LOUIS ARAGON
ANICET o il panorama
Manoscritto di Anicet
Ammetto, e soprattutto mi auguro, che la figura di Louis Aragon possa anche non piacere, magari sia come scrittore o poeta e uomo, ed ancor più come esponente politico-culturale. La sua conversione allo stalinismo, ma soprattutto la sua incrollabile fede in esso sino alla fine dei suoi giorni ne fanno un soggetto a dir poco sgradevole. È per questo che di quell'Aragon lì non ce ne occuperemo affatto, anzi mai.
Il nostro blog tratta, per fortuna, in modo centrale di dada e quindi è il Louis Aragon dadaista che ci interessa, sino al 1923-24, possiamo dunque stare tranquilli, in generale. Questo Aragon ci piace e non poco, è brillante, impregnato di una sottilissima vena ironica, innovativo, provocatorio e fantasioso.
Oggi presentiamo il primo capitolo di una sua eccellentissima opera, il suo primo romanzo intitolato Anicet ou le panorama [Aniceto o il panorama] che egli scrisse tra il settembre del 1918 ed il mese di marzo del 1920 e che fu edito nel 1921 dalle Editions de la Nouvelle Revue Française. Quindi prima che egli aderisse a dada.
Il romanzo, ricco di trovate e colpi di scena anche grotteschi, è formalmente un intreccio di generi presentandosi sia come un romanzo di formazione psicologica sia come un romanzo poliziesco ma anche come un roman philosophique a cui l'ironia e la parodia si presentano in modo oltrettutto esuberante.
LOUIS ARAGON
A N I C E T
O IL PANORAMA
L’assenza di sistema è ancora un
sistema, però il più simpatico.
Tristan Tzara.
C A P I T O L O P R I M O
ARTHUR.
Anicet non ricordava dei suoi studi superiori che la regola delle tre unità, la relatività del tempo e dello spazio; a questo si limitavano le sue conoscenze dell’arte e della vita. Vi si aggrappava saldamente adeguando ad esse il proprio modo di agire. Ne risultarono alcune stravaganze che non allarmarono affatto la sua famiglia sino al giorno in cui non egli manifestò pubblicamente eccessi poco decenti: si capì allora che era poeta, rivelazione che dapprima lo meravigliò ma che egli accettò di buon grado, per modestia, nella convinzione di non poter egli stesso giudicare meglio di chiunque altro. I suoi genitori, senza alcun dubbio, si adattarono all’opinione generale poiché fecero quello che tutti i genitori dei poeti fanno: lo chiamarono figlio ingrato e gli ingiunsero di viaggiare. Non ebbe coraggio di opporre loro resistenza perché sapeva che né le ferrovie né i piroscafi avrebbero modificato il suo noumeno.
Una sera in un albergo di un paese qualsiasi (Anicet non si fidava della geografia, basata come tutte le scienze su dati sensibili e non sulle realtà intangibili), notò durante il pranzo che il suo vicino di mensa non toccava nessuna portata e sembrava malgrado ciò provare tutti gli appagamenti gastronomici del buongustaio. Anicet intuì istantaneamente che questo strano convivente era uno spirito libero che si rifiutava di ricorrere alle forme a priori della sensibilità e non provava il bisogno di portare gli alimenti alla bocca per provarne le qualità. “Vedo, Signore, gli disse, che non cadete nell’incredulità a cui si attengono generalmente gli uomini, e che, in disprezzo della loro stupida rappresentazione della dimensione, vi astenete dai simulacri attraverso cui essi credono di cambiare i loro rapporti con il mondo. Allo stesso modo in cui certi popoli credono alla virtù dei segni scritti, così il senso comune attribuisce superstiziosamente ai propri gesti il potere di rovesciare la natura. Me la rido quanto voi di una simile pretesa, la quale denota la leggerezza di spirito dei nostri contemporanei (parola sprovvista di senso che prendo in prestito, come giustamente ben pensate, dal loro linguaggio) e la facilità a cui danno luogo le apparenze nell’eccedere al loro gioco. Mi chiamano Anicet, sono poeta e fingo di viaggiare per compiacere la mia famiglia. Non potrei nascondervi quanto arda di apprendere accanto a chi sono seduto. La distinzione che appare sul vostro viso e la preminenza dei principi di cui avete dato sfoggio in questa occasione mi incitano a non aver altro desiderio più vivo".
Anicet tacque, molto soddisfatto di sé, dell’arguzia che aveva posto nelle sue dichiarazioni, del suo periodo e della soavità dei sentimenti espressi, infine di alcuni arcaismi attraverso cui aveva così finemente disprezzato l’idea di tempo e la puerile ed onesta cronologia dei bruti che presentemente si crogiolavano con l’illusione di un accostamento del loro palato e di una torta alla crema.
Lo sconosciuto non si fece pregare e cominciò il seguente racconto: “Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne, a quanto mi hanno detto, ma nulla mi permette di affermarlo, tanto più che non ammetto affatto, come avete ben indovinato, la dislocazione dell’universo in luoghi distinti e separati. Mi accontenterei di dire: sono nato, se anche questa proposizione non avesse il torto di presentare il fatto che esprime un’azione passata invece di presentarla come uno stato indipendente dalla durata. Il verbo è stato creato in tale forma che tutti i suoi modi sono funzioni del tempo, e sono certo che la sola sintassi incoroni l’uomo schiavo di questo concetto, perché egli concepisce seguendo essa, ed il suo cervello non è in fondo, che una grammatica. Forse il participio nascendo, restituirebbe approssimativamente il mio pensiero, ma voi capite, Signore,” e qui Arthur colpì il tavolo con il pugno, “che non la finiremmo più se volessimo conformare i nostri discorsi alla realtà delle cose, e che il padrone dell’albergo ci caccerebbe da questa sala prima della fine della mia storia, se non diamo il nostro consenso strada facendo a concezioni puramente formali a categorie che aborriamo come false divinità, e di cui ci serviremo, se lo acconsentite, anziché servirle.
“Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne. Molto presto, mi diedero un precettore che doveva insegnarmi il latino ma che preferì interessarmi di filosofia. Mal gliene incolse, perché molto rapidamente osservai che il mio professore smentiva con la sua condotta i principi stessi che egli aveva dimostrato. Agiva come se Dio per costruire la terra avesse anticipatamente calcolato la decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Fui offeso da questa disonestà. Ai rimproveri un po’ veementi che gli feci, l’improbo filosofo rispose con la delazione. Mio padre, uomo semplice e che ignorava tutto dell’imperativo categorico, mi fustigò davanti alle mie sorelle. Decisi di abbandonare la casa perché già possedevo quel senso acuto del pudore che doveva dominarmi successivamente. Viaggiai in un primo momento per le strade, mendicando il mio pane o rubando preferibilmente. È durante questo periodo della mia vita che appresi a concepire le acque, le foreste, le fattorie, le figure dei paesaggi indipendentemente dai loro legami sensibili, a liberarmi dalla menzogna della prospettiva, ad immaginare su di un piano quanto altri considerano su diversi come i bambini che sillabano, a non farmi più ingannare dall’illusione delle ore ed abbracciare simultaneamente la successione dei secoli e dei minuti. Una bella sera, un po’ stanco di questi panorami campestri, mi infilai in un treno e feci, nascosto sotto un sedile per non pagare il biglietto, l’itinerario da C… a Parigi. Questa posizione non mi era scomoda, ben sapendo che soltanto un pregiudizio porta i viaggiatori a preferirne un’altra. Utilizzai il tragitto nell’abituarmi a guardare il mondo a rasoterra, la qual cosa mi permise di farmi un’idea delle rappresentazioni possedute dagli animali di bassa taglia. Poi mi accorsi che contrariamente al mio passatempo abituale nulla era più semplice del riportare su diversi piani quanto si vede su uno solo: basta fissare obliquamente ciò che si vuole dissociare anziché osservarlo frontalmente. Applicai immediatamente questo procedimento per allontanare dal mio volto gli stivali del viaggiatore seduto sopra me. Nell’entusiasmo di questi esercizi, scandii mentalmente, al suono ritmato del treno sul pietrisco delle massicciate ferroviarie, delle poesie che facevano a meno dello stesso principio di identità.
Anicet si permise di interromperlo: “Siete dunque anche poeta, Signore?”
–A tempo perso, replicò il narratore. Giunsi a destinazione nella più felice delle disposizioni di spirito. Pensate a quel che è Parigi per un ragazzo di sedici anni che sa meravigliarsi di tutto e in mille modi. Sin dalla stazione mi sentii trasportato: il movimento, le case caricate dalla prospettiva, il modo orientale di scrivere CAFÉ sui frontoni dei palazzi, le feste luminose della sera ed i muri coperti di iperboli, tutto contribuiva alla mia gioia. V’erano poche possibilità che mi stancassi di una decorazione incessantemente variata attraverso alcuni dei metodi di contemplazione che possedevo, quando un’avventura venne a darmi le distrazioni ed il luogo necessari per elaborarne altri.
Un mattino in cui m'imbattei in un funerale, mi raffigurai il morto, come mi ero abituato a farlo, indipendentemente dalla durata. Simultaneamente lo percepii nelle pose più arroganti, le più insignificanti e le più naturali, compiendo tutte le bassezze e tutte le stupidità di una vita senza interesse, con i suoi piccoli vizi e le sue piccole virtù, così poco responsabile che sghignazzai sonoramente nel vedere dei passanti scoprirsi davanti alla cassa lucida che racchiudeva i suoi resti. A quell’epoca, la fine infelice di una guerra ancora recente, i dissensi politici ed il giogo sempre severo del romanticismo portavano gli spiriti parigini a delle violenze poco usuali agli abitanti della città più amabile del mondo. Un quidam mi fermò e mi ordinò con tono enfatico di togliermi il cappello dalla fronte a non so quale immagine della nostra umiltà. Accarezzai il mio olibrius con alcuni epiteti e non feci nulla di quanto richiestomi. Poiché quest’individuo tentava di costringermici gli diedi una lezione pratica di filosofia. La cosa finì alla stazione di polizia e venni gettato in una cella oscura in cui mi si dimenticò per tre giorni. Per essere più libero dei miei carcerieri, bastava che mi astraessi dal tempo e dall’estensione, però preferii mettere a profitto questa reclusione per nuove evasioni. I matematici hanno inventato altri spazi oltre il nostro, a n dimensioni, essi dicono. Ma intralciati dall’abitudine di pensare secondo le tre dimensioni, essi non giungono a rappresentarsi le loro stesse immaginazioni. Grazie a queste ginnastiche preliminari, fu al contrario un divertimento per il mio spirito costruire il mondo dando a n i valori più diversi; stavo concependo la distesa ad un terzo di dimensione quando ci si ricordò della mia presenza per farmi comparire davanti al commissario. Poiché le mie risposte subivano un leggero disturbo da quell’esercizio, questo funzionario, che aveva un’idea puerile della relatività dei concetti, non comprese nulla dei miei discorsi e, convinzione di parlare ad un pazzo, mi fece rilasciare.
Parigi divenne per me un bel gioco di costruzioni. Inventai una specie di Agenzia Cook esilarante che cercava invano di riconoscersi con una guida in mano in questo dedalo di epoche e di luoghi in cui mi muovevo facilmente. L’asfalto si rimise a bollire sotto i piedi dei pedoni; delle case affondarono; ve ne furono alcune che si arrampicarono su quelle a loro vicine. I cittadini portavano diversi indumenti che si vedevano tutti insieme come sulle tavole illustrate della Storia dell’Abbigliamento. L’Obelisco fece spuntare il Sahara Place della Concorde, mentre delle galere vogavano sui tetti del Ministero della Marina: erano quelle degli scudi con le insegne municipali. Delle macchine girarono a Grenelle; vi furono delle Esposizioni in cui si distribuirono delle medaglie d’oro dai millesimi differenti sul dritto e sul rovescio; esse coincisero con l’arrivo di Sovrani e di delegazioni straordinarie. Si abitò senza problemi in immobili in fiamme, in acquari giganteschi. Una foresta crebbe all’improvviso presso l’Opera, sotto i cui alberi di ferro si vendevano delle stoffe baiadere. Scambiai di posto i quartieri les Abattoir e il canale Saint-Martin; lo sconvolgimento non risparmiò i Musei e tutti i libri della Bibliothèque Nationale sommersero un giorno la folla dei perditempo.
Vi parlerò dei mille mestieri che feci, di volta in volta venditore ambulante che cantava come fossero poesie i titoli dei giornali che vendevo; uomo reclame per amore dei cappelli alti, facchino, scaricatore alla Villette? L’estraneità della mia vita mi attirò delle curiosità, delle frequentazioni, delle amicizie. Conobbi in certi ambienti un successo eguale a quella di un prestidigitatore o di equilibrista. Infine alcuni oziosi della riva sinistra mi trovarono del genio. Fui ammesso in circoli scelti, degli accademici mi ospitarono, delle donne di mondo vollero conoscermi. Il contatto giornaliero dei miei simili aveva fortemente sviluppato in me questo sentimento del pudore di cui vi ho già parlato e che mi era innato.
Mi sottraevo alle sollecitazioni del mondo per evitare di mettermi a nudo davanti a tutti. È a quest’epoca che conobbi Hortence. Ignorava tutto della vita, ma non dell’amore. Immagine della passività, sopportò le mie fantasie senza comprenderle. Ammise tutte le esperienze, si piegò a tutti i capricci e mi lasciò penetrare sino al disgusto i segreti della femminilità. Davanti a lei potevo togliermi ogni maschera, pensare ad alta voce, svelare la mia intimità, senza timore che lei mi capisse. Fu un manuale prezioso che abbandonai in capo a tre settimane: avevo imparato a conoscere la visione femminile del mondo, così distante da quella degli uomini quanto lo è quella dei topi ballerini del Giappone che non immaginano che due dimensioni nello spazio.
Tra gli amici che mi erano valsi alcuni doni naturali ve ne fu uno che si legò a me in modo particolare. Quando L*** giunse a penetrare il mio pensiero, lo battei a sangue. Mi seguiva come un cane. Il mio pudore era infastidito all’eccesso da questa presenza costante e il mio solo rifugio era quello di evadere in un universo che mi costruii e in cui L*** cercava di raggiungermi con degli sforzi così grotteschi che a volte ridevo di lui finché non piangeva. Quella vergogna che mi afferrava quando mi si scopriva andò accentuandosi in questo periodo al punto che una semplice domanda come: che ore sono? Se per caso ero io stesso a proferirla, mi faceva arrossire e rendeva la vita intollerabile. Divenni aggressivo, diffidente, insolente. Schiaffeggiavo per un nonnulla gli indiscreti. Vi furono degli scandali durante delle riunioni, dei banchetti. Il colmo fu che un’avventura di questo genere si ritrovò ad essere raccontata ironicamente in un giornale con il mio nome a chiare lettere. Non potei più sopportare lo sguardo delle persone per la strada: decisi di espatriare.
L*** mi accompagnò a Londra dove la nebbia ci permise alcune nuove distrazioni. Grazioso sogno dorato delle rive del Tamigi, ci si stanca alla fine di paragonare i riverberi a punti coronati. La diversione giunse fortunatamente sotto forma di una commessa di una di quelle botteghe di sottaceti e mostarde che profumano un intero quartiere di aceto rosso, incenso di un culto sconosciuto. Aveva l'aspetto di quelle bambole inglesi, eroine dei racconti di Golliwog, e che si chiamavano immancabilmente Peg, Meg o Sarah Jane, i capelli dipinti molto neri sul cranio ovoidale, gli zigomi di carminio, gli occhi dipinti con il pennello, niente naso, il corpo formato da pezzi di legno apparentemente articolati da tenoni, le membra cilindriche. Non appena fu la mia amante mi accorsi del mio errore: niente era più armonioso di questa ragazza paffutella, niente era più esile dei suoi gesti. Abituato a Hortense, mi lasciavo andare a pensare ad alta voce davanti a Gertrud, a trasporre la vita, a mostrarmi al naturale. Molto presto dovetti convenire che lei mi penetrava, che nulla le sfuggiva di quanto le abbandonavo e che non vi era gioco tanto complesso di cui lei non sapesse afferrare la regola e lo svolgimento. Dopo essermi ribellato contro una perspicacia che non avevo richiesto affatto, non potei trattenermi dal provare ammirazione per questa Gertie così vicina a me che pensavo già di raggiungerla e confondermi con lei. Apportava nel volermi seguire una intelligenza, una lucidità che mi sconcertavano. Mi superava in queste competizioni spirituali, indovinava la direzione che stavo per prendere, mi sorprendeva per i balzi che effettuava da un sistema all'altro e mi insegnava a sua volta mille nuovi divertimenti. A volte ci inseguivamo attraverso gli spazi di nostra invenzione, ci sfuggivamo, ci nascondevamo l'un all'altro, ed infine ci incontravamo all'angolo di un universo. Tutto approdava all'amore. Diventava lo scopo supremo della vita: non un gesto, non una risata che non vi portasse. Quanto mi sentivo lontano al di sopra dell'emozione gustata nei primi giorni di Parigi, ora che contemplavo con Gertie dalla cupola di Saint Paul Church quest'altra metropoli che le stesse tecniche accomodavano a mio piacere, ma per portare ad una gioia più nobile e più completa, dal seno della quale guardavo con pietà queste povere astronomie passate e gli entusiasmi dei miei sedici anni! Suprema abolizione delle categorie, l'amore rendeva tutto più facile, tutto docile, non avevamo più limiti a noi stessi nel momento in cui si compiva. Ammettevamo senza protesta che fosse il nostro padrone, ma lo servivamo bene. Si piegava ai nostri capricci, perché conoscevamo il segreto dell'eternità, di raccomandarlo, di sospenderlo. Lo conoscemmo sotto tutte le sue forme, ne inventammo,e portammo nell'amore i nostri metodi di esaltazione. Ci abbandonammo alle confusioni di piani, luoghi, istanti e durata. Ogni cosa assumeva un senso esotico e tutto diventava altare per la religione dell'amore. Una finta rivalità di immaginazione ci spinse alle fantasie più folli. Ci amammo in tutte le contrade, sotto tutti i tetti, in tutte le compagnie, in tutte le usanze, sotto tutti i nomi. Fu un meraviglioso viaggio di nozze. “Gertie, se andassimo ai laghi italiani?”. Cercavamo di deluderci, ma la delusione stessa si tramutava in voluttà. Nel momento preciso in cui uno di noi perdeva il controllo di se stesso, il secondo a volte si salvava in un altro mondo. Il gioco consisteva a costringere l'evaso a fermarsi. Cosa volevo di più? A volte provavo il bisogno di essere solo e Gertie interveniva, mi tormentava finché una menzogna non mi avesse sbarazzato di lei. A volte mi stancavo di essere un lottatore ad armi pari di fronte ad un altro lottatore. A volte, mi irritava dover dire: noi sempre, mai: io. A volte c'era un abisso tra le nostre labbra unite. A volte mi sentivo ostile, duro, con la maschia voglia di picchiare questa ragazza troppo chiaroveggente le cui astuzie mi esasperavano, le cui derisioni mi ferivano, le cui provocazioni non eccitavano soltanto il mio desiderio ma anche l'odio nero del mio pudore offeso. In breve, il dialogo mi superava, ed il pretesto che si offrì (L*** voleva tornare sul continente), fu accolto come un sollievo. Un giorno, invece della via lattea, presi il treno per Dover.
Alcune discussioni con L*** che degenerarono in litigi, un viaggio durante il quale credetti di morire, la certezza trovata nel corso del mio ultimo legame che l'arte non è lo scopo di questa vita, uno scandalo che si verificò verso la stessa epoca intorno al mio nome, la pubblicità che gli si diede e la calunnia che se ne impadronì, infine mille cause più offensive le une delle altre mi costrinsero a cambiare vita. Mi risolvi a dare uno scopo diverso ai miei giorni e di rivolgere la mia attività verso il commercio e l'acquisizione delle ricchezze. Dopo aver liquidato ciò che restava del mio passato, mi munii di una partita di perline colorate e partii per l'Africa orientale, con l'intenzione di praticare la tratta dei negri.
La facilità con la quale mi adattavo a non importa qual modo di pensare, l'assenza di ogni legame che incatenano gli Europei in esilio, mi posero rapidamente in luce agli occhi degli indigeni, poco abituati di vedere un bianco preoccuparsi di loro con tanta chiaroveggenza, e presso quei coloni che dovettero presto rivolgersi a me per ogni traduzione con le persone del paese. Non vi fu più uno scambio, un affare in cui non fossi implicato o in cui non intervenissi. Mi arricchii impudentemente alle spese di tutti, e tutti in compenso mi espressero la loro gratitudine. Divenni una specie di potentato economico, così indispensabile alla vita quanto il sole alle colture.
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LOUIS ARAGON
A N I C E T
O IL PANORAMA
L’assenza di sistema è ancora un
sistema, però il più simpatico.
Tristan Tzara.
C A P I T O L O P R I M O
ARTHUR.
Anicet non ricordava dei suoi studi superiori che la regola delle tre unità, la relatività del tempo e dello spazio; a questo si limitavano le sue conoscenze dell’arte e della vita. Vi si aggrappava saldamente adeguando ad esse il proprio modo di agire. Ne risultarono alcune stravaganze che non allarmarono affatto la sua famiglia sino al giorno in cui non egli manifestò pubblicamente eccessi poco decenti: si capì allora che era poeta, rivelazione che dapprima lo meravigliò ma che accettò di buon grado, per modestia, nella convinzione di non poter egli stesso giudicare meglio di chiunque altro. I suoi genitori, senza alcun dubbio, si adattarono all’opinione generale poiché fecero quello che tutti i genitori dei poeti fanno: lo chiamarono figlio ingrato e gli ingiunsero di viaggiare. Non ebbe coraggio di opporre loro resistenza poiché sapeva che né le ferrovie né i piroscafi avrebbero modificato il suo noumeno.
Una sera in un albergo di un qualunque paese (Anicet non si fidava della geografia, basata come tutte le scienze su dati sensibili e non sulle realtà intangibili), notò durante il pranzo che il suo vicino di tavola non toccava nessuna portata e sembrava malgrado ciò provare tutti gli appagamenti gastronomici del buongustaio. Anicet intuì istantaneamente che questo strano convivente era uno spirito libero che si rifiutava di ricorrere alle forme a priori della sensibilità e non provava il bisogno di portare gli alimenti alla bocca per provarne le qualità. “Vedo, Signore, gli disse, che non cadete nell’incredulità a cui si attengono generalmente gli uomini, e che, in disprezzo della loro stupida rappresentazione della dimensione, vi astenete dai simulacri attraverso cui essi credono di cambiare i loro rapporti con il mondo. Allo stesso modo in cui certi popoli credono alla virtù dei segni scritti, così il senso comune attribuisce superstiziosamente ai propri gesti il potere di rovesciare la natura. Me la rido quanto voi di una simile pretesa, la quale denota la leggerezza di spirito dei nostri contemporanei (parola sprovvista di senso che prendo in prestito, come giustamente ben pensate, dal loro linguaggio) e la facilità a cui danno luogo le apparenze nell’eccedere al loro gioco. Mi chiamano Anicet, sono poeta e fingo di viaggiare per compiacere la mia famiglia. Non potrei nascondervi quanto bruci di apprendere accanto a chi sono seduto. La distinzione che appare sul vostro viso e la preminenza dei principi di cui avete dato sfoggio in questa occasione mi incitano a non aver altro desiderio più vivo.” Anicet tacque, molto soddisfatto di sé, dell’arguzia che aveva posto nelle sue dichiarazioni, del suo periodo e della soavità dei sentimenti espressi, infine di alcuni arcaismi attraverso cui aveva così finemente disprezzato l’idea di tempo e la puerile ed onesta cronologia dei bruti che presentemente si crogiolavano con l’illusione di un accostamento del loro palato e di una torta alla crema.
Lo sconosciuto non si fece pregare e cominciò il seguente racconto: “Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne, a quanto mi hanno detto, ma nulla mi permette di affermarlo, tanto più che non ammetto affatto, come avete ben indovinato, la dislocazione dell’universo in luoghi distinti e separati. Mi accontenterei di dire: sono nato, se anche questa proposizione non avesse il torto di presentare il fatto che esprime un’azione passata invece di presentarla come uno stato indipendente dalla durata. Il verbo è stato creato in tale foggia che tutti i suoi modi sono funzioni del tempo, e mi assicuro che la sola sintassi incorona l’uomo schiavo di questo concetto, perché egli concepisce seguendo essa, ed il suo cervello non è in fondo, che una grammatica. Forse il participio nascendo, restituirebbe approssimativamente il mio pensiero, ma voi capite, Signore,” e qui Arthur colpì il tavolo con il pugno, “che non la finiremmo più se volessimo conformare i nostri discorsi alla realtà delle cose, e che il padrone dell’albergo ci caccerebbe da questa sala prima della fine della mia storia, se non diamo il nostro consenso strada facendo a concezioni puramente formali a categorie che aborriamo come false divinità, e di cui ci serviremo, se lo acconsentite, anziché servirle.
“Mi chiamo Arthur e sono nato nelle Ardenne. Molto presto, mi diedero un precettore che doveva insegnarmi il latino ma che preferì interessarmi di filosofia. Mal gliene incolse, perché molto rapidamente osservai che il mio professore smentiva con la sua condotta i principi stessi che egli aveva dimostrato. Agiva come se Dio per costruire la terra avesse anticipatamente calcolato la decimilionesima parte del quarto del meridiano terrestre. Fui offeso da questa disonestà. Ai rimproveri un po’ veementi che gli feci, l’improbo filosofo rispose con la delazione. Mio padre, uomo semplice e che ignorava tutto dell’imperativo categorico, mi fustigò davanti alle mie sorelle. Decisi di abbandonare la casa perché già possedevo quel senso acuto del pudore che doveva dominarmi successivamente. Viaggiai in un primo momento per le strade, mendicando il mio pane o rubando preferibilmente. È durante questo periodo della mia vita che appresi a concepire le acque, le foreste, le fattorie, le figure dei paesaggi indipendentemente dai loro legami sensibili, a liberarmi dalla menzogna della prospettiva, ad immaginare su di un piano quanto altri considerano su diversi come i bambini che sillabano, a non farmi più ingannare dall’illusione delle ore ed abbracciare simultaneamente la successione dei secoli e dei minuti. Una bella sera, un po’ stanco di questi panorami campestri, mi infilai in un treno e feci, nascosto sotto un sedile per non pagare il biglietto, l’itinerario da C… a Parigi. Questa posizione non mi era scomoda, ben sapendo che soltanto un pregiudizio porta i viaggiatori a preferirne un’altra. Utilizzai il tragitto nell’abituarmi a guardare il mondo a rasoterra, la qual cosa mi permise di farmi un’idea delle rappresentazioni possedute dagli animali di bassa taglia. Poi mi accorsi che contrariamente al mio passatempo abituale nulla era più semplice di riportare su diversi piani quanto si vede su uno solo: basta fissare obliquamente ciò che si vuole dissociare anziché osservarlo frontalmente. Applicai immediatamente questo procedimento per allontanare dal mio volto gli stivali del viaggiatore seduto sopra me. Nell’entusiasmo di questi esercizi, scandii mentalmente, al suono ritmato del treno sul pietrisco delle massicciate ferroviarie, delle poesie che facevano a meno dello stesso principio di identità.
Anicet si permise di interromperlo: “Siete dunque anche poeta, Signore?”
– A tempo perso, replicò il narratore. Giunsi a destinazione nella più felice delle disposizioni di spirito. Pensate a quel che è Parigi per un ragazzo di sedici anni che sa meravigliarsi di tutto e in mille modi. Sin dalla stazione mi sentii trasportato: il movimento, le case caricate dalla prospettiva, il modo orientale di scrivere CAFÉ sui frontoni dei palazzi, le feste luminose della sera ed i muri coperti di iperboli, tutto contribuiva alla mia gioia. V’erano poche possibilità che mi stancassi di una decorazione incessantemente variata attraverso alcuni dei metodi di contemplazione che possedevo, quando un’avventura venne a darmi le distrazioni ed il luogo necessari per elaborarne altri.
Un mattino in cui imbattei in un funerale, mi raffigurai il morto, come mi ero abituato a farlo, indipendentemente dalla durata. Simultaneamente lo percepii nelle pose più arroganti, le più insignificanti e le più naturali, compiendo tutte le bassezze e tutte le stupidità di una vita senza interesse, con i suoi piccoli vizi e le sue piccole virtù, così poco responsabile che sghignazzai sonoramente nel vedere dei passanti scoprirsi davanti alla cassa lucida che racchiudeva i suoi resti. A quest’epoca, la fine infelice di una guerra ancora recente, i dissensi politici ed il giogo sempre severo del romanticismo portavano gli spiriti parigini a delle violenze poco usuali agli abitanti della città più amabili del mondo. Un quidam mi fermò e mi ordinò con tono enfatico di mettere il cappello basso sul di fronte a non so quale immagine della nostra umiltà. Accarezzai il mio olibrius con alcuni epiteti e non feci nulla di quanto richiestomi. Poiché quest’individuo tentava di costringer mici gli diedi una lezione pratica di filosofia. La cosa finì alla stazione di polizia e venni gettato in una cella oscura in cui mi si dimenticò per tre giorni. Per essere più libero dei miei carcerieri, bastava che mi astraessi dal tempo e dall’estensione, però preferii mettere a profitto questa reclusione per nuove evasioni. I matematici hanno inventato altri spazi oltre il nostro, a n dimensioni, essi dicono. Ma intralciati dall’abitudine di pensare secondo le tre dimensioni, essi non giungono a rappresentarsi le loro stesse immaginazioni. Grazie a queste ginnastiche preliminari, fu al contrario un divertimento per il mio spirito costruire il mondo dando a n i valori più diversi; stavo concependo la distesa ad un terzo di dimensione quando ci si ricordò della mia presenza per farmi comparire davanti al commissario. Poiché le mie risposte subivano un leggero disturbo da quell’esercizio, questo funzionario, che aveva un’idea puerile della relatività dei concetti, non comprese nulla dei miei discorsi e, nella convinzione di parlare con un pazzo, mi fece rilasciare.
Parigi divenne per me un bel gioco di costruzioni. Inventai una specie di Agenzia Cook esilarante che cercava invano di riconoscersi con una guida in mano in questo dedalo di epoche e di luoghi in cui mi muovevo facilmente. L’asfalto si rimise a bollire sotto i piedi dei pedoni; delle case affondarono; ve ne furono alcune che si arrampicarono su quelle a loro vicine. I cittadini portavano diversi indumenti che si vedevano tutti insieme come sulle tavole illustrate della Storia dell’Abbigliamento. L’Obelisco fece spuntare il Sahara Place della Concorde, mentre delle galere vogavano sui tetti del Ministero della Marina: erano quelle degli scudi con le insegne municipali. Delle macchine girarono a Grenelle; vi furono delle Esposizioni in cui si distribuirono delle medaglie d’oro dai millesimi differenti sul dritto e sul rovescio; esse coincisero con l’arrivo di Sovrani e di delegazioni straordinarie. Si abitò senza problemi in immobili in fiamme, in acquari giganteschi. Una foresta crebbe all’improvviso presso l’Opera, sotto i cui alberi di ferro si vendevano delle stoffe baiadere. Scambiai di posto i quartieri les Abattoir ed il canal Saint-Martin; lo sconvolgimento non risparmiò i Musei e tutti i libri della Bibliothèque Nationale sommersero un giorno la folla dei perditempo.
Vi parlerò dei mille mestieri che feci, di volta in volta venditore ambulante cantando come fossero delle poesie i titoli dei giornali che vendevo; uomo reclame per amore dei cappelli alti, facchino, scaricatore alla Villette? L’estraneità della mia vita mi attirò delle curiosità, delle frequentazioni, delle amicizie. Conobbi in certi ambienti un successo eguale a quella di un prestidigitatore o di equilibrista. Infine alcuni oziosi della riva sinistra mi trovarono del genio. Fui ammesso in circoli scelti, degli accademici mi ospitarono, delle donne di mondo vollero conoscermi. Il contatto giornaliero dei miei simili aveva fortemente sviluppato in me questo sentimento del pudore di cui vi ho già parlato e che mi era innato.
Mi sottraevo alle sollecitazioni del mondo per evitare di mettermi a nudo davanti a tutti. È a quest’epoca che conobbi Hortence. Ignorava tutto della vita, ma non dell’amore. Immagine della passività, sopportò le mie fantasie senza comprenderle. Ammise tutte le esperienze, si piegò a tutti i capricci e mi lasciò penetrare sino al disgusto i segreti della femminilità. Davanti a lei potevo togliere ogni maschera, pensare a voce alta, svelare l’intimo di me stesso, senza timore che lei mi intendesse. Fu un manuale prezioso che abbandonai in capo a tre settimane: avevo imparato a conoscere la visione femminile del mondo, così distante da quella degli uomini quanto lo è quella dei topi ballerini del Giappone le quali non immaginano che due dimensioni nello spazio.
Tra gli amici che mi erano valsi alcuni doni naturali ve ne fu uno che si legò a me in modo particolare. Quando L*** giunse a penetrare il mio pensiero, lo battei a sangue. Mi seguiva come un cane. Il mio pudore era infastidito all’eccesso da questa presenza costante e il mio solo rifugio era quello di evadere in un universo che edificai e in cui L*** cercava di raggiungermi con degli sforzi così grotteschi che a volte ridevo di lui finché non ne piangesse. questa vergogna che mi afferrava quando mi si scopriva andò accentuandosi in questo periodo al punto che una semplice domanda come: che ore sono? Se per caso andavo io stesso a proferirla, mi faceva arrossire e rendeva la vita intollerabile. Divenni aggressivo, diffidente, insolente. Schiaffeggiavo per un nonnulla gli indiscreti. Vi furono degli scandali durante delle riunioni, dei banchetti. Il colmo fu che un’avventura di questo genere si ritrovò ad essere raccontata ironicamente in un giornale con il mio nome a chiare lettere. Non potei più sopportare lo sguardo delle persone per la strada: