema geometrico.
 
Difatti, se nel 1917-18 con Forme elementari in composizione verticale-orizzontale, Composizione verticale-orizzontale con triangoli opposti ed Elementi di tensione si evince un'affermazione potenziale di movimento appunto affidata alla tensione scaturente tra spinte figurali contrapposte, evidenziata poi dalle campiture cromatiche localmente ispessite per risaltare gli ineludibili punti di "frizione", nei coevi Elementi diversi in composizione verticale-orizzontale e Composizione con forma a "U" spetta proprio all'univoco colorismo degli oggetti ribadire con la visibilità della definizione volumetrica l'instaurarsi tra essi di un dinamico flusso di scorrimento. D'altronde, la decisa immissione della linea obliqua segna nei dipinti iniziali di Sophie uno scarto con la norma assiomatica imposta invece dalla sintesi neoplastica di Mondrian (ragione della successiva rottura con Van Doesburg, che proprio con la significativa deroga dall'ortogonalità matura la definitiva divaricazione ideologica con il collega olandese).
 
Inoltre, l'artista sembra approdare a una fluttuazione delle figurazioni geometriche nell'ambito dell'elemento spaziale suggerita dapprima dalla leggera curvatura delle linee ortogonali, scompaginando ulteriormente la staticità della struttura reticolare però mantenendo le masse monocromatiche ancora compatte all'interno dell'edificio compositivo, quindi distanziando le singole figure per lasciarle librare nella superficie aerea: meccanismo "evolutivo" questo, direttamente fruibile dal Piccolo trittico, Ritmi liberi verticali-orizzontali, ritagliati e incollati su fondo bianco del '19. Anche il brulichio delle piccole zone cromatiche poste in immediata successione nelle due Composizioni di macchie quadrangolari, policrome, dense, di poco posteriori all'opera precedente, col loro disordinato assemblaggio e la sbiadita definizione delle forme regolari attestano un allentamento nella qualificazione dell'equilibrio geometrico.
 
Verso la fine degli anni venti Taeuber appare privilegiare l'emblema figurativo del cerchio, ma non si tratta di una scelta univoca, connotandosi quale sintesi associata ancora all'elemento quadrangolare, mentre l'introduzione di spazi geometrici "vuoti", immessi per assenza di definizione cromatica accanto a pigmentate geometrie di figurazioni planari in alcune Composizioni con rettangoli e bracci angolari del '28, alimenta l'antico gioco di tensioni oppositive evocato stavolta dal ruolo di trattenimento da loro esercitato nella funzione d'intervallo laterale tra rettangoli e quadrati. Questa dicotomia di forze contrapposte viene successivamente trasferita su un piano concettuale, oltreché desumersi dalla specificità delle forme asserite sulla tavola compositiva, infatti se la ricomposizione del reticolo spaziale razionalizza la posizione delle figure geometriche, come avviene all'inizio degli anni trenta in Composizione schematica e soprattutto nel Trittico, l'organizzazione ragionata della disposizione di cerchi e rettangoli, composta dall'artista elvetica avvalendosi di parametri logico-matematici, rinegozia l'organicità del congegno rinviando alle qualità formali in gioco, esplicandosi dunque tra stato di quiete, inclinazione incarnata dai primi per l'assente proprietà di un orientamento spaziale decisamente individuabile, e attiva potenzialità di movimento, suggerita dai secondi per l'inevitabile capacità distributiva nell'ambiente aereo. 

 

 

Sophie Taeuber - Linee, geometriche e fluttuanti (1941)
 
Tali principi "normativi" restano però accertati da Taeuber nella determinata volontà di tracciare le coordinate di un universo armonico in cui tutti gli elementi confluiscano coralmente in una scansione funzionale e verificabile, tuttavia l'invenzione delle "asticelle" filiformi imprime una spinta dinamica alla definitiva intrinsecità di quegli attributi formali, constatando in opere del 1931-34 come Due cerchi, due piani e linee intersecate e Segmento di cerchi, cerchi e linee o anche in Circoli attivati ed Equilibrio, l'annullamento spaziale delle pur declinate tensioni oppositive e la fluttuazione permanente immessa nel moto delle circolarità geometriche, favorite dal fenomeno ottico attinente alle molteplici linee presenti con inclinazioni diverse nella giostra compositiva, accompagnato dalla mancanza gravitazionale di peso evocata dalla disordinata distribuzione nel campo rappresentativo. Nelle esecuzioni dell'ultimo quinquennio, il logo curvilineo assume consistenza nella produzione dell'artista, avvicinando inoltre le sue soluzioni verso ormai sopite affermazioni biomorfiche, il cui risultato più evidente si riscontra nella scultura del '37 eseguita assieme ad Arp dall'emblematico titolo Scultura matrimoniale, scopertamente sottesa a individuare una fusione complementare di tondeggianti linearità antropomorfe.
 
La fase finale della sperimentazione di Taeuber suggerisce un'ambivalenza che se da un lato non annette al fattore oggettivo quella legittimità finora asserita dalla chiara riconoscibilità dell'elemento geometrico, dall'altro si richiama inusitatamente alle tracce della fisicità organica, ma entrambe le risultanze riverberano un'impostazione scaturita entro un comune orizzonte di ricerca. Lo studio delle potenzialità espansive paventate dalla linea curva conducono la pittrice a comporre un "itinerario disegnativo" che avvalendosi dell'alternativa concavo-convessa impartisce alla definizione formale racchiusa entro lo spazio di rappresentazione visiva corrispondenti "aperture o chiusure", quindi risolvendo l'evoluzione "sinusoidale" in nuova capacità di tensione prodotta tra gli stessi elementi confinanti e con soluzioni razionalmente intelligibili.
 
Perciò Sophie arriverà concomitantemente a restituire connotazioni oggettive del mondo reale ad alcuni disegni del '39 come Foglia o Vegetazione, ma anche a numerose Conchiglie e motivi floreali, mentre in altri casi, come i coevi quattordici Disegni a quattro mani, realizzati con Arp, articolerà esercizi grafici aperti verso l'esterno della stessa superficie compositiva, quasi a sottolineare l'impossibilità di contenere l'espansione creativa al'interno degli originari schemi preposti per esplorare nuove trasversalità. Infine, ulteriori dispositivi determinano una confluenza di linee spaziali che intersecandosi disordinatamente nel mezzo aereo mantengono un'autonomia di movimento, sancendo l'autoreferenzialità della sintesi visiva ma anche il controllo del principio costruttivo attraverso l'annessa qualificazione cromatica dei singoli elementi, e questo si evince nitidamente nelle ultime composizioni, Intersezione di linee rette, piani, croce verde e frammento di croce blu, Linee, geometriche e fluttuanti e Linee estive. Nel preciso fluire dell'universo geometrico in cui l'artista ha così conchiuso la dinamica ordinativa delle sue sonorità visive, appaiono dunque consapevoli le parole adoperate da Arp, a diversi anni di distanza da quel luttuoso inverno zurighese del 1943 in cui aveva subito l'evento che non riuscirà a superare per l'intera vita, quando volendo riassumere in una poesia le passioni dell'amata si sorprese annunciando come "Sophie sognò innumerevoli favole di cerchi".


Roma, Maggio 1998.


 

 

Paolo Mastroianni 
 



Link al saggio originale:
Cromatismi e astrazione geometrica in Sophie Taeuber

  

  

  

  

 

 

LINK ad un video You Tube pertinente: 

 


 

 

 

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