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1 gennaio 2017 7 01 /01 /gennaio /2017 07:00

 

 

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NOSTRA INCHIESTA

 

(FINE) [1]

 

Terminiamo oggi la pubblicazione delle lettere che ci sono pervenute. Ricordiamo che in ogni numero - e non da un numero all'altro - abbiamo seguito nel pubblicarli l'ordine inverso delle nostre preferenze, allo scopo di mantenere l'interesse alla lettura e di evitare ai nostri corrispondenti la sorpresa di un commento.

 

PERCHÉ SCRIVETE?

 

 

Marius André

Scrivo perché ne provo il bisogno e che è uno dei migliori mezzi che ho trovato per vivere nella gioia.

Scrivo di tanto in tanto una poesia provenzale perché il lirismo che è in me vuole essere espresso nella lingua materna e questo fa piacere a qualche amico.

Faccio della critica letteraria e dei lavori storici per la difesa di ciò che so essere la verità. Credo compiere così, nel mio piccolo angolo e a modo mio, il mio dovere di cittadino.

 

Jacques Copeau

Rispondo alla vostra circolare del 1° ottobre.

Ho estremamente poco tempo per scrivere. E' per questo che mi sforzo di non scrivere che per dire qualcosa.

 

Berthe de Nyse

Scrivere è per me il più delicato dei godimenti, la più squisita delle gioie e la più efficace delle consolazioni.

E' spinta da una forza interna che prendo la penna, mentre nel mio pensiero la frase è già interamente disegnata.

 

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Il Dolore è per me un fecondo ispiratore, scrivo anche per cantare l'Amore, e in quanto alla Gioia, bisogna che essa sia brillante e la fine di un'angoscia affinché io provi il bisogno di celebrarla a voce alta e non nella calma e solitudine.

Scrivo anche, per prolungare l'emozione causata dalla vista di un raro paesaggio, per difendere le idee che mi sono care e sforzarmi di farle trionfare. La Sincerità e la Passione sono in sintesi i motivi maggiori che mi hanno sempre indotta a scrivere.

 

Tancrede Martel

Per obbedire a un'imperiosa vocazione, ciò che Théodore de Banville chiamava, "l'amore per il lauro". Del resto, i miei libri: Blancaflour, Rien contre la Patrie, Le Prince de Hanau e altri, hanno già risposto per me.

 

Albert Keim

Mi sembra che si scriva così come si vive, così come si respira, così come si ama, così come si soffre...

L'arte, per noi l'arte letteraria, è un approfondimento della realtà.

Si tratta dunque di fissare degli esseri e delle cose effimere con il loro carattere eterno. Questa è la nostra volontà più o meno chiara. Ah, che strana impresa trarre dal nulla la scintilla di Dio!...

Passiamo il nostro tempo ad ascoltare il nostro cuore battere con quello degli altri, a dire la povertà, così come lo splendore umani.

 

Octave Houdaille

Per dar slancio allo sciame un po' confuso delle idee soggettive e farle cantare nella musica delle parole.

 

Il cavalier André de Fouquières

Scrivo - perché considero che il libro e il giornale sono delle tribune che mi permettono di esporre le mie idee e difenderle e di fare se possibile degli adepti.

 

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E' un grande piacere personale ed è qualche volta la mia soddisfazione per altri.

Quando ho pubblicato il mio viaggio sulle Indie, desideravo che il lettore fosse impregnato delle bellezze e degli splendori dell'Oriente.

Quando scrissi sulla Tradizione, mi illusi, forse, ma spero idealizzare la nostra società che, ahimè! si demoralizza e si livella ad oltranza.

 

Jeanne Landre

Scrivo perché questo mi permette di dire ciò che penso, senza vedere la faccia di coloro a cui lo dico.

 

Henry D. Davray

Non ho più tempo per scrivere. Detto, anche per telefono, quando mi chiede di dire qualcosa su un argomento che più o meno conosco.

 

Paul Dermée

a) Per far arrabbiare alcuni dei miei vicini.

b) Per far loro scrivere grottescamente che non si può arricchirsi se non saccheggiando il tronco dei poveri.

 

Edmond Teulet

Mi sono spesso chiesto la domanda: perché la fonte scaturisce da sé e l'uccello canta? senza mai risolvere il problema.

Pensandoci bene, forse volete dire: a quale scopo?

Allora, risponderei che esso è molteplice e mutevole come il crepuscolo, tuttavia immutevole, poiché ho la sensazione di essere impressionato dall'amore per il bene e per il bello nella giustizia e l'ideale.

 

Edouard Dujardin

Perché uno scrittore scrive? E' a mio avviso, chiedere: perché un melo produce delle mele? Bernardin de Saint-Pierre avrebbe senz'altro risposto che

 

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i meli avevano uno scopo e che questo scopo era quello di fornire agli umani una materia prima per le frittelle. Credo meno a questa finalità che al compimento di una funzione. La funzione compiuta, e cioè la mela giunta a maturità, il giardiniere la coglierà, il mercante la porrà nel suo paniere, la cuoca la cucinerà, e l'oggetto servirà a guarnire una tavola, a meno che non la si utilizzi nei confronti di un oratore impudente. Un uso non è uno scopo.

Che l'opera dello scrittore nasca ingenua, Nietzsche avrebbe detto innocente, come un bel frutto ricco dei succhi della terra e accarezzato dal sole, e si scoprirà che sarà, del tutto, bella agli sguardi e confortante al cuore degli uomini, o castigo alle insolenze.

Scrivendo, lo scrittore compie una funzione; Dio (se posso esprimermi così) fa il resto.

 

Camille Mauclair

Ho voglia di rispondervi con la Carmen: "Canto per me stessa, e credo non sia vietato cantare".

Scrivo innanzitutto perché è per me una passione e una consolazione. Soddisfo un desiderio innato. Poi, scrivo per spingere gli altri verso ciò che amo e a farglielo meglio capire.

Infine, scrivo perché adoro il lavoro, e questo lavoro è quello che più mi piace. Non essendo affatto un letterato né arrivista, e vivendo nel mio angoletto, rimpiango enormemente che il fatto di scrivere costituisca anche un mestiere: un maledetto lavoro al quale devo chiedere il pane quando avrei voluto non chiedergli che delle idee e dei sogni. Ma per ogni altro mestiere sarei stato inadatto: tento dunque di esercitare questo con onestà e anche piacere.

 

André Lebey

Scrivo perché non posso fare altrimenti. E direi che non si ha che una scusa per scrivere, ed è, infatti, di non poter far altrimenti.

 

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La Contessa de Noailles

Scrivo perché il giorno in cui non sarò più

Si sappia come l'aria e il piacere mio siano piaciuti,

E che il mio libro porti alla folla futura

Quanto amavo la vita e la felice natura.

 

 

Léon Balzagette

Perché quel bambino sulla strada fischia seguendo la grata che sovrasta la strada?

Perché, nell'uscire dal baratro di anni miserabili, conserviamo ancora, malgrado tutto, inestirpabile, la vecchia fede nell'uomo e il mondo?

Perché questa vita che non è più vita, perché è troppo impregnata di fresca morte, conserva tuttavia un aroma?

Perché ho rabbrividito di benessere e di emozione ritrovando, alla fine dell'estate, il fogliame e le acque e i cieli famigliari?

Perché, perché?

Mi sembra che se potessi rispondere a una di queste domande, meglio che con un'altra domanda, saprei dire anche perché scrivo.

 

Louis de Robert

Scusatemi di non poter rispondere alla vostra domanda. Quando non si è più giovani, non si è più tentati di discutere della propria arte: si preferisce esercitarla. Perché scrivo? Non ne so nulla. Probabilmente perché è la sola cosa che mi piaccia fare.

 

Jacques Dyssord

Perché non posso fare altrimenti e a questo proposito, ascoltate quest'apologo: "C'era una volta, al castello di Belle-Lurette, a due passi dalla Spagna, una madre ammirevole che si era augurata di fare di suo figlio un santo. Non vi è miglior modo per attirare l'attenzione del Maligno.

 

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Il figlio cominciò molto presto il suo noviziato di prodigo e un giorno mentre baciava le lacrime versate da sua madre per una delle sue recenti malefatte, lei gli disse:

"- Figlio mio, perché mi fai piangere?

"- Perché non posso fare altrimenti, egli rispose.

E si guardarono a lungo in volto".

 

F. Vanderpyl

Non mi avete domandato perché scrivo. Avete ragione...

Io non scrivo, io urlo.

 

Maurice Leblanc

Dopo venticinque anni di lavoro e due o tre dozzine di romanzi pubblicati, sarebbe difficile analizzare le ragioni per le quali si è cominciato a scrivere. Ogni mattina si prende la penna perché non si può più fare altrimenti altrimenti si rischia il malessere, l'inquietudine e il senso di colpa. Vi è qui di fronte a se stessi, allo stesso tempo un obbligo morale, una necessità fisica. La santità dello spirito e del corpo, l'equilibrio stesso del sistema nervoso, dipendono dal nostro impegno quotidiano, al quale ognuno di noi crede lealmente sia stato destinato.

 

Jean Pellerin

Se vi rispondessi "scrivo perché scrivo" giudichereste la risposta insufficiente - avreste ragione; impertinente - avreste torto...

Tuttavia, non vedo veramente altra spiegazione da fornire - anche a me stesso.

 

André Germain

Mi sembra che sia alla contempo una domanda generale e una motivazione individuale che mi ponete.

Evidentemente, è senza nessun motivo legittimo che per la maggior parte scriviamo.

 

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Detto ciò, comprenderete che io non voglia rispondere a mio nome. O formulerei un'ammissione di estrema umiltà o commetterei un atto di sufficienza.

Gli eccessi mi ripugnano.

 

Sébastien Voirol

Per tentare di esprimere con precisione un ideale complesso.

Per aver così di tanto in tanto la sensazione gradevole di trionfare su una difficoltà.

Per rendere omaggio alla semantica.

Per far imbestialire alcuni i cui giudizi mi sembrano bassi.

Per interrompere con un lavoro adeguato un sogno disperso e senza eguali.

Per lasciare la debole traccia di una individualità la cui formazione presenta un interesse relativo e per almeno altre 22 ragioni.

 

Raymond Radiguet

Un uomo ragionevole non può agire senza motivo.

Chamfort

E' sempre penoso riconoscere la di Julius de Baraglioul.

L'omicidio, come la letteratura, non è alla portata di tutte le anime. Aspettavo la vostra domanda per identificarmi con Lafcadio. Senza ragione, commette un crimine: ragione di più per considerarlo non sprovvisto di serietà.

Caro Julius, se mi denunciate alla giustizia di questo paese, fingerò di aver "commesso" delle poesie allo scopo di arricchirmi.

(Chiedete piuttosto ai vostri lettori: perché leggete?).

 

Jacques-Emile Blanche

Prima di leggere la lettera del signor Tristan Tzara, avrei risposto, pressappoco:

"Se si scrive, non è che un rifugio: da ogni punto di vista". Ma è troppo tardi. Dunque:

"Non ho imparato a suonare il violino", oppure:

"E' per ricominciare le gesta della mia prima infanzia.

 

 

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Henri Hoppenot

La domanda posta da voi a quei "rappresentanti più qualificati delle diverse tendenze della letteratura contemporanea" rischia d'interrompere la carriera dei più sinceri tra di loro. Cammino nella vita da otto giorni, preceduto da questo punto interrogativo e forse non scriverò mai più.

Ho il profondo dispiacere di non potervi dire che scrivo per guadagnare del denaro. Un simile motivo, infatti, mi giustificherebbe pienamente ai miei occhi e ho tanto più dispiacere a non poter invocarlo perché tutti i nostri futuri guadagni d'autore non basteranno ad ammortizzare le spese sconsiderate che comportarono un tempo per la mia borsa di giovane la stampa di alcuni libricini indifendibili.

Fuori da quest'uso del cervello-strumento e questa trasmutazione dell'opera intellettuale in tutte le belle e buone cose che il denaro solo sa procurare, non trovo al fatto di scrivere che una sola ragione valida e colui che soltanto avrebbe potuto evocarla è morto.

Egli vi avrebbe forse detto: scrivo per liberarmi da tutto l'accidentale, per ricusare ciò che può distruggermi, per uccidere esprimendolo ciò a cui voglio sopravvivere. La mia opera è innanzitutto la negazione di ciò che non sono. Strappo da me le frasi e i ritmi come le parti di un indumento disgustoso e getto nella fossa comune questi stracci. Nudo e solo, rimarrei nel deserto.

L'uomo sincero è morto, e noi che scriviamo e scriveremo ancora, non lo faremo che per delle ragioni che vanno dal secondo al diciottesimo ordine del sentimento e lascio ai miei distinti confratelli la cura di esprimervi.

 

Francis Picabia

Non lo so davvero e spewro di non saperlo mai.

 

Knut Hamsun

Scrivo per abbreviare il tempo.

 

 

 

[1] Vedere i numeri 10 e 11.

 

[Traduzione di Elisa Cardellini]

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31 luglio 2015 5 31 /07 /luglio /2015 06:00

 

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NOSTRA INCHIESTA

 

Perché scrivete?

 

 

MICHEL CORDAY

 

Persuaso che il libro più modesto esercita un'azione e lascia una traccia, scrivo soprattutto per diffondere le convinzioni che mi sono care, per combattere le sofferenza e servire la felicità.

 

PAUL BRULAT

 

Mi chiedete:

Perché scrivete? Ecco la mia risposta:

Scrivo per esprimere ciò che penso e ciò che sento, e cioè per cercare di soddisfare la mia passione di sincerità.

 

 

JACQUES REDELSPERGER

 

 

Perché scrivo?... semplicemente

Per un egoismo supremo,

Per, senza un più sottile argomento,

Farmi piacere a me stesso;

Ma se il pubblico preso di noia

Trova qualcosa da ridire,

Non deve prendersela che con se stesso,

Non essendo obbligato a leggermi...

Strana pubblicità dopo tutto

Da parte di un uomo di lettere,

E il mio editore, presumo,

La troverà poco di suo gusto.

 

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MAX MAUREY

 

Direttore del Théâtre des Variétés

Perché scrivete? mi chiedete.

E' la domanda che mi pongo tutte le volte che scrivo una commedia.

 

 

OCTAVE UZANNE

 

Perché scrivo?

Non me lo sono mai chiesto, perché ho sempre obbedito a quest'ardente impulso passionale che è forse la vocazione.

Inoltre ritengo che la sola ricompensa della vita intellettuale risiede nel lavoro del pensiero e in tutte le ebbrezze e immunità dei mali volgari che conferisce l'autosuggestione dell'azione cerebrale. Il resto: successi pubblici, onori, gloriucce non valgono la pena di essere sollecitate. Vi è nella combustione delle idee un ritorno di fiamma che basta a scaldare tutta una vita da benedettini delle lettere. Coloro che chiedono altro alla società non sono degni di esercitare un apostolato per così dire religioso e mistico, che paga ampiamente i suoi devoti.

E dire che ci sono degli scrittori che vogliono unirsi alla C. G. T.

 

FERNAND GREGH

 

... Ecco, non sono più ora che un sognatore

Che vuole con parole confuse balbettare il suo sogno,

Che vuole ritmare i rumori passeggeri del suo cuore

Non perché lo si ammiri e lo si applauda:

- La gloria è il bel nome dorato dell'ingiustizia

E il più valoroso non è sempre il vincitore; -

Ma perché per sempre sente un vago istinto

Di cantarsi per sé la sua anima, un sordo dispetto

Di farvi variare l'ora, per il piacere,

Così come una donna fa scintillare un anello,

E poi perché un po' più tardi quando morirà,

Lasci un po' di lui in qualche strofa austera,

E che si sappia un giorno che un tempo fu sulla terra

Un povero uomo simile agli altri, che pianse.

 

Tratto, da "L'Or des minutes", page 43. - 1905

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JACQUES BAINVILLE

 

Scrivo perché questo è il mio mestiere e per dire quel che penso.

 

JEAN DE BONNEFON

 

Ho scritto, all'inizio della mia vita, perché la professione delle lettere mi è sembrata essere la più liberale e la più indipendente del mondo.

Ho continuato, senza sosta, il duro e caro mestiere perché l'indipendenza è un oggetto di perpetua lotta. Ho continuato perché la bontà dei lettori dà coraggio e forza.

Poi... nella scrittura "il lavoro è uno scopo non un mezzo".

 

 

PIERRE DECOURCELLE

 

... "Ebbene, in verità, gli stolti avranno da ridire,

Quando non si ha denaro, è divertente scrivere.

Se è un passatempo per non annoiarsi,

Val bene la borsa dell'acqua calda... E se è un mestiere,

Detto tra noi, dopo tutto, non è uno dei peggiori

Di mantenuta, avvocato, o portiere..."

(ALFRED DE MUSSET)

Per copia conforme:

PIERRE DECOURCELLE.

 

 

LOUIS DIMIER

 

Scrivo: 1 ° per possedere.

Possedere la verità delle cose apparse ai miei sensi e alla mia ragione. Esprimendo questa verità, la faccio mia, le mie vedute sono il legame che le unisce. In Aristotele ciò si chiama imitazione. Si deve concepirne l'essenziale. Imitare è ricreare l'oggetto, quindi impadronirsene tanto quanto si possa concepire. E' un piacere incomparabile, un'attrazione suprema, al quale hanno parte due cause: l'intelligenza dell'oggetto, il suo rapporto; l'una è luce, l'altro potenza; la seconda trova nella prima la sua prova e il suo complemento. Corot diceva: Oh! che bella vacca; la dipingerò. Zac! eccola.

2 ° per persuadere.

Il vero delle cose entrato nell'intelligenza, l'oggetto fa spirito,

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diventa comunicabile. Necessariamente tende a comunicarsi. L'universale del pensiero che l'informa è come una molla che spinge all'infinito. Tutti gli uomini sono chiamati a godere di ciò che possiedo. Nuova prova dei lumi che presiedono all'imitazione, nuovo esercizio della potenza che essa suppone. Persuadere deriva da possedere. Ne è la conseguenza necessaria; procede dalla stessa attrazione. Coloro che li separano, che descrivono il piacere di scrivere come indipendente dall'approvazione, assumono un tratto d'orgoglio o di ripicca per l'essenza delle cose.

Questo è il piacere di scrivere, così ne è il demone. Delle due cause che ho appena citato, in un senso generale, si può chiamare la prima poesia, la seconda avrà come nome eloquenza. La prima dà nascita all'arte in sé, la seconda ne espande l'effetto.

 

 

ADRIEN VÉLY

 

Perché mi hanno insegnato a scrivere.

 

 

LÉON RIOTOR

 

Presidente onorario della Société des Poètes français.

È l'origine concreta di questa funzione che avete di mira, il perché dell'atto materiale, poiché giudicate inutile l'esposizione della tendenza?

Se sì: scrivo così come leggo, perché figlio di tipografo e di stampatore, in un ambiente saturo di carta stampata, fui tentato di fare come tutte quelle persone che mi circondavano, di essere stampato come loro, su della carta umida, poi in giornali e su di un libro.

Avevo appena 14 anni quando una poesia firmata con il mio nome apparve su di un giornale. Ho continuato a scrivere e a pubblicare, così come si mangia o beve, con una specie di soddisfazione nuova ad ognuna delle estrinsecazioni del mio pensiero. E continuerò così indubbiamente sino alla morte. È un atto talmente naturale che mi sarebbe sembrato anormale non sottomettermici.

 

IRENE HILLEL-ERLANGER

 

Perché scrivo?... non facile da scrivere.

Diciamo (se vi piace) che

scrivo perché adoro la parola e anche perché

amo Parigi - e i cataloghi dei grandi magazzini di novità!

 

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RENÉ GHIL

 

Quando nel Novembre 1884, a ventidue anni, firmavo la Prefazione del mio primo libro, in cui sin da allora elaboravo un primo piano dell'Opera che avrebbe occupato la mia vita, - credetti che quest'Opera, con la sua dottrina filosofica, le sue teorie tecniche e le sue direttive, si presentava necessariamente, per una evoluzione di senso profondo del Pensiero poetico. Dico: necessariamente, e che nessun altro poteva questo sforzo di Poesia a base scientifica, e di Sintesi.

Credo che l'Opera compiuta - che si completerà con altri quattro volumi - è venuta in testimonianza, qualunque sia la distanza, ahimè! tra l'espresso e il sogno creatore... E' per questo che scrivo.

 

 

H. R. LENORMAND

 

Scrivo, come ogni scrittore, per affermare delle tendenze intime respinte nella vita reale. Credo che l'opera d'arte potrebbe essere definita una compensazione del reale. I nostri istinti rivoluzionari e sessuali, i nostri istinti di dominio e di conoscenza non possono soddisfarsi pienamente nel corso della vita. La loro  una sublimazione che fa nascere l'opera d'immaginazione. Quest'ultima non è dunque che la manifestazione di velleità contrariate. Essa può, nei casi di repressione eccessiva, sfociare in una contraddizione completa e magnifica dell'effettiva esistenza dello scrittore.

Le atrocità sfrenate delle opere di de Sade possono spiegarsi con il fatto che egli scriveva soprattutto in prigione. L'esagerazione delle sue invenzioni mi farebbe piuttosto credere alla non realizzazione delle sue tendenze erotiche. È una rivincita del sogno sulla realtà.

Per quel che mi riguarda, non c'è da dubitare che alcune delle mie opere teatrali come "Poussière", "Les Possédés", "Terres chaudes", tra le altre, sono un tentativo di compensazione di istinti rivoluzionari ostacolati e di desideri di viaggi non del tutto soddisfatti.

 

 

ROCH GREY

 

Approvo pienamente il nuovo gioco di società inaugurato dal vostro questionario.

Il mio amico Léonard Pieux, esploratore del deserto africano, vaga nei paraggi di fattori ignorati. Sicuro del suo assenso, vi rispondo per lui: egli come me scrive, innanzitutto per farvi piacere; in seguito, per partecipare al mantenimento dell'equilibrio universale che a grandi grida richiede il nostro concorso.

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PAUL HYACINTHE LOYSON

 

Per giustificare Alceste.

 

HENRI FALK

 

"Perché scrivete?". Non siete i primi a pormi questa domanda: me la rivolgo spesso a me stesso. Perché, se si tratta di fare fortuna, scrivere è oggi un mezzo singolare; e se si tratta di "fare dell'arte", scrivere testimonia di una singolare sufficienza. Siamo sempre sicuri di essere degli artisti?

Scrivo dunque senza ragione, ma non senza motivo: sarei troppo afflitto se non scrivessi affatto.

 

EDMOND JALOUX

 

Se non scrivessi, morirei di fame.

 

 

MAX E ALEX FISCHER

 

Per bontà: per non scoraggiare nessuno...

 

HENRI DUVERNOIS

 

Scrivo per cercare di divertire le "brave persone!".

 

 

JEAN PAULHAN

 

Sono commosso che aspettiate le mie motivazioni; ma infine, scrivo poco, il vostro rimprovero mi sfiora appena.

 

 

PAUL SOUDAY

 

Per quanto lontano risalgano i miei ricordi d'infanzia, trovo questa idea profondamente radicata in me, che la sola vita interessante e nobile è quella che si dedica esclusivamente alle cose dello spirito. La cura degli interessi materiali mi ha sempre ispirato una ripugnanza invincibile. Non potevo essere che un prete, professore, uomo di lettere, artista o scienziato. Di queste carriere ho scelto quella che ho creduto la più conforme alle mie attitudini; indubbiamente avrei preferito scrivere un numero ristretto di opere maturati a lungo. Il giornalismo,

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in cui ho sono dovuto entrare giovanissimo, è stato per me, una necessità alimentare. È un mestiere impegnativo e a volte anche deludente, ma appassionante anche. Faccio del mio meglio per rendermi utile e servire il culto delle buone lettere. Ma tutto ciò è forse un po' ambizioso. Diciamo semplicemente che ho seguito il mio piacere.

 

FRANTZ JOURDAIN

Presidente del Salon d'Automne.

 

Per infastidire, in generale, le persone che le mie idee disgustano, e per dare un attacco di apoplessia al signor Lampué, l'onorevole e simpatico consigliere municipale della Ville-Lumière.

 

FRANCIS JAMMES

 

Scrivo perché, quando scrivo, non faccio altre cose.

 

GIUSEPPE UNGARETTI

Per pudore.

Se potessi essere qualcuno, mi divertirei a non apparire.

Sapete che il pudore è la forma cosciente della codardia.

Ma, per caso, mi sono appena fatto vedere nudo del tutto.

Non abbiatemene rancore.

 

ANDRÉ COLOMER

 

Scrivo, mangio, respiro, faccio l'amore, piango, canto, cammino e danzo e penso e vivo e morirò e non ne saprò mai il perché.

Perché vivo? Perché scrivo? Sono Dio, per poter risolvere dei perché? Mi constato e ciò mi basta.

Io sono.

 

(Segue.)

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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31 luglio 2012 2 31 /07 /luglio /2012 06:00

Promuovendo periodicamente sulle loro riviste un'inchiesta, i surrealisti sono stati i primi a servirsi di un trampolino mediatico per affrontare delle questioni essenziali. 

Perché scrivete? Questa domanda, che riceve decine di risposte di ogni genere, permette a Breton e compagni di squalificare il piccolo mondo delle lettere e di lanciare il dada-surrealismo con questo numero soprattutto di Littérature, il numero 10 del dicembre 1919. 

Negli anni seguenti le domande sarebbero sempre state di quel tenore, essenziali e concise: Il suicidio è una soluzione? (1924); Quale specie di speranza riponete nell'amore? (1929); Qual è stato l'incontro capitale della vostra vita? (1933), ecc. 

Mentre le ricerche e le attività condotte in seno al gruppo rivelano l'identità polimorfa del gruppo surrealista, le inchieste che sono rivolte all'esterno possono essere considerate al contempo una provocazione e un confronto e anche un manifesto pubblicitario. 

 

 

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Copertina della celebre rivista mensile Littérature, massima espressione del dadaismo francese e che nel corso degli anni diventerà il centro di incubazione del movimento surrealista.

 

 

 

 

 

 

litterature10-1919-retro.jpgI tre direttori della rivista Littérature Louis Aragon, André Breton e Philippe Soupault, principali elementi del primo dadaismo francese, diventeranno i primissimi esponenti del movimento surrealista. È proprio sulle pagine di questa rivista che vedrà la luce la prima opera considerata surrealista e cioè Les Champs Magnétiques opera scritta congiuntamente da Breton e Soupault verso la fine del 1919 sui numeri 8, 9 e 10 della rivista.

 

 

 

 

 

 

 

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NOSTRA INCHIESTA

 

Cominciamo oggi la pubblicazione delle lettere che ci sono giunte. In ogni numero - non da un numero all'altro- seguiremo nel farle apparire l'ordine inverso delle nostre preferenze allo scopo di mantenere l'interesse della lettura e di evitare ai nostri corrispondenti la sorpresa di un commento.
 


 

PERCHÉ SCRIVETE?
 


 

LOUIS VAUXCELLES 
 

Perché scrivo, Confratello mio? Ma per il piacere di esprimere liberamente il mio pensiero. 


 

HENRI GHÉON

 

Scrivevo un tempo per il mio piacere e per la gloria; ponevo il mio piacere molto in alto e la mia gloria molto lontana; non avevo che l'amore per l'arte. La guerra ha cambiato tutti questo. Scrivo oggi per servire. Per servire Dio. La Chiesa di Dio e la Francia; è il miglior mezzo secondo me, di servire l'arte, quando si è come me, cristiano, cattolico e francese. Ma, non dico che la gloria mi è diventata indifferente, e quando un piacere che mi dà la mia arte, esso non fu mai, con una grande differenza, così vivo, al tempo in cui mi sfuggiva l'imperioso dovere di essere utile.

 

 

MADAME JEAN BERTHEROY

 

Scrivo per cercare di esprimere tutto ciò che può esserci di divino nella condizione umana.


 

 

 

 

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PAUL FÉVAL FIGLIO

 

Nato in mezzo ai manoscritti di mio padre, in una casa in cui i successi del romanziere e dell'autore drammatico apportavano il benessere, con il va e vieni continuo dei giornalisti, degli artisti, degli editoiri e dei direttori, mi sarebbe stato ben difficile sognare un altro genere di carriera.

 

Scrivere per me è un piacere.

 

Accanto all'esistenza comune l'uomo di lettere si esteriorizza attraverso l'immaginazione, delle due vite la seconda è preferibile alla prima.

 

Il sogno supera la realtà.

 

 

JEAN ROYÈRE

 

Mi chiedete perché scrivo? Vi rispondo:

 

un po' per iniziare

 

molto per esaltare

 

passionalmente per inebriare

 

nient'affatto per distruggere

 

 

JEAN GIRAUDOUX

 

Scrivo il francese non essendo né svizzero, né ebreo e perché posseggo tutti i miei diplomi: Grand Prix d'Honneur del Liceo Lakanal (1904, eccellente annata), Primo premio del Concours Général (1906, annata non meno valida). Licenza in lettere, con menzione molto bene. Primo All'École Normale Supérieure. Nato a Bellac (Haute-Vienne).

 

 

JOSEPH REINACH

 

Perché credo, - e quando credo, - a torto o a ragione, di avere qualcosa di utile da dire.

 

FERNAND DIVOIRE

 

Chiedetelo a Monsignor l'ipercosciente.

 

 

GEORGE PIOCH

 

 

Per vivere, - in tutti i diversi sensi dati dal verbo "vivere".

 

 

 

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MADAME RACHILDE

 

Perché amo il silenzio.

 

 

FERNAND VANDÉREM

 

Per vivere - spiritualmente e materialmente.

 

MAX JACOB

 

Per scrivere meglio!

 

 

GEORGES LECOMTE

Presidente della Société des Gens de Lettres

 

 

Perché scrivo? Per cercare di vedere più chiaramente in me e per guardare con maggiore attenzione gli spettacoli di bellezza. Per bisogno di formulare da me stesso le emozioni e di combattere per le mie idee, per amore delle parole vive chiare e colorite della lingua francese, per gusto dell'azione libera. Perché non vi è nessun modo di espressione che dia così bene il senso della piena libertà. Davanti al foglio bianco. lo scrittore ha la gioia e la fierezza di sentire che non dipende che da se stesso. Ed è una delle gioie più nobili.

 

MADAME MARCELLE TYNAIRE

 

Scrivo perché mi fa piacere e perché è la mia vocazione, come per un melo portare le sue mele.

 

PAUL MORAND

 

Scrivo per essere ricco e stimato.

 

ANDRÉ DODERET

 

Scrivo per non dover pensare.

 

 

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J.-H- ROSNY AINÉ

dell'Accademia Goncourt

 

Per vocazione, credo... Scrivevo già all'età di undici anni, e da allora non ho smesso... È una malattia ultra cronica.

 

 

PAUL ÉLUARD

 

Scrivo e credo di rispondere interessando.

 

Il suo giovane e breve scritto indica la sua giovinezza evidentemente credula. Smettetela immediatamente, senza gioia scrivete come fosse nulla.

 

Qui, senza guance, spaventoso, cranio tondo, ributtante, S... gioisce, intasca, sputa, arrossisce. Ispirato, S... si mette a scrivere, corona, sognare. Si mette in gioco. E, calmo, rinasce immobile, saggio, per imparare una lezione.

 

 

JEAN AJALBERT

dell'Accademia Goncourt

 

Perché scrivo? Me lo chiedo anch'io!

 

ANDRÉ GIDE

 

Potrete classificare gli scrittori a secondo che la loro risposta alla vostra inchiesta inizierà con "per poter" o "perché".

 

Vi saranno coloro per cui la letteratura è soprattutto uno scopo, e coloro per cui è soprattutto un mezzo.

 

In quanto a me, scrivo perché ho una buona penna, e per essere letto da voi... Ma io non rispondo mai alle inchieste. 


 

BLAISE CENDRARS

 

Perché. 


 

LOUIS DE GONZAGUE-FRICK

 

In verità scrivo per dare novità poetiche ai miei amici di cui vi farò avere un elenco completo e commentato con massimo diletto.

 

 

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EUGÉNE MONFORT

 

Perché scrivo? Perché ce l'ho nella pelle. 


 

WILLY

 

Perché scrivo?

Per convincere alcuni confratelli - dei due sessi - che malgrado il loro vivo desiderio di vedermi sepolto, duro ancora.

 

PIERRE MILLE

 

Perché non sono riuscito in nessun altra professione, anche inconfessabile.

Ho l'aria di fregarmene di voi, ma se ci riflettete sopra per un istante, è questa la sola definizione scientifica che si possa dare della "vocazione".

 

 

PIERRE REVERDY

 

Mi scrivete per pormi domande.

Io vi scrivo per rispondervi.

Si scrive anche per far parlare di sé, occupandosi di più per far scrivere sulle proprie opere che di sapere se esse siano degne che se ne parli; ma questa è già una tendenza! per ora non leggo che i manifesti elettorali. Ebbene, si scrive anche affinché altri guadagnino dei soldi!!! Si capisce!

 

JULES MARY

Presidente onorario della Société des Gens de Lettres

 

Mi chiedete: "Perché scrivete?" È un problema di cui mi incarico di non darvi la soluzione. Sarebbe stato preferibile, credo, chiedermi: "Perché invece di fare l'impiegato, il professore, l'aratore o il soldato, perché vi siete messo a scrivere?". Perché ho iniziato a scrivere in un'età in cui non ero affatto in grado di sondare il mio cuore e di vedervi con chiarezza. A dieci anni, avevo letto e riletto dieci volte l'Iliade una cui traduzione mi era capitata tra le mani. A dodici anni, avevo letto - bizzarro accostamento - Balzac e I Grandi Naufragi, Ponson

 

 

 

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du Terrail e la Vita dei Martiri, Georges Sand e La storia dei Corsari, Paul de Kock, Frassynous e Lamennais.

Perché, a tredici anni, ho scritto i miei primi romanzi che ci si passava di banco in banco, allo studio dei grandi, che aspettavano ansiosamente, il seguito al prossimo numero.

Di già!!

Perché, le sere d'estate, allo scopo di poter leggere svegliandomi prima, mi legavo un polso alle sbarre del letto?

E non vi sembra naturale, sin da allora, che nei giorni in cui ero stanco di leggere, ho pensato come forma di riposo di dare da laggere agli altri?

Ora, perché avendo cominciato, ho poi continuato? Perché terminata una delle mie belle storie, sono spinto verso altri personaggi? Perché le combinazioni di situazioni rappresentano per me non soltanto la grande gioia del mio lavoro, ma un bisogno del mio cervello? Perché? Perché?

Perché appartengo alla generazione, che più dolorosamente delle altre, ha portato il fardello del 1870? Perché me ne sono ricordato, cercando di reagire ponendo nei miei racconti, le mie ardenti convinzioni, la mia speranza e i miei appelli all'energia popolare?

Infine, perché, nel momento in cui vi scrivo, un ragno, piccolissimo, minuta, quasi trasparente, tesse la sua tela, tra le piante verdi della mia veranda?

 

 

PAUL VALÉRY

Per debolezza.

 

 

 

[Traduzione di Elisa Cardellini]

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1 luglio 2012 7 01 /07 /luglio /2012 07:00

Le Avventure di Telemaco

 

 

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Ritratto di Aragon di Robert Delaunay

 

 

 

 

 

A Paul Éluard

 

 

 

 

LIBRO I


 

Nonostante la grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si vede spesso in difficoltà riguardo ad un'espressione che si adatti esattamente al suo concetto, mancando della quale egli non può farsi intendere rettamente dagli altri, e neppure da se stesso. Coniare nuove parole, è una pretesa di legiferare in materia di linguaggio, la quale di rado ha successo; e prima di ricorrere a questo mezzo disperato, è consigliabile in una lingua morta e dotta, per vedere se non vi si trovi questo concetto assieme alla sua espressione adeguata, e quand'anche l'uso antico di tale espressione sia risultato un po' incerto, per inavvedutezza dei suoi autori, è tuttavia meglio rafforzare il significato che precipuamente le era proprio (dobbiamo lasciare in dubbio la questione se la si intendesse allora esattamente nello stesso senso) piuttosto che mandare a vuoto il nostro compito, per il fatto di renderci incomprensibili.

 

(Kant, Critica della Ragion pura, 2a parte, 2° paragrafo, Libro I, Prima sezione)

 

 

 

 

 

 

 

 

ONOREVOLE  AMMENDA

 

 

 

 

Il problema della scrittura, quello dell'originalità possono per un istante tormentare un giovane: sono impotenti a trattenerlo. Il 1920 per qualche spirito azzardato sarà stato l'anno dei processi formali. Eccolo arrivato. Il senso proprio delle parole non potrebbe per nessuno costituire ciò che si è convenuto chiamare un ideale. Spesso esso mi sfugge la maggior parte delle volte, e si riconoscerà che per tutta la durata di un libro ho radunato sotto le forme di una parola amore mille elementi che non sono affatto essenziali all'amore stesso. Confesso qui questo tormento, che, per colpa delle parole, cerco ancora oggi di spiegarmi per mezzo dei miei ricordi di piacere i veri movimenti del mio cuore. Da qui quegli errori, quegli equivoci, quelle confusioni.

 

La puerilità di quest'opera, se esplode agli occhi di tutti, è perché queste avventure non superano il ciclo dell'infanzia; esse pongono l'equazione a due incognite, l'uomo e la donna, che non si risolverà che molto in là. Che non ci si inganni: la critica della vita, non la intramprendiamo che per l'assenza dell'amore. Non appena inizia, i dati cambiano: ci facciamo acquiescentemente universali. L'indifferenza alle idee, ecco cosa non sospettavamo. Soddisfazione nel provarsi tramite l'uragano sentimentale. Mi spezzo di una tenerezza infinita, accettata ed infine rivoltante. La notte in pieno mezzogiorno. Se voi sapete cos'è l'amore, non prendete in considerazione quanto segue.

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 Calipso come una conchiglia in riva al mare ripeteva sconsolatamente il nome di Ulisse alla schiuma che portano via le navi. Nel suo dolore dimenticava la sua immortalità. I gabbiani che la servivano volavano via al suo approssimarsi per paura di essere consunte dal fuoco dei suoi lamenti. Le risa dei prati, il grido della ghiaia fine, tutte le carezze del paesaggio rendevano più crudeli alla dea l'assenza di colui che glieli aveva insegnati. A quale scopo portare i suoi sguardi all'infinito, se non si devono incontrare che le amare pianure della disperazione? Invano le rive dell'isola fiorivano al passaggio della loro sovrana, che non prestava attenzione che allo stupido corso delle maree.

 

Un vascello giunse opportunamente a spezzarsi ai piedi di Calipso. Ne uscirono due attrazioni. La prima non aveva ancora vent'anni e somigliava così perfettamente a Ulisse che gli stessi rami degli alberi, nel modo in cui egli li piegò, riconobbero Telemaco, suo figlio, che non aveva ancora piegato nessuna donna tra le sue braccia. La seconda entità non era comprensibile né per la sabbia dei viali, né per la dea desolata, né per l'eterna primavera che regnava in queste favolose contrade: non si poteva riconoscere Minerva sotto i tratti del vegliardo Mentore, per quanto si fosse ninfa o più alta divinità.

 

Tuttavia Calipso ritrovava con gioia il suo amante fuggiasco in questo giovane naufrago che si avvicinava a lei. Riconoscere già questo corpo che vedeva per la prima volta la turbò più di quanto non facessero quelle macchie brillanti, le alghe attaccate dall'acqua viva alle membra tornite di Telemaco. Si sentì donna e finse la rabbia.

 

"Straniero," gridò, "cambiate strada se tenete alla vita. Gli uomini  sono banditi dal nostro territorio".

 

Il rossore della sua fronte mentiva le sue parole. Il giovane viaggiatore si chinò  con la grazia di un ricordo:

 

"Signora", egli disse, "voi che esito a prendere per una divinità per quanto mi sembrate bella, sapreste guardare senza pietà un giovane che si cerca per il mondo, perché rincorre la propria immagine, un padre senza sosta portato lungi da me da questa stessa furia delle tempeste e delle idee che mi pone interramente nudo ai vostri piedi?

 

- Chi è questo padre?

 

- Lo chiamano Ulisse, e a cosa gli serve che questo nome sia celebre in tutta la Grecia e in tutta l'Asia? La sua patria gli è proibita, le onde non gli risparmieranno un errore. La saggezza di questo eroe, lungi dall'evitargli gli scogli, lo trascina sempre in nuovi pericoli. Ho lasciato senza speranza mia madre Penelope; percorro l'Universo per reclamarle Ulisse, naufragato forse nei suoi mari, e, a volte, trovo negli spiriti la traccia di colui che mi sfugge e dal quale, dea, se lo strano gioco delle passioni lo ha mai gettato sulla vostra isola, non nasconderete la sua sorte a suo figlio Telemaco".

 

Calipso, più attenta ai movimenti del suo cuore che a quelli di quei discorsi, non osava spezzare con la parola o il movimento il fascino che trattenava il suo sguardo su quella forma troppo umana. La vertigine che confondeva i suoi occhi la costrinse per il timore di se stessa a rompere di colpo il silenzio.

 

"Telemaco, vostro padre.... Ma vi racconterò la sua storia nella mia dimora dove troverete un riposo più dolce e più fresco del vento leggero dei ventagli agitati dalle serve e, se sapete godere delle mie cure materne, quella felicità, appannaggio di un minuto, che posso prolungare senza fine nel labirinto chiuso delle mie braccia immortali".

 

La grotta della dea si apriva

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

LINK all'opera originale da Internet Archive:

Les Aventures de Télémaque

 

LINK alla medesima opera da Dada Archive:

Les Aventures de Télémaque

 

 

 

LINK ad un saggio in italiano sull'opera:
Louis Aragon: Les Aventures de Télémaque (1922)

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21 aprile 2011 4 21 /04 /aprile /2011 13:43

LOUIS ARAGON


ANICET o il panorama


Manoscritto di Anicet

Ammetto, e soprattutto mi auguro, che la figura di Louis Aragon possa anche non piacere, magari sia come scrittore o poeta e uomo, ed ancor più come esponente politico-culturale. La sua conversione allo stalinismo, ma soprattutto la sua incrollabile fede in esso sino alla fine dei suoi giorni ne fanno un soggetto a dir poco sgradevole. È per questo che di quell'Aragon lì non ce ne occuperemo affatto, anzi mai.
Il nostro blog tratta, per fortuna, in modo centrale di dada e quindi è il Louis Aragon dadaista che ci interessa, sino al 1923-24, possiamo dunque stare tranquilli, in generale. Questo Aragon ci piace e non poco, è brillante, impregnato di una sottilissima vena ironica, innovativo, provocatorio e fantasioso.
Oggi presentiamo il primo capitolo di una sua eccellentissima opera, il suo primo romanzo intitolato Anicet ou le panorama [Aniceto o il panorama]  che egli scrisse tra  il settembre del 1918 ed il mese di marzo del 1920 e che fu edito nel 1921 dalle Editions de la Nouvelle Revue Française. Quindi prima che egli aderisse a dada.
Il romanzo, ricco di trovate e colpi di scena anche grotteschi, è formalmente un intreccio di generi presentandosi sia come un romanzo di formazione psicologica sia come un romanzo poliziesco ma anche come un roman philosophique a cui l'ironia e la parodia si presentano in modo oltrettutto esuberante.

 

 

LOUIS ARAGON

 

 

ANICET, Aragon 

A N I C E T

 

O  IL  PANORAMA

 


 

 

L’assenza di sistema è ancora un

sistema, però il più simpatico.

Tristan Tzara.

 

 

 

 

 


 

C A P I T O L O   P R I M O 

 

ARTHUR.

 

 

Anicet non ricordava dei suoi studi superiori che la regola delle tre unità, la relatività del tempo e dello spazio; a questo si limitavano le sue conoscenze dell’arte e della vita. Vi si aggrappava saldamente adeguando ad esse il proprio modo di agire. Ne risultarono alcune stravaganze che non allarmarono affatto la sua famiglia sino al giorno in cui non egli manifestò pubblicamente eccessi poco decenti: si capì allora che era poeta, rivelazione che dapprima lo meravigliò ma che egli accettò di buon grado, per modestia, nella convinzione di non poter egli stesso giudicare meglio di chiunque altro. I suoi genitori, senza alcun dubbio, si adattarono all’opinione generale poiché fecero quello che tutti i genitori dei poeti fanno: lo chiamarono figlio ingrato e gli ingiunsero di viaggiare. Non ebbe coraggio di opporre loro resistenza perché sapeva che né le ferrovie né i piroscafi avrebbero modificato il suo noumeno.

 

Una sera in un albergo di un paese qualsiasi (Anicet non si fidava della geografia, basata come tutte le scienze su dati sensibili e non sulle realtà intangibili), notò durante il pranzo che il suo vicino di mensa non toccava nessuna portata e sembrava malgrado ciò provare tutti gli appagamenti gastronomici del buongustaio. Anicet intuì istantaneamente che questo strano convivente era uno spirito libero che si rifiutava di ricorrere alle forme a priori della sensibilità e non provava il bisogno di portare gli alimenti alla bocca per provarne le qualità. “Vedo, Signore, gli disse, che non cadete nell’incredulità a cui si attengono generalmente gli uomini, e che, in disprezzo della loro stupida rappresentazione della dimensione, vi astenete dai simulacri attraverso cui essi credono di cambiare i loro rapporti con il mondo. Allo stesso modo in cui certi popoli credono alla virtù dei segni scritti, così il senso comune attribuisce superstiziosamente ai propri gesti il potere di rovesciare la natura. Me la rido quanto voi di una simile pretesa, la quale denota la leggerezza di spirito dei nostri contemporanei (parola sprovvista di senso che prendo in prestito, come giustamente ben pensate, dal loro linguaggio) e la facilità a cui danno luogo le apparenze nell’eccedere al loro gioco. Mi chiamano Anicet, sono poeta e fingo di viaggiare per compiacere la mia famiglia. Non potrei nascondervi quanto arda di apprendere accanto a chi sono seduto. La distinzione che appare sul vostro viso e la preminenza dei principi di cui avete dato sfoggio in questa occasione mi incitano a non aver altro desiderio più vivo".

 

  Anicet tacque, molto soddisfatto di sé, dell’arguzia che aveva posto nelle sue dichiarazioni, del suo periodo e della soavità dei sentimenti espressi, infine di alcuni arcaismi attraverso cui aveva così finemente disprezzato l’idea di tempo e la puerile ed onesta cronologia dei bruti che presentemente si crogiolavano con l’illusione di un accostamento del loro palato e di una torta alla crema.

 

  Lo sconosciuto non si fece pregare e cominciò il seguente racconto: “Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne, a quanto mi hanno detto, ma nulla mi permette di affermarlo, tanto più che non ammetto affatto, come avete ben indovinato, la dislocazione dell’universo in luoghi distinti e separati. Mi accontenterei di dire: sono nato, se anche questa proposizione non avesse il torto di presentare il fatto che esprime un’azione passata invece di presentarla come uno stato indipendente dalla durata. Il verbo è stato creato in tale forma che tutti i suoi modi sono funzioni del tempo, e sono certo che la sola sintassi incoroni l’uomo schiavo di questo concetto, perché egli concepisce seguendo essa, ed il suo cervello non è in fondo, che una grammatica. Forse il participio nascendo, restituirebbe approssimativamente il mio pensiero, ma voi capite, Signore,” e qui Arthur colpì il tavolo con il pugno, “che non la finiremmo più se volessimo conformare i nostri discorsi alla realtà delle cose, e che il padrone dell’albergo ci caccerebbe da questa sala prima della fine della mia storia, se non diamo il nostro consenso strada facendo a concezioni puramente formali a categorie che aborriamo come false divinità, e di cui ci serviremo, se lo acconsentite, anziché servirle.

 

“Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne. Molto presto, mi diedero un precettore che doveva insegnarmi il latino ma che preferì interessarmi di filosofia. Mal gliene incolse, perché molto rapidamente osservai che il mio professore smentiva con la sua condotta i principi stessi che egli aveva dimostrato. Agiva come se Dio per costruire la terra avesse anticipatamente calcolato la decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Fui offeso da questa disonestà. Ai rimproveri un po’ veementi che gli feci, l’improbo filosofo rispose con la delazione. Mio padre, uomo semplice e che ignorava tutto dell’imperativo categorico, mi fustigò davanti alle mie sorelle. Decisi di abbandonare la casa perché già possedevo quel senso acuto del pudore che doveva dominarmi successivamente. Viaggiai in un primo momento per le strade, mendicando il mio pane o rubando preferibilmente. È durante questo periodo della mia vita che appresi a concepire le acque, le foreste, le fattorie, le figure dei paesaggi indipendentemente dai loro legami sensibili, a liberarmi dalla menzogna della prospettiva, ad immaginare su di un piano quanto altri considerano su diversi come i bambini che sillabano, a non farmi più ingannare dall’illusione delle ore ed abbracciare simultaneamente la successione dei secoli e dei minuti. Una bella sera, un po’ stanco di questi panorami campestri, mi infilai in un treno e feci, nascosto sotto un sedile per non pagare il biglietto, l’itinerario da C… a Parigi. Questa posizione non mi era scomoda, ben sapendo che soltanto un pregiudizio porta i viaggiatori a preferirne un’altra. Utilizzai il tragitto nell’abituarmi a guardare il mondo a rasoterra, la qual cosa mi permise di farmi un’idea delle rappresentazioni possedute dagli animali di bassa taglia. Poi mi accorsi che contrariamente al mio passatempo abituale nulla era più semplice del riportare su diversi piani quanto si vede su uno solo: basta fissare obliquamente ciò che si  vuole dissociare anziché osservarlo frontalmente. Applicai immediatamente questo procedimento per allontanare dal mio volto gli stivali del viaggiatore seduto sopra me. Nell’entusiasmo di questi esercizi, scandii mentalmente, al suono ritmato del treno sul pietrisco delle massicciate ferroviarie, delle poesie che facevano a meno dello stesso principio di identità.

 

Anicet si permise di interromperlo: “Siete dunque anche poeta, Signore?”

 

–A tempo perso, replicò il narratore. Giunsi a destinazione nella più felice delle disposizioni di spirito. Pensate a quel che è Parigi per un ragazzo di sedici anni che sa meravigliarsi di tutto e in mille modi. Sin dalla stazione mi sentii trasportato: il movimento, le case caricate dalla prospettiva, il modo orientale di scrivere CAFÉ sui frontoni dei palazzi, le feste luminose della sera ed i muri coperti di iperboli, tutto contribuiva alla mia gioia. V’erano poche possibilità che mi stancassi di una decorazione incessantemente variata attraverso alcuni dei metodi di contemplazione che possedevo, quando un’avventura venne a darmi le distrazioni ed il luogo necessari per elaborarne altri.

 

Un mattino in cui m'imbattei in un funerale, mi raffigurai il morto, come mi ero abituato a farlo, indipendentemente dalla durata. Simultaneamente lo percepii nelle pose più arroganti, le più insignificanti e le più naturali, compiendo tutte le bassezze e tutte le stupidità di una vita senza interesse, con i suoi piccoli vizi e le sue piccole virtù, così poco responsabile che sghignazzai sonoramente nel vedere dei passanti scoprirsi davanti alla cassa lucida che racchiudeva i suoi resti. A quell’epoca, la fine infelice di una guerra ancora recente, i dissensi politici ed il giogo sempre severo del romanticismo portavano gli spiriti parigini a delle violenze poco usuali agli abitanti della città più amabile del mondo. Un quidam mi fermò e mi ordinò con tono enfatico di togliermi il cappello dalla fronte a non so quale immagine della nostra umiltà. Accarezzai il mio olibrius con alcuni epiteti e non feci nulla di quanto richiestomi. Poiché quest’individuo tentava di costringermici gli diedi una lezione pratica di filosofia. La cosa finì alla stazione di polizia e venni gettato in una cella oscura in cui mi si dimenticò per tre giorni. Per essere più libero dei miei carcerieri, bastava che mi astraessi dal tempo e dall’estensione, però preferii mettere a profitto questa reclusione per nuove evasioni. I matematici hanno inventato altri spazi oltre il nostro, a n dimensioni, essi dicono. Ma intralciati dall’abitudine di pensare secondo le tre dimensioni, essi non giungono a rappresentarsi le loro stesse immaginazioni. Grazie a queste ginnastiche preliminari, fu al contrario un divertimento per il mio spirito costruire il mondo dando a n i valori più diversi; stavo concependo la distesa ad un terzo di dimensione quando ci si ricordò della mia presenza per farmi comparire davanti al commissario. Poiché le mie risposte subivano un leggero disturbo da quell’esercizio, questo funzionario, che aveva un’idea puerile della relatività dei concetti, non comprese nulla dei miei discorsi e, convinzione di parlare ad un pazzo, mi fece rilasciare.

  Parigi divenne per me un bel gioco di costruzioni. Inventai una specie di Agenzia Cook esilarante che cercava invano di riconoscersi con una guida in mano in questo dedalo di epoche e di luoghi in cui mi muovevo facilmente. L’asfalto si rimise a bollire sotto i piedi dei pedoni; delle case affondarono; ve ne furono alcune che si arrampicarono su quelle a loro vicine. I cittadini portavano diversi indumenti che si vedevano tutti insieme come sulle tavole illustrate della Storia dell’Abbigliamento. L’Obelisco fece spuntare il Sahara Place della Concorde, mentre delle galere vogavano sui tetti del Ministero della Marina: erano quelle degli scudi con le insegne municipali. Delle macchine girarono a Grenelle; vi furono delle Esposizioni in cui si distribuirono delle medaglie d’oro dai millesimi differenti sul dritto e sul rovescio; esse coincisero con l’arrivo di Sovrani e di delegazioni straordinarie. Si abitò senza problemi in immobili in fiamme, in acquari giganteschi. Una foresta crebbe all’improvviso presso l’Opera, sotto i cui alberi di ferro si vendevano delle stoffe baiadere. Scambiai di posto i quartieri les Abattoir e il canale Saint-Martin; lo sconvolgimento non risparmiò i Musei e tutti i libri della Bibliothèque Nationale sommersero un giorno la folla dei perditempo.

 

Vi parlerò dei mille mestieri che feci, di volta in volta venditore ambulante che cantava come fossero poesie i titoli dei giornali che vendevo; uomo reclame per amore dei cappelli alti, facchino, scaricatore alla Villette? L’estraneità della mia vita mi attirò delle curiosità, delle frequentazioni, delle amicizie. Conobbi in certi ambienti un successo eguale a quella di un prestidigitatore o di equilibrista. Infine alcuni oziosi della riva sinistra mi trovarono del genio. Fui ammesso in circoli scelti, degli accademici mi ospitarono, delle donne di mondo vollero conoscermi. Il contatto giornaliero dei miei simili aveva fortemente sviluppato in me questo sentimento del pudore di cui vi ho già parlato e che mi era innato.

 

 Mi sottraevo alle sollecitazioni del mondo per evitare di mettermi a nudo davanti a tutti. È a quest’epoca che conobbi Hortence. Ignorava tutto della vita, ma non dell’amore. Immagine della passività, sopportò le mie fantasie senza comprenderle. Ammise tutte le esperienze, si piegò a tutti i capricci e mi lasciò penetrare sino al disgusto i segreti della femminilità. Davanti a lei potevo togliermi ogni maschera, pensare ad alta voce, svelare la mia intimità, senza timore che lei mi capisse. Fu un manuale prezioso che abbandonai in capo a tre settimane: avevo imparato a conoscere la visione femminile del mondo, così distante da quella degli uomini quanto lo è quella dei topi ballerini del Giappone che non immaginano che due dimensioni nello spazio.

 

Tra gli amici che mi erano valsi alcuni doni naturali ve ne fu uno che si legò a me in modo particolare. Quando L*** giunse a penetrare il mio pensiero, lo battei a sangue. Mi seguiva come un cane. Il mio pudore era infastidito all’eccesso da questa presenza costante e il mio solo rifugio era quello di evadere in un universo che mi costruii e in cui L*** cercava di raggiungermi con degli sforzi così grotteschi che a volte ridevo di lui finché non piangeva. Quella vergogna che mi afferrava quando mi si scopriva andò accentuandosi in questo periodo al punto che una semplice domanda come: che ore sono? Se per caso ero io stesso a proferirla, mi faceva arrossire e rendeva la vita intollerabile. Divenni aggressivo, diffidente, insolente. Schiaffeggiavo per un nonnulla gli indiscreti. Vi furono degli scandali durante delle riunioni, dei banchetti. Il colmo fu che un’avventura di questo genere si ritrovò ad essere raccontata ironicamente in un giornale con il mio nome a chiare lettere. Non potei più sopportare lo sguardo delle persone per la strada: decisi di espatriare.

 

L*** mi accompagnò a Londra dove la nebbia ci permise alcune nuove distrazioni. Grazioso sogno dorato delle rive del Tamigi, ci si stanca alla fine di paragonare i riverberi a punti coronati. La diversione giunse fortunatamente sotto forma di una commessa di una di quelle botteghe di sottaceti e mostarde che profumano un intero quartiere di aceto rosso, incenso di un culto sconosciuto. Aveva l'aspetto di quelle bambole inglesi, eroine dei racconti di Golliwog, e che si chiamavano immancabilmente Peg, Meg o Sarah Jane, i capelli dipinti molto neri sul cranio ovoidale, gli zigomi di carminio, gli occhi dipinti con il pennello, niente naso, il corpo formato da pezzi di legno apparentemente articolati da tenoni, le membra cilindriche. Non appena fu la mia amante mi accorsi del mio errore: niente era più armonioso di questa ragazza paffutella, niente era più esile dei suoi gesti. Abituato a Hortense, mi lasciavo andare a pensare ad alta voce davanti a Gertrud, a trasporre la vita, a mostrarmi al naturale. Molto presto dovetti convenire che lei mi penetrava, che nulla le sfuggiva di quanto le abbandonavo e che non vi era gioco tanto complesso di cui lei non sapesse afferrare la regola e lo svolgimento. Dopo essermi ribellato contro una perspicacia che non avevo richiesto affatto, non potei trattenermi dal provare ammirazione per questa Gertie così vicina a me che pensavo già di raggiungerla e confondermi con lei. Apportava nel volermi seguire una intelligenza, una lucidità che mi sconcertavano. Mi superava in queste competizioni spirituali, indovinava la direzione che stavo per prendere, mi sorprendeva per i balzi che effettuava da un sistema all'altro e mi insegnava a sua volta mille nuovi divertimenti. A volte ci inseguivamo attraverso gli spazi di nostra invenzione, ci sfuggivamo, ci nascondevamo l'un all'altro, ed infine ci incontravamo all'angolo di un universo. Tutto approdava all'amore. Diventava lo scopo supremo della vita: non un gesto, non una risata che non vi portasse. Quanto mi sentivo lontano al di sopra dell'emozione gustata nei primi giorni di Parigi, ora che contemplavo con Gertie dalla cupola di Saint Paul Church quest'altra metropoli che le stesse tecniche accomodavano a mio piacere, ma per portare ad una gioia più nobile e più completa, dal seno della quale guardavo con pietà queste povere astronomie passate e gli entusiasmi dei miei sedici anni! Suprema abolizione delle categorie, l'amore rendeva tutto più facile, tutto docile, non avevamo più limiti a noi stessi nel momento in cui si compiva. Ammettevamo senza protesta che fosse il nostro padrone, ma lo servivamo bene. Si piegava ai nostri capricci, perché conoscevamo il segreto dell'eternità, di raccomandarlo, di sospenderlo. Lo conoscemmo sotto tutte le sue forme, ne inventammo,e portammo nell'amore i nostri metodi di esaltazione. Ci abbandonammo alle confusioni di piani, luoghi, istanti e durata. Ogni cosa assumeva un senso esotico e tutto diventava altare per la religione dell'amore. Una finta rivalità di immaginazione ci spinse alle fantasie più folli. Ci amammo in tutte le contrade, sotto tutti i tetti, in tutte le compagnie, in tutte le usanze, sotto tutti i nomi. Fu un meraviglioso viaggio di nozze. “Gertie, se andassimo ai laghi italiani?”. Cercavamo di deluderci, ma la delusione stessa si tramutava in voluttà. Nel momento preciso in cui uno di noi perdeva il controllo di se stesso, il secondo a volte si salvava in un altro mondo. Il gioco consisteva a costringere l'evaso a fermarsi. Cosa volevo di più? A volte provavo il bisogno di essere solo e Gertie interveniva, mi tormentava finché una menzogna non mi avesse sbarazzato di lei. A volte mi stancavo di essere un lottatore ad armi pari di fronte ad un altro lottatore. A volte, mi irritava dover dire: noi sempre, mai: io. A volte c'era un abisso tra le nostre labbra unite. A volte mi sentivo ostile, duro, con la maschia voglia di picchiare questa ragazza troppo chiaroveggente le cui astuzie mi esasperavano, le cui derisioni mi ferivano, le cui provocazioni non eccitavano soltanto il mio desiderio ma anche l'odio nero del mio pudore offeso. In breve, il dialogo mi superava, ed il pretesto che si offrì (L*** voleva tornare sul continente), fu accolto come un sollievo. Un giorno, invece della via lattea, presi il treno per Dover.


Alcune discussioni con L*** che degenerarono in litigi, un viaggio durante il quale credetti di morire, la certezza trovata nel corso del mio ultimo legame che l'arte non è lo scopo di questa vita, uno scandalo che si verificò verso la stessa epoca intorno al mio nome, la pubblicità che gli si diede e la calunnia che se ne impadronì, infine mille cause più offensive le une delle altre mi costrinsero a cambiare vita. Mi risolvi a dare uno scopo diverso ai miei giorni e di rivolgere la mia attività verso il commercio e l'acquisizione delle ricchezze. Dopo aver liquidato ciò che restava del mio passato, mi munii di una partita di perline colorate e partii per l'Africa orientale, con l'intenzione di praticare la tratta dei negri.


La facilità con la quale mi adattavo a non importa qual modo di pensare, l'assenza di ogni legame che incatenano gli Europei in esilio, mi posero rapidamente in luce agli occhi degli indigeni, poco abituati di vedere un bianco preoccuparsi di loro con tanta chiaroveggenza, e presso quei coloni che dovettero presto rivolgersi a me per ogni traduzione con le persone del paese. Non vi fu più uno scambio, un affare in cui non fossi implicato o in cui non intervenissi. Mi arricchii impudentemente alle spese di tutti, e tutti in compenso mi espressero la loro gratitudine. Divenni una specie di potentato economico, così indispensabile alla vita quanto il sole alle colture.

 

 

 


 

 

 

 

[Segue]



LINK all'opera originale:



LINK di presentazione alla presente opera dada:
Louis Aragon: Anicet ou le panorama, 1921
   

 

 

 

 

 

LOUIS ARAGON

 

 

A N I C E T

O IL PANORAMA

 

 

L’assenza di sistema è ancora un

sistema, però il più simpatico.

Tristan Tzara.

 

 

 

 

 


 

C A P I T O L O   P R I M O

 

 

ARTHUR.

 

 

Anicet non ricordava dei suoi studi superiori che la regola delle tre unità, la relatività del tempo e dello spazio; a questo si limitavano le sue conoscenze dell’arte e della vita. Vi si aggrappava saldamente adeguando ad esse il proprio modo di agire. Ne risultarono alcune stravaganze che non allarmarono affatto la sua famiglia sino al giorno in cui non egli manifestò pubblicamente eccessi poco decenti: si capì allora che era poeta, rivelazione che dapprima lo meravigliò ma che accettò di buon grado, per modestia, nella convinzione di non poter egli stesso giudicare meglio di chiunque altro. I suoi genitori, senza alcun dubbio, si adattarono all’opinione generale poiché fecero quello che tutti i genitori dei poeti fanno: lo chiamarono figlio ingrato e gli ingiunsero di viaggiare. Non ebbe coraggio di opporre loro resistenza poiché sapeva che né le ferrovie né i piroscafi avrebbero modificato il suo noumeno.

Una sera in un albergo di un qualunque paese (Anicet non si fidava della geografia, basata come tutte le scienze su dati sensibili e non sulle realtà intangibili), notò durante il pranzo che il suo vicino di tavola non toccava nessuna portata e sembrava malgrado ciò provare tutti gli appagamenti gastronomici del buongustaio. Anicet intuì istantaneamente che questo strano convivente era uno spirito libero che si rifiutava di ricorrere alle forme a priori della sensibilità e non provava il bisogno di portare gli alimenti alla bocca per provarne le qualità. “Vedo, Signore, gli disse, che non cadete nell’incredulità a cui si attengono generalmente gli uomini, e che, in disprezzo della loro stupida rappresentazione della dimensione, vi astenete dai simulacri attraverso cui essi credono di cambiare i loro rapporti con il mondo. Allo stesso modo in cui certi popoli credono alla virtù dei segni scritti, così il senso comune attribuisce superstiziosamente ai propri gesti il potere di rovesciare la natura. Me la rido quanto voi di una simile pretesa, la quale denota la leggerezza di spirito dei nostri contemporanei (parola sprovvista di senso che prendo in prestito, come giustamente ben pensate, dal loro linguaggio) e la facilità a cui danno luogo le apparenze nell’eccedere al loro gioco. Mi chiamano Anicet, sono poeta e fingo di viaggiare per compiacere la mia famiglia. Non potrei nascondervi quanto bruci di apprendere accanto a chi sono seduto. La distinzione che appare sul vostro viso e la preminenza dei principi di cui avete dato sfoggio in questa occasione mi incitano a non aver altro desiderio più vivo.” Anicet tacque, molto soddisfatto di sé, dell’arguzia che aveva posto nelle sue dichiarazioni, del suo periodo e della soavità dei sentimenti espressi, infine di alcuni arcaismi attraverso cui aveva così finemente disprezzato l’idea di tempo e la puerile ed onesta cronologia dei bruti che presentemente si crogiolavano con l’illusione di un accostamento del loro palato e di una torta alla crema.

Lo sconosciuto non si fece pregare e cominciò il seguente racconto: “Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne, a quanto mi hanno detto, ma nulla mi permette di affermarlo, tanto più che non ammetto affatto, come avete ben indovinato, la dislocazione dell’universo in luoghi distinti e separati. Mi accontenterei di dire: sono nato, se anche questa proposizione non avesse il torto di presentare il fatto che esprime un’azione passata invece di presentarla come uno stato indipendente dalla durata. Il verbo è stato creato in tale foggia che tutti i suoi modi sono funzioni del tempo, e mi assicuro che la sola sintassi incorona l’uomo schiavo di questo concetto, perché egli concepisce seguendo essa, ed il suo cervello non è in fondo, che una grammatica. Forse il participio nascendo, restituirebbe approssimativamente il mio pensiero, ma voi capite, Signore,” e qui Arthur colpì il tavolo con il pugno, “che non la finiremmo più se volessimo conformare i nostri discorsi alla realtà delle cose, e che il padrone dell’albergo ci caccerebbe da questa sala prima della fine della mia storia, se non diamo il nostro consenso strada facendo a concezioni puramente formali a categorie che aborriamo come false divinità, e di cui ci serviremo, se lo acconsentite, anziché servirle.

“Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne. Molto presto, mi diedero un precettore che doveva insegnarmi il latino ma che preferì interessarmi di filosofia. Mal gliene incolse, perché molto rapidamente osservai che il mio professore smentiva con la sua condotta i principi stessi che egli aveva dimostrato. Agiva come se Dio per costruire la terra avesse anticipatamente calcolato la decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Fui offeso da questa disonestà. Ai rimproveri un po’ veementi che gli feci, l’improbo filosofo rispose con la delazione. Mio padre, uomo semplice e che ignorava tutto dell’imperativo categorico, mi fustigò davanti alle mie sorelle. Decisi di abbandonare la casa perché già possedevo quel senso acuto del pudore che doveva dominarmi successivamente. Viaggiai in un primo momento per le strade, mendicando il mio pane o rubando preferibilmente. È durante questo periodo della mia vita che appresi a concepire le acque, le foreste, le fattorie, le figure dei paesaggi indipendentemente dai loro legami sensibili, a liberarmi dalla menzogna della prospettiva, ad immaginare su di un piano quanto altri considerano su diversi come i bambini che sillabano, a non farmi più ingannare dall’illusione delle ore ed abbracciare simultaneamente la successione dei secoli e dei minuti. Una bella sera, un po’ stanco di questi panorami campestri, mi infilai in un treno e feci, nascosto sotto un sedile per non pagare il biglietto, l’itinerario da C… a Parigi. Questa posizione non mi era scomoda, ben sapendo che soltanto un pregiudizio porta i viaggiatori a preferirne un’altra. Utilizzai il tragitto nell’abituarmi a guardare il mondo a rasoterra, la qual cosa mi permise di farmi un’idea delle rappresentazioni possedute dagli animali di bassa taglia. Poi mi accorsi che contrariamente al mio passatempo abituale nulla era più semplice di riportare su diversi piani quanto si vede su uno solo: basta fissare obliquamente ciò che si  vuole dissociare anziché osservarlo frontalmente. Applicai immediatamente questo procedimento per allontanare dal mio volto gli stivali del viaggiatore seduto sopra me. Nell’entusiasmo di questi esercizi, scandii mentalmente, al suono ritmato del treno sul pietrisco delle massicciate ferroviarie, delle poesie che facevano a meno dello stesso principio di identità.

Anicet si permise di interromperlo: “Siete dunque anche poeta, Signore?”

– A tempo perso, replicò il narratore. Giunsi a destinazione nella più felice delle disposizioni di spirito. Pensate a quel che è Parigi per un ragazzo di sedici anni che sa meravigliarsi di tutto e in mille modi. Sin dalla stazione mi sentii trasportato: il movimento, le case caricate dalla prospettiva, il modo orientale di scrivere CAFÉ sui frontoni dei palazzi, le feste luminose della sera ed i muri coperti di iperboli, tutto contribuiva alla mia gioia. V’erano poche possibilità che mi stancassi di una decorazione incessantemente variata attraverso alcuni dei metodi di contemplazione che possedevo, quando un’avventura venne a darmi le distrazioni ed il luogo necessari per elaborarne altri.

Un mattino in cui imbattei in un funerale, mi raffigurai il morto, come mi ero abituato a farlo, indipendentemente dalla durata. Simultaneamente lo percepii nelle pose più arroganti, le più insignificanti e le più naturali, compiendo tutte le bassezze e tutte le stupidità di una vita senza interesse, con i suoi piccoli vizi e le sue piccole virtù, così poco responsabile che sghignazzai sonoramente nel vedere dei passanti scoprirsi davanti alla cassa lucida che racchiudeva i suoi resti. A quest’epoca, la fine infelice di una guerra ancora recente, i dissensi politici ed il giogo sempre severo del romanticismo portavano gli spiriti parigini a delle violenze poco usuali agli abitanti della città più amabili del mondo. Un quidam mi fermò e mi ordinò con tono enfatico di mettere il cappello basso sul di fronte a non so quale immagine della nostra umiltà. Accarezzai il mio olibrius con alcuni epiteti e non feci nulla di quanto richiestomi. Poiché quest’individuo tentava di costringer mici gli diedi una lezione pratica di filosofia. La cosa finì alla stazione di polizia e venni gettato in una cella oscura in cui mi si dimenticò per tre giorni. Per essere più libero dei miei carcerieri, bastava che mi astraessi dal tempo e dall’estensione, però preferii mettere a profitto questa reclusione per nuove evasioni. I matematici hanno inventato altri spazi oltre il nostro, a n dimensioni, essi dicono. Ma intralciati dall’abitudine di pensare secondo le tre dimensioni, essi non giungono a rappresentarsi le loro stesse immaginazioni. Grazie a queste ginnastiche preliminari, fu al contrario un divertimento per il mio spirito costruire il mondo dando a n i valori più diversi; stavo concependo la distesa ad un terzo di dimensione quando ci si ricordò della mia presenza per farmi comparire davanti al commissario. Poiché le mie risposte subivano un leggero disturbo da quell’esercizio, questo funzionario, che aveva un’idea puerile della relatività dei concetti, non comprese nulla dei miei discorsi e, nella convinzione di parlare con un pazzo, mi fece rilasciare.

Parigi divenne per me un bel gioco di costruzioni. Inventai una specie di Agenzia Cook esilarante che cercava invano di riconoscersi con una guida in mano in questo dedalo di epoche e di luoghi in cui mi muovevo facilmente. L’asfalto si rimise a bollire sotto i piedi dei pedoni; delle case affondarono; ve ne furono alcune che si arrampicarono su quelle a loro vicine. I cittadini portavano diversi indumenti che si vedevano tutti insieme come sulle tavole illustrate della Storia dell’Abbigliamento. L’Obelisco fece spuntare il Sahara Place della Concorde, mentre delle galere vogavano sui tetti del Ministero della Marina: erano quelle degli scudi con le insegne municipali. Delle macchine girarono a Grenelle; vi furono delle Esposizioni in cui si distribuirono delle medaglie d’oro dai millesimi differenti sul dritto e sul rovescio; esse coincisero con l’arrivo di Sovrani e di delegazioni straordinarie. Si abitò senza problemi in immobili in fiamme, in acquari giganteschi. Una foresta crebbe all’improvviso presso l’Opera, sotto i cui alberi di ferro si vendevano delle stoffe baiadere. Scambiai di posto i quartieri les Abattoir ed il canal Saint-Martin; lo sconvolgimento non risparmiò i Musei e tutti i libri della Bibliothèque Nationale sommersero un giorno la folla dei perditempo.

Vi parlerò dei mille mestieri che feci, di volta in volta venditore ambulante cantando come fossero delle poesie i titoli dei giornali che vendevo; uomo reclame per amore dei cappelli alti, facchino, scaricatore alla Villette? L’estraneità della mia vita mi attirò delle curiosità, delle frequentazioni, delle amicizie. Conobbi in certi ambienti un successo eguale a quella di un prestidigitatore o di equilibrista. Infine alcuni oziosi della riva sinistra mi trovarono del genio. Fui ammesso in circoli scelti, degli accademici mi ospitarono, delle donne di mondo vollero conoscermi. Il contatto giornaliero dei miei simili aveva fortemente sviluppato in me questo sentimento del pudore di cui vi ho già parlato e che mi era innato.

Mi sottraevo alle sollecitazioni del mondo per evitare di mettermi a nudo davanti a tutti. È a quest’epoca che conobbi Hortence. Ignorava tutto della vita, ma non dell’amore. Immagine della passività, sopportò le mie fantasie senza comprenderle. Ammise tutte le esperienze, si piegò a tutti i capricci e mi lasciò penetrare sino al disgusto i segreti della femminilità. Davanti a lei potevo togliere ogni maschera, pensare a voce alta, svelare l’intimo di me stesso, senza timore che lei mi intendesse. Fu un manuale prezioso che abbandonai in capo a tre settimane: avevo imparato a conoscere la visione femminile del mondo, così distante da quella degli uomini quanto lo è quella dei topi ballerini del Giappone le quali non immaginano che due dimensioni nello spazio.

Tra gli amici che mi erano valsi alcuni doni naturali ve ne fu uno che si legò a me in modo particolare. Quando L*** giunse a penetrare il mio pensiero, lo battei a sangue. Mi seguiva come un cane. Il mio pudore era infastidito all’eccesso da questa presenza costante e il mio solo rifugio era quello di evadere in un universo che edificai e in cui L*** cercava di raggiungermi con degli sforzi così grotteschi che a volte ridevo di lui finché non ne piangesse. questa vergogna che mi afferrava quando mi si scopriva andò accentuandosi in questo periodo al punto che una semplice domanda come: che ore sono? Se per caso andavo io stesso a proferirla, mi faceva arrossire e rendeva la vita intollerabile. Divenni aggressivo, diffidente, insolente. Schiaffeggiavo per un nonnulla gli indiscreti. Vi furono degli scandali durante delle riunioni, dei banchetti. Il colmo fu che un’avventura di questo genere si ritrovò ad essere raccontata ironicamente in un giornale con il mio nome a chiare lettere. Non potei più sopportare lo sguardo delle persone per la strada:

 

Rimaud era nato a Charleville-Méziéres.

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16 aprile 2011 6 16 /04 /aprile /2011 13:23

 

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II


 

 

…Affamato di sapere!

-Una semplice mutandaia in mutande.

 

 

…Non a spasso per disoccupazione

-smarrita.

 

 

…Filosofo? Visionario demente.

 

…Ho ritrovato la verità. Ed ozio.

Prendi posto su questa riva,

se non hai fatto un voto di astinenza…

Assenzio ed oppio…

Ma sei filosofa. Vestita di saggezza.

 

 

…Neoempirista? Marcio di utilità.

Aristocratico dello spirito. Capisco.

Burlone a ripetizione.

Davanti agli affamati di libertà-

l'aristocrazia sparisce-

la borghesia sparisce-

il proletariato sparisce-

Un mondo comune che ozia.

 

Non turbarti. Sì. Un mondo comune.

L'utilità è femmina. La verità pure.

Divorzio. Reintegrare il domicilio reciproco.

Non si accoppiano due femmine- arriviste.

 

 

…Allucinato. Io?

Domatore di lesbiche

-corrotto da saggezza libresca.

 

 

…L'orbita del mondo?

Allo Zenit, un groviglio di squallore.

 

 

…Il posto dell’uomo in questo mondo?

   Lo squallore, che si supera, muore e

   risorge.

   Guarda vicino a questo aratro…

   Sei capace di distinguere l’uomo dal bue?

Anche il coolie è un uomo

   e il corroso dai parassiti sotto il portico della chiesa

(Quale blasfemia di fronte al sacro mutilato sulla

sua croce)

Ed il bracconiere, che i guardiacaccia braccano

ed il forzato che sputa il suo rancore

e che crepa

-rantolando centomila bestemmie.

 

 

Misura la terra…

Seziona la seziona aurea…

Acromegalia rigogliosa!

Crepa di fame! Formidabili roghi-

Colossali marmitte colossali sui fuochi!

Odori di resine- deliziosi aromi-

Girotondi di allegria…

Clamori della pigrizia sfarzosa…

 

 

…Capriccio Pacchiano?

Sofista servile di sfumature.

Il lusso ha serve, servi-

che servono i suoi capricci.

 

 

Cielo e terra, dio, la bestia ed il porcaio

hanno un caveau alla cantina del lusso

-tappi ed etichette.

 

 

…Senilità? Partenogenesi!

Astrattista di muffe.

La tua utilità è stilizzazione struggente,

semplificazione ad oltranza,

sintesi incastonatrice.

 

 

Le frontiere abolite-

 

 

la nozione di razza si arrugginisce-

(i porta-torce, di già, si sono spenti)-

I popoli si compenetrano, si confondono.

L’inutilità si consuma-

L’utilità arde.

Le apparenze, bruciate, cadono polverizzate.

Le realtà si cristallizzano.

Una è la verità, che, incarnata

si farà uomo.

 

 

…Nirvana? Mistero?

Il mondo è semplice, in cui l’uomo si inebria,

a propria immagine.

Ma l’umanità è più servile della pietra…

E, filosofo indolente, le tue carrozze di

promesse armoniche…

Oh, il lusso imprevisto dell’inoperosità!

Lo sciopero generale su una spiaggia soleggiata!


 

 

…La parola è in atto?

Raffinato retore loquace.

Che innanzitutto la parola sia alla parola.

occorre più di una stagione alle sensazioni per maturare.

 

 

…Laggiù c’è la foresta-

il mite esercito in ascolto della parola del vento.

 

 

…Sì. La tua reputazione ti proibisce di abbandonare

   l’ideale del ventre.

   Sublime utilitaria-

   E se ti prometto la celebrità-

   foss’anche dieci decadi dopo il tuo funerale.

 

 

…Idealista utilitaria.

 

 

…Eunuchi, automi?

   Castratore di saggezza.

   Gran maestro in arte culinaria…

   condisci perfettamente

   le cose buone per il ventre.

 

 

…Utopista?

Droghiere dell’esofago.

Il manzo è buono.

La sella del capriolo è squisita

annaffiata con un vino speziato dall’aroma inebriante.

Il vaccaro è un relitto

nella stalla una cosa desiderabile….

Ma le spezie accelerano la disgregazione

 

 

tanto quanto le speculazioni per la Borsa,

l’ardore delle preghiere alla chiesa.

 

 

...Aristotele, Kant. Scolastica, pragmatismo?

   Superstizioni da saltimbanco!

 

 

...Taci-

   Sto oziando- Assenzio a 95°

   Mi inebrio.

 

 

…Ma taci, inutile utilitario

-adorabile filosofo fantastico.

 

 

…Io, Chirurgo?..

Oh, la piccola sterile prostituta

che temeva per le sue ovaie!

 

 

…I tuoi lobi cervicali?

Pigrizia… Dice Erasmo… l’Elogio della follia.

 

 

…Violenza? Ti faccio violenza?

Violatore dell’identità umana -

Ascolta…

 

 

...Tumulti sonori nelle careggiate…

Suicidi dei disillusi…

Aborti di incanti di indigenze…

Feccia di moralità straripate e che appestano…

Ondate ferventi di lebbrose fraternità…

Ebbrezze eleganti…

Delle cascate di abbondanza rotolano per le strade-

Marce trionfali!

 

 

Assassino? Chi? Io, assassino?

Divinamente io ozio…

Tu perdi il tuo contegno.

Il tuo fard rossiccio si scaglia-

Diventi idropica…

Povero filosofo asmatico!

Ti salvi?

Non perdere il tuo ventre!

Addio età dell’oro -

Nell’era degli assassini, verrò

A solleticarti le zone erogene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Traduzione di Elisa Cardellini]

 

 

LINK all'opera originale:

L'Apologie de la paresse



LINK interni su Pansaers:

Fabrice Lefaix, Al Tempo dell'Occhio Cacodilato

Rossano Rosi, L'eterno ritorno del pan-pan al culo

Bernard Pokojski, Pan! Pan! Pansaers

Paul Neuhuys: Clément Pansaers, "Paria in demolizioni (1921)

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13 febbraio 2011 7 13 /02 /febbraio /2011 18:12

 

 






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     V

     ESECUZIONE




     Luciole dopo un lungo sonno si svegliò infine
alla vita.
     Le sembrò di aver sognato per lungo tempo ed aver fatto
sogni belli e brutti.
     Tastò i mobili, le tende per convincersi
che era tornata alla realtà.
     Le campane suonavano a martello disperatamente. Una grande
macchia gialla era attaccata dietro il campanile.
     Luciole balzò dalla sua sedia- Mirador stava
dunque per morire- tutti gli amici lo abbandonavano- la
fata Morgana era sparita-Dopo l’incidente nessuno
aveva potuto ritrovarla.




Supplicare il sindaco? –Ma era sprofondato in un
sonno pesante! Matassin era partito per un paese remoto alla ricerca dei costumi per la compagnia.
L’uomo Nero aveva l’influenza- il vecchio artista
troppo occupato a domare i suoi animali non voleva
riceverla.
Disperata Luciole si mise a piangere chiassosamente
per commuovere qualcuno.
L’innocente del villaggio venne allora a sedersi vicino
a lei- I suoi occhi brillavano- cantò…
Alla strana romanza Luciole trasalì- guardò
Il bambino- i suoi occhi consumati dalla febbre le
ricordarono altri occhi… dei rimpianti… la foresta
di Marly- Ed entrambi si incamminarono.
Ma sul margine della foresta, lei si fermò
spaventata!
Signore- questa musica da dove proviene?
L’innocente era scomparso.
Nella Casa del Sentiero vi era una grande
festa- Lei si avvicino lentamente, guardò dalla
finestra ed entrò.



Seduto sul tappeto, Gadifer aveva rinunciato ad ogni
piacere per sognare a suo agio.
Si ballava, si parlava della festa mancata e
dell’esecuzione vicina.
Luciole si avvicinò a Gadifer, si inginocchiò
accanto a lui sul tappeto, pose la sua fronte ardente sulle
sue mani giunte. Egli percepì il calore- prese la
testa nelle sue mani e guardò a lungo negli
occhi divorati dal dispiacere.
Come era possibile? – Luciole la selvaggia-
quella che sfuggiva come una biscia ad
ogni sguardo- quella che piangeva di disperazione ad
ogni scadenza- Luciole l’irreale, Luciole la
fiera era lì accanto a lui, implorandolo!
Tutto l’amore e tutta l’amicizia che aveva avuto
per lei, passarono come un incanto
davanti ai suoi occhi:
    Tu sai- tu hai capito- guarda- la mia testa
ingrigisce e non ho che 20 anni.
Alzò la testa, le sue ciocche di capelli
cadevano come digitali pendenti dal loro
stelo.




- Fratello mio
            Non ti ho fatto del male e tu mi
detesti- non ti ho amato e tu mi ami- aiutami
a morire.
Le sue braccia si posarono involontariamente intorno
al suo collo- e le sussurrò all’orecchio:
        Tendimi la tua mano
Dimmi il tuo pensiero
            mostrami la strada che bisogna seguire
Tra te e me c’è un abisso
La luna ed il sole si cercano da anni.
Lo sguardo di Gadifer non poteva staccarsi
dalla bocca dalle labbra serrate.
Non potendo più sopportare quegli occhi si
alzò bruscamente e chinò la testa al suolo.
Un bacio fraterno si pose sulla sua nuca- La
rinuncia era scritta su tutti i volti.
Dalla finestra aperta, l’innocente passò lentamente
La sua testa cantando:
        Domani all’alba…
                    La rondine…
Domani all’alba!... Era il giorno dell’esecuzione!



All’orizzonte la fata Morgana su un cavallo di
neve cavalcava verso l’avvenire.
Fuggirono senza chiasso attraverso una porta nascosta,
seguendo le tracce della fata.
Arrivati presso il pozzo guardarono dentro- Nemmeno
una goccia d’acqua- soltanto una piccola scala
irreale.
Scesero aiutandosi l’un l’altro sino
in fondo. Su di un mucchio di sassi, Mirador era sdraiato
e dava delle lezioni di scherma alle marionette
del grand guignol.
        -Ti porto un fratello-
                disse Luciole a Mirador,
                            -ti salveremo
Seduto sulla vera del pozzo, l’orso bianco aveva
ascoltato tutto. Una nuvola di sassolini si formò
sopra le loro teste.
    Dei raggi apparvero, legati alla fata Morgana
        _Sssst- Silenzio-
                    Disse,
            sono lì in alto, scendiamo più in basso.
Marciarono a lungo sino all’alba. Vicino



alla piazza della Chiesa, la fata scavò una grande
tomba nel terreno e vi seppellì il suo segreto.
Mattassin era tormato con i costumi – la
compagnia aveva raggiunto il suo apogeo; una ventina
di accoliti seguivano.
Ma c’erano delle persone che sussurravano-
l’innocente invaghitasi di Luciole aveva capito il pericolo
che la minacciava. Andava dall’uno all’altro cantando
la sua romanza e guardando a lungo negli
occhi coloro che credeva potessero capirla.
Era il suo modo di agire.
Gadifer seduto ai piedi del patibolo inseguiva,
con lo sguardo perso nel vuoto, una mosca luminosa
come la speranza.
Luciole si torceva le mani con disperazione, gli
Occhi fissi sull’astro.
Si era cambiato il pozzo con il patibolo. In cima
Alla catena al posto del secchio pendeva una pesante
Palla da giardino in rame. Una volta dato il segnale
-la palla sarebbe scensa sulla nuca del condannato.
La testa staccandosi
                sarebbe caduta in fondo al pozzo.



Ancora una volta la fata Morgana era sparita
dicendo cose incomprensibili a Gadifer
e a Luciole. Ma si sperava vederla ritornare
dopo l’esecuzione a prelevare il corpo e fuggire
con il suo fardello.
La campana a martello suonò- era il segnale! Coloro che
Sussurarono si salvarono- il sindaco gridò:
                                    GRAZIA!
L’innocente delirava bevendo le sue lacrime:
Io dimentico
Tu ti ricordi…...
Allo stagno di San-Cucufa
Il nenufaro si sfoglia
Il giorno…..
Un grande silenzio- il condannato si avvicinava.
La folla si affrettava verso lui- si voleva ascoltare
il suo ultimo canto.
Ah! senza l’astro e la fata Morgana che lo proteggevano-
Mirador non avrebbe suscitato l’invidia e avrebbe
potuto vivere in pace senza nuocere a nessuno-
Perché malgrado tutto- pensavano gli assistenti- egli
sapeva toccare l’anima!


Ma cos’era dunque- non aveva il suo abito
da condannato! –Voleva nei suoi ultimi istanti
sbalordire tutta la sua truppa?
O Matassin- commosso da vecchi ricordi-
gli avrebbe dato questo bel costume di Arlecchino-
per abbellire la sua fine!...
Stava per salire sulla scena o sul
patibolo?
Ma non camminava- non cantava;
era forse già morto?
Si aspettava nervosamente le sue grida di
disperazione- i suoi appelli al signore!
L’orso bianco si avvicinò da dietro e
ferocemente lo spinse con la zampa. Cadde ed andò
a urtare contro la vera del pozzo-
ancora un colpo ed era la fine. L’orso lo colpì
leggermente alla nuca; la testa si curvò- la
palla di rame scese lentamente. Il carnefice-
la bestia nera tirò la catena.
Ma la testa restò sporgente sul vuoto, non
staccandosi dal corpo- la folla ansimare
angosciata.


Un canto di primavera proveniva dal lato dell’Oriente
     Nella palla di rame
               l’occhio sorrideva malinconicamente
E le lacrime dell’innocente sulle pareti del pozzo
scivolavano formando dei ghiaccioli.
    Le digitali della foresta si misero a suonare-
il mondo si prosternò-
    Circondata da agnellini e caprette- la fata
Morgana giocava al grand guignol con Mirador.
    L’atleta apparve- il burattino allora cadde
nel pozzo.
    L’occhio nero dell’anemone si aprì stupito. Sulla
fronte del carnefice in lettere rosse era scritto:
                             FANTOMAS
Lo stratagemma e il sotterfugio della fata
                                                       erano compiuti.


 


 

 

 

 

 

 

[Traduzione di Elisa Cardellini

 

 Céline Arnauld, Giravolta, [Tournevire], 1919, "Condanna", 4^ parte.


 

LINK alla presente opera tradotta:

Tournevire

 

 

 

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24 dicembre 2009 4 24 /12 /dicembre /2009 19:31





006.jpg




 

IV

 

 

Condanna

 

 

Sui sentieri e sulle grandi strade della

Valle dei fiori, gli invitati si affrettavano per

giungere in tempo alla festa che si dava in ono-

re di un poeta morto la settimana precedente nella

indifferenza generale.

Il sindaco di Bar-le-Fol, colto letterato, presiedeva.

Il programma era vario delle corse degli

atleti dei giullari, ecc…

Un grande circo innalzato in mezzo alla foresta

faceva pensare ad un villaggio negro.

Sul suo tetto un arlecchino con casco di pilota

arringava la folla. I cavalli di legno giravano

malinconicamente come un prologo.

 


 

L’innocente del villaggio si mise a cantare quanto

conosceva di una vecchia romanza che il grande uomo

morto nel paese gli aveva insegnato un giorno in cui egli

torturava una giovane rondine caduta dal nido.

Ma l’orso bianco adorno di un grande collare

di campanule annunciò il suo arrivo. Investì l’in-

nocente che si trovava sulla sua strada, la romanza cessò:

l’eco soffocò un lamento nel lontano sottobosco.

L’Orco arrampicato su un albero cercava l’equilibrio e rosic-

chiava le giovani foglie come insalata.

Di fronte a lui su un pino uno scoiattolo manipolava

con destrezza le nocciole.

In una baracca fatta di tronchi squadrati l’Uo-

mo Nero attirava le persone mostrando loro

il nuovo set per manicure Sulla sua fronte una grande unghia

piena di sole gli serviva da insegna.

Il vecchio artista aveva raccolto un mucchio di foglie

morte sulle quali il passato e l’avvenire dei dilet-

tanti erano scritti istantaneamente. Un gioco di car-

te cadde dalla sua tasca sparpagliandosi come i


 

petali della rosa divinatoria. Il sette di picche

soltanto restò attaccato al suo abito.

Su una giraffa balorda e vestita di nubi il

buffone apparve. Scuoteva la testa con contentez-

za e si crogiolava al sole. Respirando l’aria fresca

della foresta, un lampo di bontà passò nei suoi occhi

scuri. Ma la bocca fece una smorfia ed il sole

si eclissò.

Le donne nel grande circo si sussur-

ravano a bassa voce:

– L’incidente…

Si udiva muoversi delle ferraglie e gemere delle

corde nel retroscena.

All’orizzonte, l’astro sporse la sua testa malincoli-

Mente da dietro una nuvola.

La fata Morgana dalle trecce dorate seduta su di un

cumulo di foglie e di ramoscelli, appariva avvol-

ta della sua veste di digitali come un grande

pezzo di oro massiccio caduto dal cielo.

Le coccinelle, gli scarabei, le piccole ra-

ne giravano rapidi e vispi attorno

ad una grossa tartaruga imbronciata.


 

In cielo, anche lì festa grande delle nuvole

ilari si arrostivano e giravano serpeggiando

intorno al sole, che arrossiva di piacere in loro

omaggio. Un vento leggero come l’angelus annun-

ciava l’arrivo delle stelle.

All’entrata del circo, Gadifer immerso in

una fantasticheria senza fine non vide l’ombra dell’orso che

si insinuò dietro lui nel retroscena.

Il sindaco di Bar-le-Fol arrivò. La fata Mor-

gana lasciò il suo posto e si pose sul diamante appuntato

sulla cravatta del sindaco.

L’orso bianco suonò le campanelle. Si annunciava

“La danza della luna e dell’ombra”

Su di un tronco d’albero un’estremità di seta verde

si arrampicava verso la cima. Giovane e gracile la luna

salì su di una scala di stelle.

La cavalcata cominciò dapprima lenta

poi rapida e ad ogni evoluzione la folla

entusiasta si dava delle gomitate

che passavano inosservate alla compagnia.

Il successo era grande.

 

 

Per i danzatori era stato preparato un carro in

rame che doveva condurli in tutta la città.

Ebbri di felicità, Luciole e Mirador si guar-

darono spaventati.

Nella grande campana posta all’ingresso del

circo, l’occhi apparve, grande, nero, minaccioso.

All’orizzonte il sole arrancava verso il tramonto.

Una collana di corallo si sparse sul pavimento.

Ma un raggio di gioia passò in tutti gli

occhi alla vista dell’astro addormentato.

Nel retroscena un grande frastuono. Un topo

fuggiva leccandosi tutto un pezzo di corda gli

pendeva dal muso.

Una capretta smarrita fuggiva verso il pozzo.

L’innocente si mise a piangere. Gli occhi febbrili

di Gadifer gli avevano toccato l’anima.

Cantarono insieme:

– È perché ti ho tanto amato

Che sul mio amore tiri il volano

Allo stagno di Santa Cucufa

La ninfea si sfogliò

Non dimenticare


 

 

L’orso bianco per divertire la folla irrequieta, ac-

ciuffò una coppia di coccinelle giocò abilmente con gli

scarabei Una piccola rana gli saltò sugli

occhi fu il suo portafortuna.

La tartaruga si mise a correre.

L’astro furioso precipitava la sua corsa verso il

declino.

– È andata

Sussurarono le donne

– Che cosa?

– L’incidente…

Albanelle la notturna usciva dal lago.

Nel retroscena venivano esaminati le corde ed i

rottami.

– Come è potuto accadere ciò,

chiese il sindaco,

– dove sono i danzatori?

– Signore

disse il vecchio artista

– l’asse di picche vuol dire sfortuna.

È un incidente,

disse l’Uomo Nero

– Ma no,

affermò Matassin.



 

Hanno preparato tutto in anticipo per rovinarci la

festa.

                 e a voce bassa:

                                             La fata Morgana ha dato delle forbici

incantate a Mirador – Guardate dunque – la corda è

rotta – non una goccia di sangue.

       L’orso bianco pose le sue due zampe sulle spalle

del buffone in segno di amicizia.

       Il sindaco si sporse – una nube di polvere

gli saltò agli occhi. L’uomo mansueto voleva

sapere.

−Signore!

         dice il buffone

                                               siamo stanchi

− La vita della compagnia è in pericolo, le forbici in-

cantate possono rivoltarsi contro di noi – fate giustizia.

       La polvere che aveva riempito gli occhi del sindaco

lo fece arrabbiare moltissimo.

−Che essi siano maledetti – condannateli!

e se ne andò con passo pesante ed esitante nella baracca

dell’Orco.

       La porta venne richiusa. Fuori la folla aspettava


 

ansiosamente. Si tirò a sorte, il buffone barò – La

porta si aprì:

−Cittadini: Mirador il danzatore, condannato a morte;

Luciole la strega bandita da tutte le campagne.

       La folla gridava – urlava:

                                                      “Dove?... Quando?...”

− Festa della condanna. In piazza della Chiesa

− di Bar-le-Fol, il 30 agosto,

Gridò l’Orco.

       La fata Morgana legò Luciole e Mirador in

Cime ad ognuna delle sue trecce e se ne andò leggera e

Scontenta con il suo pesante fardello. Essi pendevano come dei secchi in cima alla catena.

 

gridava Gadifer

Giunta alla porta della chiesa, la fata depose la sua

carica ed andò a suonare le campane a martello.

       Nel carro di rame, tutta la compagnia passava

In trionfo.

       Gadifer corse accanto alla fata; Luciole ebbe un

Barlume di speranza.

       Mirador s’avanzò verso l’altare cantando:


 

       -La coppa si è svuotata

E l’ultimo soffio della mia vita

Sale nella voluta d’incenso

Ho posto il mio destino sulle forbici aperte

Un titolo di giornale si è stampato sulla tovaglia

                                    Sulla piazza della Chiesa

La ghigliottina invita le persone alla verità

       A Notre-Dame si prega per le case deserte

                                    Signore!

Il gioco di domino in croce sul mio petto

 

       Sento le forbici fredde

                          che si chiudono sulla mia nuca

 

 


Céline Arnauld, Giravolta, "Dall'UOMO NERO", 3^ parte


[Traduzione di Elisa Cardellini]


 

 

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23 dicembre 2009 3 23 /12 /dicembre /2009 19:31



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III


Dall’UOMO NERO

 

 

Una camera oscura non si vedeva alcuna

finestra Dal buco della serratura un raggio di

sole penetrò timidamente ed andò a posarsi nella

vaschetta dell’acqua benedetta, posta in un angolo della stanza.

La porta si aprì sulla scala: un lato di muro

era stato strappato dalla tempesta un giovane albero

cresceva là, incurante del passato e sorridente al-

l’avvenire.

Si udì il suono di un calesse e dei passi

Energici si avvicinarono dal corridoio lastricato.

Tutto la compagnia si alzò rapidamente ognuno

sistemò la propria tuta e cambiò l’espressione del suo

aspetto.


 

L’orso bianco con un balzo fu alla porta della ter-

razza e rapido prima che gli altri, che cer-

cavano la chiave potessero avvicinarsi passò la sua lingua

nel buco della serratura, la porta grande a-

perta lasciò vedere sull’orizzonte di foreste la lotta

corpo a corpo del sole e delle grandi nubi che

sudavano.

Ci si sistemò su due file. Il grande invitato

apparve sulla soglia della porta e, con uno sguardo dolce,

avvolse gli assistenti.

Era il sindaco di Bar-le-Fol.

Il vecchio artista si fece avanti:

– Signore, siamo accorsi ai vostri ordini.

Tutto è a posto. La festa avrà luogo a La Noue-aux-

Fleurs. Ci sarà di tutto: fuochi d’artificio, bestie

che balleranno la Tarantella con la lune e le stelle.

La fata Morgana ci ha promesso la sua assistenza.

– Ma si è verificato un incidente,

replicò Matassin

abbiamo fatto tutto il possibile per portarvi Lu-

ciole e Mirador che dovevano mimare la danza del sole

e dell’ombra. Ma la povera Luciole è morta.


 

Crediamo che questa volta non potrà più

tornare… Soprattutto con la catastrofe della strada

di Monte-au-ciel! Una lampada elettrica è caduta

sui binari ed il tram è sparito sotto terra

senza che si riesca a ritrovarlo.

– Per non rovinare la festa, dopo aver cercato

a lungo, abbiamo trovato due sostituti.

Un giovane dal passo inoffensivo si avvi-

cinò fece la riverenza, incoraggiato dallo sguardo

benevolente del buffone e dal battere me-

laconico delle mascelle dell’orso.

Dietro lui veniva una connetta, timida

da principio Ma abbagliata da un raggio che

partiva dall’anello signorile del sindaco, assunse

l’atteggiamento dell’elegante fata Morgana, che

aveva studiato a lungo. Questo le dava l’aria

di una regina di fiera ed era quanto il

sindaco auspicava.

Sull’albero dove era stata appesa una grande

palla da giardino si verificò un evento. Un

usignolo credendosi nella foresta si mise a cantare.

L’Uomo Nero trasalì.


 

Nello specchio sferico il vecchio artista vide

un bagliore cominciava ad oscurarsi

il cielo chiudeva la sua palpebra.

Una ventata rapida passò tra i rami del-

l’albero.

Il sindaco si voltò dalla parte della porta:

Cosa succede?

qualcuno muore qui vicino –non ne udite

il rantolo?

Nell’astro l’occhio si dilatò

Sull’albero il fruscio cessò. L’ultimo raggio

moriva nella vaschetta d’acqua benedetta.

Delle perle brillavano sulle mattonelle.

Sdraiato sull’erba, la testa circondata da una

massa di coccinelle e di scarabei d’oro, Mirador

inviava le sue ultime invettive all’astro.

La sua voce saliva al cielo, forte, minacciante,

trasformandosi lassù in nuvole.

Dall’Oriente un’ombra ancora invisibile

si avvicinava a poco a poco.

Il sindaco piego il ginocchio per vedere meglio il poeta.


 

Signore,

cantò Mirador

Sono il figlio di Albanelle la notturna, colei che si tuffa

nel lago all’alba ad aspettare la notte

Colei che con i suoi incantesimi dissecca il lavatoio e

dissipa i venti

Un giorno il sole la rapì e restai solo

Una lampada elettrica discese su Luciole e

arse sui binari

Giunsero i pompieri –

“bisogna andare a cercare il medico, dissero –

quello che guarisce le grandi fiamme

Sono tornato alla Casa del Sentiero –

Il pozzo era secco

Tutto intorno le caprette danzavano

Sulla vera del pozzo

un anello

La luna è caduta in acqua

Salivo di ramo in ramo per arrivare a

Luciole                Ma quando il sole apparve – un

raggio mi precipitò in basso.

Un’ombra  che camminava si mostrò distinta-

mente.

 


 

Nella tela del ragno una vita espirava.

Il sindaco si volse verso gli assistenti

Cos’è dunque – un pazzo – un malato – un poeta

forse?

Non tormentatevi, è un malato,

disse Matassin

No, un pazzo,

disse l’Uomo Nero.

Errore, è un poeta,

disse rabbiosamente Gadifer.

L’orso bianco catturò una vespa con la sua zampa,

la leccò e la gettò con destrezza sul volto di

Gadifer.

L’Orco succhiò la puntura.

L’uomo inoffensivo voleva sapere. La donna

Gridò:

Sono la Regina!

Qualcuno tirava Gadifer per la manica egli

oppose resistenza.

Partiamo,

urlava il buffone Matassin.

Signore – Luciole arde viva ed anche

io ardo – Aiutatemi!

Implorò Mirador.


 

Una grande luce si produsse nella camera

La sfera-specchio discese dondolando

All’orizzonte il sole l’eterno innamorato, ap-

pariva con il suo largo sorriso calmo e febbrile.

L’usignolo volò verso di lui su di un raggio. Mira-

dor si sollevò.

Ah! maledetta palla.

– Ssst…    la Fata…    qui...  eccola…

La tela di ragno si lacerò: una mosca morta

cadde ai piedi dell’Orco. L’Uomo Nero si

specchio nelle unghie fini e allungate come dei

chicchi di grano della fata.

Nella grossa sfera l’occhio girava spaventato.

L’usignolo bruciava e rispedito alla terra si mise

a cantare la ballata dell’inverno. La fata Morgana

e il sindaco scacciarono una nuvola che li accecava.

Gadifer si avvicinò alla fata e, a bassa voce:

– Ho dato a Luciole la scatola dall’anima di metallo che

mi hai dato – la desiderava così tanto.

Mi resta il Pierrot bianco – ma se Luciole è

morte, la butto nel pozzo – che geli pure, mentre

lei brucia!


 

La fata alzò le braccia verso il cielo. L’astro furioso

avanzò. La grande palla cadde staccandosi

dai rami sulle braccia incrociate della fata.

Due semisfere, l’uccello ed il raggio presero il

volo.

Sul ramo più alto apparve l’atleta.

Luciole avvolta in un mantello di fuoco ripeteva

il suo ruolo per la festa prossima e cantava:

Ho costruito un castello sull’orlo di un baratro

E la mia vita in sospeso – in un eterno miraggio –

scacciava i fantasmi.

La speranza scende dalle scale e l’aviatore sale

verso il sole.

Datemi il sacro velo –

E la palla risplendente

Che dà la febbre – e fa dormire –

e ridere –

Ho visto i tuoi occhi febbricitanti –

e ti odio

La tua vita è sospesa sull’orlo del baratro.


 

Nel calesse trainato da raggi,

Mirador e Luciole se ne andarono alla Valle dei

Fiori ad esercitarsi a girare sui cavalli di

legno.

Tutto la compagnia seguiva tremante di freddo. In

cielo l’astro si calmava.

In fondo alla strada

un occhio nero

si apriva 

 


 

Céline Arnauld, Giravolta, 1919, "Condanna", 4^ parte.






[Traduzione di Elisa Cardellini]

 


LINK all'opera originale:

Tournevire

 

 

 

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28 dicembre 2008 7 28 /12 /dicembre /2008 17:34

Presentiamo un'opera poetica piuttosto singolare, di un autore veramente atipico, si tratta di L'Apologie de la Paresse, del belga Clément Pansaers difficilmente classificabile come dadaista ma che conobbe e fu vicino ai dadaisti francofoni sin dalla prima ora, esperienza che egli non poté portare avanti per via del suo prematuro decesso avvenuto nel 1922.

 

L'APOLOGIA DELLA PIGRIZIA





00cover--apologie-de-la-paresse.jpgCopertina dell'opera edita nel 1921 ma terminata già nel 1917.



pansaers-apologie03.jpg

pansaers-apologie04.jpg

 

 

 

 

 pansaers-apologie07

 

 

 

Alla Marchesa Bianca da Pansa

 

 

 

 

 

 

 

 

pansaers-apologie09.jpg 

 


 

 

I

 

Piccola prostituta…

…L’aria un po’ satira?

– Tu passeggi – io ozio.

 

 

…Seguirti nella tua camera arredata?

– Sei così malarredata.

Riposati, spossata. Io sono pigro.

 

 

… Il mio tatto si ricorda della freschezza

orgiastica

della tua carne in calore.

Il mio udito della tua gola ansante…

Io sono pigro. Marcisci con me.

Quale lussuria per la tua pagana ingordigia.

 

 

… Pensi al tuo malizioso sofà?

Le macchie di rancidi vizi lo illumineranno

di umoristici disegni –

il collezionista vi intuirà un’antica patina.

 

 

… Il tuo antiquario desidera spassarsela, questa sera?

Ma resta pure, intrattabile interessata –


 

 

 

L'oziosità inebria l’ideale affamato del tuo ventre

plastico

Lo farai cuocere al sole.

Stenditi su questo talamo.

 

 

… Un mastro pasticcere lo ha appena impastato?

Il lievito sarà eccellente.

Stenditi al mio fianco.

Salmodiamo l’inno della pigrizia.

Il lievito fa montare l'impasto.

 

 

… La tua voce atona? Cosa? Gravidanza?

A sera, avrai del pane speziato.

Qui… non ci si noleggia a nessuno.

 

 

Trascurata?

Incantevole abbrutita!

Non alzare la voce.

Gli alberi hanno occhi – là dove sono stati tagliate

le loro braccia.

 

 

Tormentata?

Il pentimento cessa.

Dei lucori imperlano il tuo volto spento –

i tuoi occhi filano funeree fiamme.


 

 

 

Nessun timore. Ardita.

Recita le litanie delle farse apoplettiche

del tuo marcitoio della depravazione.

 

 

Fetidi aliti – ce ne freghiamo

di voi.

Madidi sudori del Monte di Venere – non

esistete più per noi.

Lingue lappanti follia –

Non vi vogliamo più.

Vertigini rabbiose – aleggiano sopra

di voi.

 

 

– Racconta le visioni delle tue innumerevoli nozze

… angeliche

– Le sere in cui la malizia febbrile suonava le

ore –

un trambusto tra due suonerie –

I giorni di calma astinenza – almeno

una volta,

avaro cupido, offrivi il viatico…

 

 

… Talentuosa?

Esperta di estasi soporifere

in incubi sudoripari.


 

 

 

… Taci – cuscino di lussuria –

Ti conoscevo – deserto meraviglioso

– giacenza concentrica

– giacimento eccentrico.

 

 

Ti stanchi? – Fuori dal mondo?

Spiritosa sublime

smaliziata lontano dal marciapiede,

dal tea-room,

dall’alcova…

L’ozio ti avvinghierà – ti dissolverà.

Sì. Oziamo, Taci, oziamo…

 

 

… Desidèri discordanti?

Il tuo disgusto scola

 

 

… Amici?

Disprezzo

Il delirio si smussa.

 

 

… Paura? Rete mortuaria!

Canta le tue preghiere con la tua voce afona

– Sorrisi all’angolo dell’occhio

– all’angolo della bocca….

Seduzioni suggestive della testa…


 

 

 

Melopee monosillabiche

– dalla punta della lingua

– dietro il sipario della veletta.

Mordere delicatamente le labbra umide…

Svelare, con raffinatezza, il segno sensibile…

Tatuare l’incanto sapiente dell’alimento nuziale…

 

 

… Detesti la sottomissione?

Io disprezzo il personale domestico.

La serva è inasservabile.

Hai conosciuto la bestia perfetta?

 

 

… Disprezzo?

Né infame, né terribile.

Superba in eleganza accanto al servitore

spregevole nella sua servile servilità.

 

 

Ingenua ragazza senza mestruazioni-

Scarlatta macchia di sangue, la notte, dietro il

tendaggio dell’alcova…

Fingi e non sei che un po’ perversa.

Fingere fa parte del tuo mestiere.

 

 

… Professione semplicemente manuale?...

Stranamente cerebrale – ragazzina,

          quasi innocente, che fingi gentilmente.

 

Non sei spregevole, perché non fingi che

gentilezze.

 

 

… Lavoro molto complesso? Ne convengo.

È per questo che voglio lottare con te

-         io –inerzia – pigrizia.

-         Sei segreto incantatore – luminosa sapiente.

-         La tua scienza imprigiona filosofia, arte,

-         teologia – e tutti i loro sistemi,

-         tutti i loro surrogati.

 

 

…Strano? Fantasmagoria?

La vertigine che dà la stretta della pigrizia

è così penetrante – che ci si rovina alle

sue carezze.

 

 

… Alimentare il tuo ventre?..

Da dove? Da quale parte?

Civetta dalle calze blu.

La pigrizia non stanca –

ruggine, cloroformio…

Ci si addormenta – si sogna senza preoccupazioni

-         etere – laudano, oppio, morfina,

-         cocaina –

-         E al risveglio…


 

 

I sonnambuli sono in barile –

il divorzio è pronunciato –

la separazione compiuta, definitiva.

La vita è fresca, opulenta, magica.

E sarai una ragazza molto giovane

che non si è mai prostituita…

 

 

… Tacciamo ora e conta…

Ma taci – frivola –

Riposati e conta…

La pigrizia ti cloroformizza.

 

 

…Non desidero operarti alle ovaie

-         Nidiata appassita –

-         Non sono chirurgo.

 

 

Chi, credi tu – dica la verità?

    Ti do la mia parola che…

.   …Nessuno? Precisamente.

    Non mi hai dunque capito.

 

 

…Pazzo?

    Ho ritrovato la verità.

    A cosa serve dire la verità


 

 

In un manicomio…

La pigrizia ti invita al gala della verità.

 

 

…Idiota?

             Vivere una menzogna allora

                      -tutta la vita….

 

 

…No. Non fa torto a nessuno.

 

 

…E se non ti piacesse più mentire?

             Evita la legge, la giustizia,-

Prigione, i lavori forzati!

sono legione, coloro che esecrano questa farsa

favolosa…

 

 

… Vuoi evadere?

Inutile. Sei libera.

         Sei la passante- la piccola furba ingannata,

che non conosce che il marciapiede,

lo sguardo al di sopra della spalla-

e la sua alcova

-e le carezze parassite.

Ampolla che serve alle malattie erogene.

 


 

 

La mia cordialità

             -Vedi che non sono scontroso-

             a tutti gli apotecari

             -che frequentano la tua officina.

 

Al rinnovarsi di primavera, passerò sotto la tua finestra…

 


 

 

 

 

[Traduzione di Elisa Cardellini]

 


LINK all'opera originale:

L'Apologie de la paresse



LINK interni su Pansaers:

Fabrice Lefaix, Al Tempo dell'Occhio Cacodilato

Rossano Rosi, L'eterno ritorno del pan-pan al culo

Bernard Pokojski, Pan! Pan! Pansaers

Paul Neuhuys: Clément Pansaers, "Paria in demolizioni (1921)

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Presentazione

  • : DADA 100
  • : In attesa delle giuste celebrazioni che vi saranno nel mondo colto per il primo centenario del grande movimento Dada di arte totale, intendiamo parlarne con un grande anticipo di modo che giungendo la fatidica data molti non siano presi alla sprovvista grazie al mio blog.
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  • Max
  • Amo l'arte in generale, di ogni tempo e cultura storica, soprattutto le avanguardie artistiche e le figure più originali ed eterodosse.
  • Amo l'arte in generale, di ogni tempo e cultura storica, soprattutto le avanguardie artistiche e le figure più originali ed eterodosse.

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