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2 dicembre 2016 5 02 /12 /dicembre /2016 18:00

Il movimento Dada

jancomasque1919.jpg

Marcel Janco, Maschera - 1919

 

Non c'è mai stato nulla di tutto ciò né gli anni che seguirono

Vi dico che siamo morti nei nostri indumenti da soldato

Il mondo come una vettura è affondato come una nave

Versailles spartitevi tra di voi le vostre apparenze di Imperi

Compagni infernali, sappiamo al contempo soffrire e ridere

Non c'è mai stata né la pace né il movimento Dada

Louis Aragon, Le Roman inachevé

 

Un mondo minaccioso e minacciato: il dadaismo e la guerra del 1914

Come sottolinea Stefan Zweig nella sua autobiografia, Le Monde d'Hier, la guerra del 1914 scoppia come un tuono in un cielo estivo. L'Europa vive un'epoca di relativa sicurezza liberale e nulla lascia intravedere la rapidità e la violenza del cataclisma. Se i poeti e i pittori espressionisti annunciano nelle loro opere (le poesie di Georg Heym, le tele di Franc Marc) che la guerra potrebbe essere lo sbocco dei conflitti degli imperialismi tedesco e francese, essi non rappresentano però che delle eccezioni.

Gli scrittori di allora si dedicano piuttosto alla rappresentazioni dei fasti della vita borghese e magnificano la sua decadenza (Stefan Zweig, Thomas Mann), i più critici cercano nel naturalismo erede di Zola e di Ibsen, il mezzo di fare della letteratura, del teatro così come della pittura, l'espressione di contraddizioni sociali che si vanno accentuando. La Belle Epoque è un mito vivo tanto a Vienna o a Parigi quanto nella capitale prussiana dell'imperatore Guglielmo II. Per la sua particolare situazione, la sua evoluzione rapida, trepidante, Berlino è forse la sola città d'Europa che per il suo pessimismo artistico intravede l'apocalisse.

La gioventù di origine borghese si ribella contro i valori imperiali, si emargina formando una scapigliatura (bohème) artistica (più ricca e politicizzata a Berlino che a Monaco) che, nei caffè, per mezzo di poesie e incisioni, tele o opere teatrali, afferma la sua angoscia di fronte al mondo futuro. Ma con la sua fede negli ideali umanitari, nella capacità d'inventare una nuova realtà a partire dall'interiorità, l'espressionismo esalta il messianismo e l'utopia. "L'uomo è buono" affermano numerose poesie dell'epoca. E mentre le minacce si accumulano, poeti e artisti sognano una fraternità universale (Menscheitverbruderung).

In Francia, dopo il clamore del caso Dreyfus, dopo le seduzioni e l'agitazione dell'Esposizione universale, l'ondata di anticlericalismo, i giovani sono più divisi che in Germania, attirati al contempo da un'ondata di xenofobia, dal nazionalismo (Charles Maurras, Maurice Barrès), la credenza nel progresso sociale (Jean Jaurés, Anatole France). Il proiettile che attraversa il café du Croissant, uccidendo Jaurès, non basta a lasciar presagire il dramma. Luglio risuona dei tanghi e delle parate militari. E' allora che una generazione si ritroverà presto trasformata in "ombre blu".

Atteggiamenti dei socialisti tedeschi e francesi

Mentre l'Internazionale socialista sembra considerare la guerra come impossibile, basteranno pochi giorni, poche settimane, affinché si profili da una parte e dall'altra la "sacra unione". Il manifesto del congresso di Basilea (novembre 1912) mette in guardia i governi contro la tentazione dell'imperialismo e della guerra.

Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg hanno preconizzato per una simile evenienza, lo sciopero generale. Il 2 agosto 1914, la direzione dei sindacati tedeschi considera tuttavia la guerra come inevitabile. Il 4 agosto, gli eserciti tedeschi penetrano in Belgio e la socialdemocrazia tedesca vota unanimemente i crediti di guerra. Il deputato socialista Karl Liebknecht, ha ceduto anch'egli in un primo tempo. Si dovrà attendere il 2 dicembre 1914 affinché una frazione della sinistra socialista si riprenda e che Liebknecht li rifiuti, il 20 marzo 1915. In Francia, altrettanto disorientata quanto i loro compagni tedeschi, i socialisti tradiranno gli ideali della loro giovinezza e assumeranno gli stessi slogan nazionalistici.

Atteggiamento degli intellettuali

Sin dal 22 settembre 1914, il Journal de Genève inizia la pubblicazione di articoli di Romain Rolland che si dichiara "al di sopra della mischia". Intorno a lui si riuniscono ben presto tutti gli oppositori alla guerra. Henri Guilbeaux che dirigerà a Ginevra la rivista pacifista Demain; Marcel Martinet, poeta proletario, autore di una poesia "A nos frères inconnus les poètes allemands" e più tardi condannato a morte in contumacia; Yvan Goll, espressionista della Lorena, che considera la Francia e la Germania come le sue due patrie spirituali; il poeta Jean Jouve. Sono raggiunti in Svizzera da un certo numero di intellettuali e artisti come René Schickele, Alsaziano, che allo scatenamento delle ostilità ha rischiato di essere arrestato come spia dai Francesi e dai Tedeschi; Il filosofo Ernst Bloch vi scrisse Lo spirito dell'utopia. Molto presto la Svizzera, Zurigo in particolare, diventa il punto di alleanza di tutti coloro che rifiutano di cedere all'odio patriottico, o credere ancora all'ombra di un'umanità.

Eppure, nella maggior parte, gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti sono colpiti dalla febbre nazionalista. Se gli scrittori Heinrich Mann, Hermann Hesse, Franz Pfemfert, Leonhard Franck condannano la guerra, quest'ultima ottiene l'adesione di un'ampia parte degli intellettuali. Due mesi dopo l'inizio delle ostilità, mentre la città di Lovanio è saccheggiata dalle truppe tedesche, le rovine si moltiplicano, esce il celebre "Appello alle nazioni civili", più noto con il nome di "Manifesto dei 93", firmato da cinquantotto professori universitari tedeschi e dai più eminenti rappresentanti della vita artistica e letteraria.

Tutti rifiutano le accuse contro la Germania, celebrano nella guerra "una causa giusta e buona" e rendono omaggio all'imperatore. Thomas Mann stesso nel suo saggio Federico e la grande coalizione celebra nella guerra l'elemento "eroico" e "demoniaco dell'anima tedesca", opponendosi a suo fratello Heinrich, ammiratore di Zola, di cui tenta in seguito di confutare le critiche in Considerazioni di un apolitico.

Come l'Internazionale socialista, l'Internazionale artistica è a pezzi. Gli artisti russi di Monaco (come Vassily Kandinsky) rientreranno in Russia. Il poeta belga Emile Verhaeren, idolatrato dai giovani tedeschi, cede anch'egli al nazionalismo. Maurice Barrès lancia appelli alla riconquista dell'Alsazia e della Lorena. Unendosi ai futuristi italiani, Guillaume Apollinaire esclama in tutta incoscienza: "Ah, Dio! Quant'è bella la guerra!".

Il bilancio della guerra, considerato dal solo punto di vista degli artisti e degli scrittori è sconcertante: Blaise Cendrars ha la mano mutilata, Apollinaire non sopravviverà alla sua ferita alla testa, Joë Bousquet rimane paralizzato. Charles Péguy, Henri Gaudier-Brezska e Alain Fournier trovano la morte così come, dal lato tedesco, i poeti Gerritt Engelke, Walter Ferl, gli scrittori Alfred Lichstenstein, Wilhelm Runge, Ernst Stadler, August Stramm, i pittori Franz Marc e August Macke. Cosa dire di tutti coloro che ferirà per sempre, come il pittore Oskar Kokoschka, gravemente ferito alla testa, o distruggerà moralmente, come il poeta austriaco Georg Trakl?

E' in questo contesto drammatico e storicamente determinato che nascerà il movimento Dada. Anche se si possono evidenziare in altri paesi, soprattutto in Italia con i futuristi, delle manifestazioni abbastanza vicine al movimento, Dada rimane inseparabile dalla Prima Guerra mondiale e dagli atteggiamenti di un certo numero di artisti europei, e non soltanto tedeschi, hanno adottato nei suoi confronti.

Se l'espressionismo ha costituito l'espressione la più collettiva e la più coerente della rivolta della gioventù tedesca contro il sistema imperiale, Dada non fu che il grido di rivolta di una parte della gioventù ostile alla guerra. Sotto la sua influenza l'espressionismo si trasforma a volte in attivismo (Ernst Bloch, Franz Pfemfert, Kurt Hiller) o in messianismo rivoluzionario (Ernst Toller). Gli artisti, i poeti che ha segnato diventano dei pacifisti o dei rivoluzionari.

Dada, da parte sua, non troverà in un primo tempo da opporre a questa guerra che la sua violenza, la sua rivolta brutale, il suo nichilismo. Fa del non-senso di un'epoca il suo emblema e si interroga, come Theodor Adorno farà più tardi, se è possibile scrivere ancora delle poesie dopo Auschwitz, sul senso di un'epoca, di una cultura, di una concezione dell'arte che, in un campo come nell'altro, hanno permesso che un soldato di vent'anni affondasse nel ventre di un altro una baionetta con la convinzione di compiere una sacra missione.

I dadaisti: una confraternita eterogenea

Si possono trovare senza difficoltà delle tendenze e manifestazioni dada in un passato vicino o lontano, senza essere obbligati ad utilizzare il nome "Dada" [...]. Ma è di una e una sola di queste manifestazioni che è nato un movimento attraverso quell'alchimia delle personalità e delle idee.

Han Richter

 

Chi sono i primi dadaisti? Degli artisti, dei poeti, degli scrittori, che soltanto il caso e la guerra faranno incontrare. Di modo che è anche difficile precisare la nascita del movimento dada così come riconoscergli un solo antenato. Raoul Haussmann affermerà in Courrier dada del 1958 di aver incontrato il dadaismo sin dal 1915. Degli storici dell'arte stimano che Francis Picabia, sin dal 1913, ne abbia creato le premesse. Alcuni storici americani lo fanno iniziare a New York, prima di Zurigo, nel 1916. Naum Gabo considera alcune opere russe come anticipatrici del dadaismo tedesco. E' vero che i futuristi italiani, sin dal 1905, hanno pubblicato dei manifesti usando una tipografia molto simile a quella di Dada, senza parlare di Alfred Jarry o di Apollinaire che, a loro modo, annunciano anch'essi la sua sensibilità. Né scuola né gruppo strutturato, Dada è innanzitutto l'incontro effimero di personalità spesso antagoniste che hanno in comune la rivolta contro la guerra e la frequentazione degli stessi caffè di Zurigo.

[Traduzione di Massimo Cardellini]

 

Jean-Michel Palmier

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24 novembre 2016 4 24 /11 /novembre /2016 10:00

Bruxelles-Berlin via Rotterdam

 

Clément Pansaers

 

Da bruxelles chi-ha-bevuto-berrà-berrà-berrà-cicoria-pacha NON-SPUTARE in nome del re sfollare il territorio della regina a rotterdam COMMERCIO DI PRELIBATEZZE ai VARIETA' SCIENZA E ARTE il direttore d'orchestra patina religiosamente la grassa regina di Saba      giocosa al pistone la bella vacca partorisce formaggio  diffondono l'amore le Guglielmine con cartelle da agente di cambio i mulini ad acqua fabbricano del vento le mani del parrucchiere sudano l'arringa affumicata tutta è mezzo salata e odora di conserve dei petits-maitres sterilizzate le rotter-amstedammeriane al vento davanti vanno e vengono da L'Aia al lunch-hotel senza scollatura si recano alla toilette perché soltanto sotto le lenzuola del letto la notte imposte chiuse come sapone latte-battuto in scatole e pantaloni senza brachette e la luna svelata nel suo buco messo a giorno si eclissa ad angolo retto l'acqua lava le praterie in geometria natura-morta rembrandt-chiaro-scuro in accovacciato-Berlage Le case senza piani con in testa il berretto delle vecchie aleggiano culo e stiva al vol-au-vent i resinosi solitari s'insabbiano pazientemente rigidi e ortodossi si comunicano alla toorop la loro buonasera mistica in meditazione prolifica così la sabbia perché escrementi in strati cosmopoliti che il mare ha abbandonato dietro le dune STAZIONE FRONTIERA dichiarare di Harlem l'olio per sogni lunatici e altre costipazioni le valigie valgono i viaggiatori curiosità di biancheria sporca che scherzo favolosamente assurdo è questa vita umana  VAGONE RISTORANTE   ZUPPA MITROPA  universale è l'igiene  VIETATO SPUTARE  si congestionano alla morale olandese contro Americano la dama lucida in oro i suoi denti minuziosamente s'annuncia berlino repubblica alla pubblicità elettrica  ISTITUTO PER SEPOLTURE.

 

Clément Pansaers

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

 

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31 gennaio 2016 7 31 /01 /gennaio /2016 07:00

L'Internazionale situazionista e la polemica del romanticismo rivoluzionario

 
Patrick Marcolini
 
La comprensione dell'arte degli ultimi due secoli passa attraverso la comprensione dei movimenti politici con i quali è stata in parte legata, come testimonia soprattutto la storia delle avanguardie. Se le modalità di questo accoppiamento sono state multiple, esse possono tuttavia riunirsi intorno a un doppio movimento, riassunto nel 1939 da Walter Benjamin: estetizzazione della politica e politicizzazione dell'arte [1].

Nel XX secolo, l'Internazionale Situazionista offre tuttavia il caso eccezionale di una fusione totale dell'arte e della politica, attraverso il loro comune superamento. L'Internazionale Situazionista (I.S.) è in origine un'avanguardia artistica rivoluzionaria, nata nel 1957 da una constatazione molto semplice: la decomposizione delle vecchie sovrastrutture culturali, esaurite da più di mezzo secolo di contestazione avanguardiste. Lo scopo dei situazionisti è dunque di superare l'arte aprendo alla creazione libera il campo del comportamento e delle situazioni della vita quotidiana.

Per giungere a questo obiettivo, appare indispensabile porre fine alla divisione del lavoro artistico, intesa in due modi: sopprimere la separazione tra artisti e spettatori, affinché ognuno diventi il creatore della propria vita; e sopprimere la separazione tra le arti, affinché tutte le pratiche siano riunificate nella produzione dell'esistenza come opera d'arte totale, e da ciò che determina le sue qualità passionali: la città e le possibilità di incontro che essa racchiude. L'architettura e l'urbanesimo, venendo a riunire le sperimentazioni sviluppate in pittura, scultura, teatro o nella musica, diventano così i primi mezzi di costruzione di una vita integralmente poetica.

Evidentemente, questo programma di rovesciamento delle usanze è condannato a rimanere utopico se non è accompagnato da un progetto di rivoluzione sociale e politica. E' condizionato dall'abolizione del lavoro alienato, e cioè dall'abolizione del capitalismo e il riorientamento radicale dei fini del sistema di produzione industriale; e il progetto di autonomia individuale e collettiva che contiene suppone anche l'abolizione dello Stato e di ogni altra forma di organizzazione gerarchizzata o di rappresentazione alienata, così come la realizzazione di una società senza classi.

Il progetto situazionista del superamento dell'arte esige dunque anche un rinnovamento completo del progetto rivoluzionario all'altezza dei nuovi obiettivi che gli sono assegnati, il che porta i situazionisti a invertire l'ordine delle priorità: la ricerca e la sperimentazione delle forme che potrebbe assumere la vita quotidiana in una società situazionista, che erano l'attività principale dei membri dell'I.S. tra il 1957 e il 1961, forniranno loro gli elementi di un rinnovamento della teoria e della pratica rivoluzionaria, rimaste bloccate sino ad allora nel dogmatismo ideologico e la commemorazione delle rivoluzioni vinte.

L'obiettivo prioritario diventa dunque, a partire dal 1961, la critica della società capitalista moderna, definita da Guy Debord come società dello spettacolo [2], e l'appoggio incessante apportato a tutti i tentativi sovversivi miranti a permettere agli uomini di creare liberamente la loro propria vita.

E' per questo che la I.S., sino al 1972 (data della sua autodissoluzione), diventerà parte attiva dei disordini rivoluzionari che esplodono all'epoca in Europa e negli Stati Uniti. In Francia, i situazionisti svolgono anche un ruolo notevole nello scatenamento di maggio 68. Avendo combattuto sulle barricate, i loro slogan sono ripresi sui muri di Parigi, essi partecipano al primo comitato di occupazione della Sorbona, e fanno tutto quanto è in loro potere per sostenere il movimento di rivolta e lo sciopero generale. Le autorità non si sbagliano sul carattere politicamente minaccioso dell'organizzazione situazionista, nella misura in cui le sue pubblicazioni saranno molte volte sequestrate, i suoi membri perseguitati dalla polizia, sorvegliati dai servizi segreti, imprigionati, addirittura minacciati fisicamente.

Passati senza discontinuità dallo statuto di avanguardia artistica a quello di avanguardia politica, l'I.S. è dunque una specie di caso di scuola per tutti coloro che vorrebbero studiare le relazioni tra estetica e politica nel XX secolo.

E' giustamente in questo passaggio dall'arte alla politica (o piuttosto dal superamento dell'arte al superamento del politico) che nasce la diatriba del "romanticismo rivoluzionario", che si svilupperà tra i situazionisti e Henri Lefebvre, dal 1957 al 1960.

 

Il romanticismo rivoluzionario secondo Henri Lefebvre

Chi è Henri Lefebvre? Può essere forse utile ricordarlo, nella misura in cui è una figura oggi dimenticata dalla filosofia marxista francese, ma anche perché è egli stesso, in un certo senso, un buon esempio di quel romanticismo rivoluzionario di cui ha proposto il concetto [3]. Nel campo intellettuale francese degli anni 50 del secolo scorso, Henri Lefebvre è una delle figure più in vista, uno dei rari filosofi capaci di affrontare Sartre o Merleau-Ponty sul terreno del marxismo [4].

E' a dir il vero un marxista molto eterodosso: giunto a Marx attraverso la lettura di Hegel, di Schelling e dei romantici tedeschi, è molto vicino al surrealismo negli anni 20. Avendo aderito al Partito comunista, la sua posizione è paradossale: benché accetti totalmente, in materia politica, la disciplina stalinista, si accolgono piuttosto freddamente le sue ricerche più innovatrici, come La Conscience mystifiée (1936), uno dei contributi filosofici più interessanti sulle nozioni di alienazione, di feticismo e di ideologia (nella stessa via del Lukacs di Storia e coscienza di classe), o La critica della vita quotidiana (1947), nella quale pone le fondamenta di una sociologia della quotidianità. Nel dopoguerra, Lefebvre comincia d'altronde a criticare sempre più apertamente lo stalinismo del P.C.F., il che gli varrà infine di essere escluso dal partito nel 1958 [5].

E' dunque alla vigilia della sua esclusione, nel maggio del 1957, che egli redige un articolo intitolato "Verso un romanticismo rivoluzionario", che sarà pubblicato sulla N.R.F. nell'ottobre dello stesso anno. L'articolo si apre su un doppio bilancio: da una parte, la crisi dell'ideale socialista "compromesso allo stesso tempo dallo 'stalinismo', attraverso la sua messa in accusa, dalla 'destalinizzazione' abortita" e lo scacco degli intellettuali nel formulare una politica rivoluzionaria articolata in modo coerente con la loro attività d'artisti o di pensatori; da un'altra parta la crisi dell'arte moderna, immobilizzata nella difficoltà di un'esaurimento formale e da un'incapacità nell'affrontare, persino nel superare "il carattere fondamentalmente problematico - dunque incerto - della vita reale" nel mondo moderno [6].

Allo stesso tempo, in Rapport sur la construction des situations pubblicato nel giugno del 1957 e che costituisce il documento preparatorio per la fondazione dell'I.S., il situazionista Guy Debord fa una costatazione identica: secondo lui, l'epoca è quella di una "crisi essenziale della Storia", crisi sul piano politico nella misura in cui lo stalinismo in U.R.S.S. e negli altri paesi del blocco dell'Est è stato uno dei maggiori ostacoli nel conseguimento di una politica rivoluzionaria negli ultimi trent'anni (ma, più ottimista di Lefebvre, Debord ritiene che il 1956 segna l'inizio di "una nuova fase della lotta", di una nuova "spinta delle forze rivoluzionarie") [7] - e crisi sul piano culturale in cui l'impotenza generale si manifesta nella sterile manifestazione di vecchie procedure datanti da Dada e dal surrealismo, nel nulla assunto come soggetto possibile dell'opera letteraria o artistica, addirittura in tentativi di restaurazione pura e semplice degli antichi valori culturali. Per mezzo di questa descrizione che assume l'andamento di un gioco al massacro, Debord prende di mira esplicitamente il surrealismo del dopoguerra, il neodadaismo, l'esistenzialismo e il realismo socialista [8]. La soluzione risiede secondo lui in una nuova alleanza tra l'arte e la politica rivoluzionaria che passa attraverso la sperimentazione di nuove modi di vivere.

rien ne manque...

Surrealismo, esistenzialismo, realismo socialista, ritorno al classicismo

Gli obiettivi di Debord sono anche quelli a cui mira Henri Lefebvre nel suo articolo. Tuttavia, Debord e Lefebvre non si conoscono ancora, e conducono le proprie ricerche in modo separato, ma simultaneo [9].

In compenso, l'incontro tra questi due uomini si verificherà proprio sulla questione del "romanticismo rivoluzionario", un concetto elaborato da Lefebvre per evidenziare il significato politico dei cambiamenti avvenuti nella sfera culturale, dopo lo scacco degli ultimi tentativi di rinnovamento artistici e letterari del dopoguerra.

Il romanticismo rivoluzionario che Lefebvre desidera, e che egli crede già di poter distinguere presso alcuni artisti, quel romanticismo rivoluzionario si definisce attraverso l'opposizione al vecchio romanticismo, pur approfondendone alcune delle sue tendenze più fecondi.

Come il vecchio romanticismo, esso è l'espressione di un disaccordo, di una lacerazione tra il soggettivo e l'oggettivo, tra il vissuto e le rappresentazioni, tra l'uomo e il mondo: parte dalla noia, dall'insoddisfazione concreta e dalla disperazione di fronte all'esistente. Ma in reazione a questo mal di vivere, il vecchio romanticismo aveva scelto di "[prendere] distanza in rapporto al presente servendosi del passato": giudicava l'attuale in nome di un passato idealizzato, viveva "nell'ossessione e il fascino della grandezza, della purezza del passato" [10].

Quel passato significava sempre il ritorno indietro nel tempo, sia storico sia psicologico, verso le origini. Si trattava a volte del "primitivo", della semplicità e della purezza nativa; a volte del medioevo o dell'antichità; a volte dell'infanzia. Il mito del passato assumeva dunque delle forme diverse, sempre emozionanti, andanti sino alla fascinazione dell'inconscio. Più in generale, il vecchio romanticismo trasformava il feticismo e l'alienazione in criteri del vero e dell'autenticità: la possessione, la fascinazione, il delirio. Da cui un contenuto reazionario [11].

 

  •  

15Mentre il vecchio romanticismo può in fin dei conti riassumersi con la figura dell'"uomo in preda al passato", il nuovo romantico, il romantico rivoluzionario, è, al contrario, "l'uomo in preda al possibile" [12].

Il dramma interiore del romantico rivoluzionario è infatti ciò che Lefebvre chiama la coscienza del possibile-impossibile, e cioè, come dice Debord in Rapport sur la construction des situations, "Il conflitto permanente tra il desiderio e la realtà ostile al desiderio" [13]. La coscienza del possibile-impossibile poggia sull'intuizione che l'apparato tecnico sviluppato dal capitalismo potrebbe essere posto al servizio di una distribuzione egualitaria dei beni, per restituite una "nuova pienezza" alla vita, e permettere "una comunicazione più profonda" e più autentica tra gli esseri. Ma invece di questo, regnano "l'ingiustizia e la menzogna, più potenti e più onnipresenti che mai", una "soffocante  impressione di incomunicabilità", il tutto culminante nella "coscienza del vuoto" e nel "vuoto delle coscienze" [14].

 

  •  
  •  

17E' in questa coscienza del possibile-impossibile che risiede il carattere rivoluzionario del nuovo romanticismo, nella misura in cui è portato a formulare la sua "opposizione radicale all'esistente in nome del possibile" [15]. Inoltre, il romanticismo rivoluzionario pone in nuovi termini la vecchia domanda del rapporto tra l'uomo e la natura: infatti, "il gigantesco potere degli uomini riuniti sulla natura si traduce per ognuno di essi in impotenza. Questo potere umano si trasforma ancora - sotto i nostri occhi, intorno a noi, con noi, in noi, su noi - in potere di alcuni uomini su altri". Sin da allora "come fare affinché il potere (degli uomini sulla natura) diventi più di un mezzo: una sostanza, una potenza condivisa, alla quale ognuno possa partecipare più e altrimenti del sogno e dell'immaginazione?" [16]. Ponendo questa domanda, il romanticismo rivoluzionario apre la via alla critica della proprietà privata dei mezzi di produzione, che è anche, come è risaputo, la domanda centrale del comunismo rivoluzionario.

Attraverso l'arte, si è dunque in definitiva ricondotti alla politica, e sono giustamente queste due determinazioni della praxis che Henri Lefebvre cerca di articolare in modo coerente.

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

 

NOTE

[1] Walter Benjamin, L'Oeuvre d'art à l'époque de sa reproductibilité technique [1939] (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica], trad. di Gandillac, Parigi, Allia, 2003, pp. 74-78.

[2] Il libro di Guy Debord con questo titolo uscì nel 1967. Lo stesso anno uscì l'altra opera di riferimento del movimento situazionista il Traité de savoir-vivre à l'usage des jeunes générations di Raoul Vaneigem.

[3] Kurt Meyer, Henri Lefebvre: Ein romantischer Revolutionar, Wien, Europa Verlag, 1973.

[4] Se si eccettuano da una parte i comunisti dissidenti come Pierre Naville e Dionys Mascolo, e da un'altra i marxisti influenzati dal comunismo dei consigli, come Claude Lefort e Cornelius Castoriadis.

[5] Rémi Hess, Henri Lefebvre et l'aventure du siècle, Paris, Métailié, 1988.

[6] Henri Lefebvre, "Vers un romantisme révolutionnaire", La Nouvelle Revue Française, 1° ottobre 1957, p. 645 e 647.

[7] Guy Debord, Rapport sur la construction des situations [1957], Paris, Mille et une nuits, 2000, p. 23.

[8] Guy Debord, op. cit., p. 16-23.

[9] Lefebvre scrive il suo articolo nel maggio 1957 e lo pubblica nell'ottobre dello stesso anno , Debord pubblica il Rapport sur la construction des situations nel giugno 1957, e l'Internazionale situazionista è fondata il mese seguente; è dunque impossibile che vi sia stato incontro tra Lefebvre e gli scritti situazionisti.

[10] Henri Lefebvre, op. cit., p. 657.

[11] Henri Lefebvre, op. cit., p. 664.

[12] Henri Lefebvre, op. cit., pp. 664.

[13] Guy Debord, op. cit., p. 41.

[14] Henri Lefebvre, op. cit., pp. 662-32 e pp. 670-671.

[15] Henri Lefebvre, op. cit., p. 665.

[16] Henri Lefebvre, op. cit., p. 669.

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25 dicembre 2015 5 25 /12 /dicembre /2015 07:00

L'affare della proiezione di "L'Âge d'or"

Prima pagina del volantino di denuncia da parte del movimento surrealista dell'aggressione subita durante la proiezione del film L'Age d'Or di Luis Buñuel e Salvador Dali.

Autori: Maxime Alexandre, Louis Aragon, Georges Malkine, Emmanuel Rudzitsky detto Man Ray, Georges Sadoul, Pierre Unik, Albert Valentin, André Breton, René Char, René Crevel, Salvador dalì, Paul Eluard, Benjamin Péret, Yves Tanguy, Tristan Tzara.

 

L'Age d'Or, Il film di Luis Buñuel e Salvador Dali, suscita alla fine del 1930 uno degli scandali di maggior risonanza del surrealismo; l'intervento violento dell'estrema destra, alla fine di una proiezione, porta al ritiro del film, che sarà invece proiettato a Londra all'inizio di gennaio.

Invito di Nancy Cunard per assistere alla proiezione di "L'Age d'Or" a Londra, in data 2 gennaio 1931.


 

Commentando, narrando e denunciando questa storia che essi raccordano all'antisemitismo e associano già alla "polizia di Hitler" (le cui Sezioni speciali cominciano a affollare la cronaca), un volantino voluminoso viene a dare il suo contributo, con tanto di pezze d'appoggio, a un film le cui reazioni dei critici ricordano che se resterà negli annali del cinema, è anche per la sua qualità.

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Fotografia ritraente i danni provocati allo Studio 28. Sul retro di questa fotografia André Breton ha annotato: "Irruzione dell'esposizione surrealista allo Studi 28 da parte delle "Jeunesses patriotes" e la "Ligue anti-juive" (1920)".

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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31 luglio 2015 5 31 /07 /luglio /2015 06:00

 

litterature11_cover.jpg

 

 

 

 

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NOSTRA INCHIESTA

 

Perché scrivete?

 

 

MICHEL CORDAY

 

Persuaso che il libro più modesto esercita un'azione e lascia una traccia, scrivo soprattutto per diffondere le convinzioni che mi sono care, per combattere le sofferenza e servire la felicità.

 

PAUL BRULAT

 

Mi chiedete:

Perché scrivete? Ecco la mia risposta:

Scrivo per esprimere ciò che penso e ciò che sento, e cioè per cercare di soddisfare la mia passione di sincerità.

 

 

JACQUES REDELSPERGER

 

 

Perché scrivo?... semplicemente

Per un egoismo supremo,

Per, senza un più sottile argomento,

Farmi piacere a me stesso;

Ma se il pubblico preso di noia

Trova qualcosa da ridire,

Non deve prendersela che con se stesso,

Non essendo obbligato a leggermi...

Strana pubblicità dopo tutto

Da parte di un uomo di lettere,

E il mio editore, presumo,

La troverà poco di suo gusto.

 

inchiesta_dada2.jpg

 

MAX MAUREY

 

Direttore del Théâtre des Variétés

Perché scrivete? mi chiedete.

E' la domanda che mi pongo tutte le volte che scrivo una commedia.

 

 

OCTAVE UZANNE

 

Perché scrivo?

Non me lo sono mai chiesto, perché ho sempre obbedito a quest'ardente impulso passionale che è forse la vocazione.

Inoltre ritengo che la sola ricompensa della vita intellettuale risiede nel lavoro del pensiero e in tutte le ebbrezze e immunità dei mali volgari che conferisce l'autosuggestione dell'azione cerebrale. Il resto: successi pubblici, onori, gloriucce non valgono la pena di essere sollecitate. Vi è nella combustione delle idee un ritorno di fiamma che basta a scaldare tutta una vita da benedettini delle lettere. Coloro che chiedono altro alla società non sono degni di esercitare un apostolato per così dire religioso e mistico, che paga ampiamente i suoi devoti.

E dire che ci sono degli scrittori che vogliono unirsi alla C. G. T.

 

FERNAND GREGH

 

... Ecco, non sono più ora che un sognatore

Che vuole con parole confuse balbettare il suo sogno,

Che vuole ritmare i rumori passeggeri del suo cuore

Non perché lo si ammiri e lo si applauda:

- La gloria è il bel nome dorato dell'ingiustizia

E il più valoroso non è sempre il vincitore; -

Ma perché per sempre sente un vago istinto

Di cantarsi per sé la sua anima, un sordo dispetto

Di farvi variare l'ora, per il piacere,

Così come una donna fa scintillare un anello,

E poi perché un po' più tardi quando morirà,

Lasci un po' di lui in qualche strofa austera,

E che si sappia un giorno che un tempo fu sulla terra

Un povero uomo simile agli altri, che pianse.

 

Tratto, da "L'Or des minutes", page 43. - 1905

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JACQUES BAINVILLE

 

Scrivo perché questo è il mio mestiere e per dire quel che penso.

 

JEAN DE BONNEFON

 

Ho scritto, all'inizio della mia vita, perché la professione delle lettere mi è sembrata essere la più liberale e la più indipendente del mondo.

Ho continuato, senza sosta, il duro e caro mestiere perché l'indipendenza è un oggetto di perpetua lotta. Ho continuato perché la bontà dei lettori dà coraggio e forza.

Poi... nella scrittura "il lavoro è uno scopo non un mezzo".

 

 

PIERRE DECOURCELLE

 

... "Ebbene, in verità, gli stolti avranno da ridire,

Quando non si ha denaro, è divertente scrivere.

Se è un passatempo per non annoiarsi,

Val bene la borsa dell'acqua calda... E se è un mestiere,

Detto tra noi, dopo tutto, non è uno dei peggiori

Di mantenuta, avvocato, o portiere..."

(ALFRED DE MUSSET)

Per copia conforme:

PIERRE DECOURCELLE.

 

 

LOUIS DIMIER

 

Scrivo: 1 ° per possedere.

Possedere la verità delle cose apparse ai miei sensi e alla mia ragione. Esprimendo questa verità, la faccio mia, le mie vedute sono il legame che le unisce. In Aristotele ciò si chiama imitazione. Si deve concepirne l'essenziale. Imitare è ricreare l'oggetto, quindi impadronirsene tanto quanto si possa concepire. E' un piacere incomparabile, un'attrazione suprema, al quale hanno parte due cause: l'intelligenza dell'oggetto, il suo rapporto; l'una è luce, l'altro potenza; la seconda trova nella prima la sua prova e il suo complemento. Corot diceva: Oh! che bella vacca; la dipingerò. Zac! eccola.

2 ° per persuadere.

Il vero delle cose entrato nell'intelligenza, l'oggetto fa spirito,

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diventa comunicabile. Necessariamente tende a comunicarsi. L'universale del pensiero che l'informa è come una molla che spinge all'infinito. Tutti gli uomini sono chiamati a godere di ciò che possiedo. Nuova prova dei lumi che presiedono all'imitazione, nuovo esercizio della potenza che essa suppone. Persuadere deriva da possedere. Ne è la conseguenza necessaria; procede dalla stessa attrazione. Coloro che li separano, che descrivono il piacere di scrivere come indipendente dall'approvazione, assumono un tratto d'orgoglio o di ripicca per l'essenza delle cose.

Questo è il piacere di scrivere, così ne è il demone. Delle due cause che ho appena citato, in un senso generale, si può chiamare la prima poesia, la seconda avrà come nome eloquenza. La prima dà nascita all'arte in sé, la seconda ne espande l'effetto.

 

 

ADRIEN VÉLY

 

Perché mi hanno insegnato a scrivere.

 

 

LÉON RIOTOR

 

Presidente onorario della Société des Poètes français.

È l'origine concreta di questa funzione che avete di mira, il perché dell'atto materiale, poiché giudicate inutile l'esposizione della tendenza?

Se sì: scrivo così come leggo, perché figlio di tipografo e di stampatore, in un ambiente saturo di carta stampata, fui tentato di fare come tutte quelle persone che mi circondavano, di essere stampato come loro, su della carta umida, poi in giornali e su di un libro.

Avevo appena 14 anni quando una poesia firmata con il mio nome apparve su di un giornale. Ho continuato a scrivere e a pubblicare, così come si mangia o beve, con una specie di soddisfazione nuova ad ognuna delle estrinsecazioni del mio pensiero. E continuerò così indubbiamente sino alla morte. È un atto talmente naturale che mi sarebbe sembrato anormale non sottomettermici.

 

IRENE HILLEL-ERLANGER

 

Perché scrivo?... non facile da scrivere.

Diciamo (se vi piace) che

scrivo perché adoro la parola e anche perché

amo Parigi - e i cataloghi dei grandi magazzini di novità!

 

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RENÉ GHIL

 

Quando nel Novembre 1884, a ventidue anni, firmavo la Prefazione del mio primo libro, in cui sin da allora elaboravo un primo piano dell'Opera che avrebbe occupato la mia vita, - credetti che quest'Opera, con la sua dottrina filosofica, le sue teorie tecniche e le sue direttive, si presentava necessariamente, per una evoluzione di senso profondo del Pensiero poetico. Dico: necessariamente, e che nessun altro poteva questo sforzo di Poesia a base scientifica, e di Sintesi.

Credo che l'Opera compiuta - che si completerà con altri quattro volumi - è venuta in testimonianza, qualunque sia la distanza, ahimè! tra l'espresso e il sogno creatore... E' per questo che scrivo.

 

 

H. R. LENORMAND

 

Scrivo, come ogni scrittore, per affermare delle tendenze intime respinte nella vita reale. Credo che l'opera d'arte potrebbe essere definita una compensazione del reale. I nostri istinti rivoluzionari e sessuali, i nostri istinti di dominio e di conoscenza non possono soddisfarsi pienamente nel corso della vita. La loro  una sublimazione che fa nascere l'opera d'immaginazione. Quest'ultima non è dunque che la manifestazione di velleità contrariate. Essa può, nei casi di repressione eccessiva, sfociare in una contraddizione completa e magnifica dell'effettiva esistenza dello scrittore.

Le atrocità sfrenate delle opere di de Sade possono spiegarsi con il fatto che egli scriveva soprattutto in prigione. L'esagerazione delle sue invenzioni mi farebbe piuttosto credere alla non realizzazione delle sue tendenze erotiche. È una rivincita del sogno sulla realtà.

Per quel che mi riguarda, non c'è da dubitare che alcune delle mie opere teatrali come "Poussière", "Les Possédés", "Terres chaudes", tra le altre, sono un tentativo di compensazione di istinti rivoluzionari ostacolati e di desideri di viaggi non del tutto soddisfatti.

 

 

ROCH GREY

 

Approvo pienamente il nuovo gioco di società inaugurato dal vostro questionario.

Il mio amico Léonard Pieux, esploratore del deserto africano, vaga nei paraggi di fattori ignorati. Sicuro del suo assenso, vi rispondo per lui: egli come me scrive, innanzitutto per farvi piacere; in seguito, per partecipare al mantenimento dell'equilibrio universale che a grandi grida richiede il nostro concorso.

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PAUL HYACINTHE LOYSON

 

Per giustificare Alceste.

 

HENRI FALK

 

"Perché scrivete?". Non siete i primi a pormi questa domanda: me la rivolgo spesso a me stesso. Perché, se si tratta di fare fortuna, scrivere è oggi un mezzo singolare; e se si tratta di "fare dell'arte", scrivere testimonia di una singolare sufficienza. Siamo sempre sicuri di essere degli artisti?

Scrivo dunque senza ragione, ma non senza motivo: sarei troppo afflitto se non scrivessi affatto.

 

EDMOND JALOUX

 

Se non scrivessi, morirei di fame.

 

 

MAX E ALEX FISCHER

 

Per bontà: per non scoraggiare nessuno...

 

HENRI DUVERNOIS

 

Scrivo per cercare di divertire le "brave persone!".

 

 

JEAN PAULHAN

 

Sono commosso che aspettiate le mie motivazioni; ma infine, scrivo poco, il vostro rimprovero mi sfiora appena.

 

 

PAUL SOUDAY

 

Per quanto lontano risalgano i miei ricordi d'infanzia, trovo questa idea profondamente radicata in me, che la sola vita interessante e nobile è quella che si dedica esclusivamente alle cose dello spirito. La cura degli interessi materiali mi ha sempre ispirato una ripugnanza invincibile. Non potevo essere che un prete, professore, uomo di lettere, artista o scienziato. Di queste carriere ho scelto quella che ho creduto la più conforme alle mie attitudini; indubbiamente avrei preferito scrivere un numero ristretto di opere maturati a lungo. Il giornalismo,

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in cui ho sono dovuto entrare giovanissimo, è stato per me, una necessità alimentare. È un mestiere impegnativo e a volte anche deludente, ma appassionante anche. Faccio del mio meglio per rendermi utile e servire il culto delle buone lettere. Ma tutto ciò è forse un po' ambizioso. Diciamo semplicemente che ho seguito il mio piacere.

 

FRANTZ JOURDAIN

Presidente del Salon d'Automne.

 

Per infastidire, in generale, le persone che le mie idee disgustano, e per dare un attacco di apoplessia al signor Lampué, l'onorevole e simpatico consigliere municipale della Ville-Lumière.

 

FRANCIS JAMMES

 

Scrivo perché, quando scrivo, non faccio altre cose.

 

GIUSEPPE UNGARETTI

Per pudore.

Se potessi essere qualcuno, mi divertirei a non apparire.

Sapete che il pudore è la forma cosciente della codardia.

Ma, per caso, mi sono appena fatto vedere nudo del tutto.

Non abbiatemene rancore.

 

ANDRÉ COLOMER

 

Scrivo, mangio, respiro, faccio l'amore, piango, canto, cammino e danzo e penso e vivo e morirò e non ne saprò mai il perché.

Perché vivo? Perché scrivo? Sono Dio, per poter risolvere dei perché? Mi constato e ciò mi basta.

Io sono.

 

(Segue.)

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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30 aprile 2015 4 30 /04 /aprile /2015 06:00
DADA e IO
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Dada ha voluto essere la parola d'ordine di un certo spirito, equivalente a ciò che si intende con simbolismo, con cubismo.

In questo senso sono diventato dadaista verso il 1916, quando la parola Dada non era ancora stata trovata; nello stesso senso in cui John Rodker era diventato dadaista, durante la guerra, in Inghilterra; e Ezra Pound in America. E quanti altri lo erano diventati, a loro insaputa e senza la minima influenza d'altri.

Perché in questo senso ancora, il punto di partenza teorica della scuola, che avrebbe potuto chiamarsi Dada e che, malgrado tutto rimarrà nominata in tale modo, risale ad Alfred Jarry per l'idea e allo Stéphane Mallarmé del "Un coup de dés" e di alcune "divagations" per l'espressione.

Ad Alfred Jarry per l'idea, intendo dire, il lato stupidamente farsesco della vita, che ci è stato dato di vivere così comi-tragicamente durante la guerra.

La guerra tagliò di colpo la continuità di tutte le speculazioni di prima del 1914. Se Einstein ha definitivamente stabilito la sua filosofia del Relativismo, è la guerra che gliene ha fornito gli elementi. Prima del 1914, si poteva avere l'intuizione di alcune linee-forza. L'arresto completo di tutte le correnti ordinarie della vita e la loro deviazione verso la distruzione, compresa l'autodistruzione, ha reso tangibile alcune vie insospettabili nel dedalo organizzato dell'atavismo che aveva creato la civiltà.

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Sarebbe troppo lungo enumerare qui tutte le volizioni che questa ripulitura brutale ha fatto apparire durante gli anni 1914-1918.

Il caso, con un colpo di mazza, aboliva la logica dei filosofi e con essa, tutte le speculazioni filosofiche nelle loro suddivisioni: metafisica, psicologia, ecc., con le loro leggi considerate come immutabili. La bio-chimica poteva molto presto notare la possibilità delle sovrastrutture, dall'elettrone all'uomo, nel passaggio continuo dalla costruzione alla disaggregazione attraverso l'oscillazione eterna dell'equilibrio dallo stabile all'instabile.

La letteratura, l'arte, vi trova il suo fondamento così come il resto. E già nel 1917, ho sostenuto questa legge e l'ho spiegata sotto la concezione letteraria, sotto forma di paradossi, nella mia rivista Résurrection, e in alcune discussioni, a Bruxelles,  al "Au Diable au Corps", a un gruppo di giovani che, disorientati (ohé i convinti e ancora così giovani!) si attribuivano un punto di consolazione chiamandomi "eccentrico".

Più tardi le mie "eccentricità" furono chiamate bolsceviche e mi valsero una perquisizione - gendarmi e soldati baionetta in canna - e una sorveglianza stretta da parte della polizia segreta per diventare infine dadaisti. Che gioia interstiziale!

Più esplicitamente, sostenevo le seguenti verità; - rispetto allo spirito che non considera la letteratura dal solo punto di vista del Mercantilismo, di ricavarne a propria convenienza: -

1° Gli umani non si somigliano che per le loro dissomiglianze. Da allora, ogni individuo deve scoprire in lui questa cosa, che lo rende estraneo a - e lo differenzia dal - suo vicino; e non appena questo stato esteriorizzato in arte, è impossibile che un tale faccia della pittura come Cézanne, e un tale del romanzo come Bourget o chiunque altro.

2° La descrizione della natura è facile. L'individuo è natura a sua volta, e ha in sé un terreno inesauribile da scoprire. La natura esterna può servirgli gli elementi adatti alla costruzione della sua opera.

3° I grammatici hanno creato delle regole di sintassi basandosi sugli autori (oho! la stabilità della lingua francese!). Questa sintassi non bastava già più a Stéphane Mallarmé per rendere i suoi concetti tangibili. E le parole hanno dei sensi talmente molteplici che per rimediare più o meno alla confusione, la parola adatta importa. Si arriva così a condensare in una parola ciò che il fraseggiatore dice in sei pagine. Ciò abolisce di colpo il romanzo da 350 pagine - questa merce commerciale! che, dovendo essere commerciale, perde ogni valore in arte.

Si giunge così a concludere severamente di fronte ai Paul Bourget, gli

Anatole France e tutti i romanzieri invariabilmente all'andatura uniforme dello spessore commerciale: 350 pagine. Ma basta così. Sviluppo qui il critérium che mi sono formato alla mia rinascita nel 1916, e che ha presieduto, tra gli altri, alla composizione del mio Pan-Pan, che in una scrittura ordinaria avrebbe formato un grosso volume: 600 pagine.

Devo qui confessare l'influenza che ebbe su di me la lettura di Chuang-tzu, cinese, contemporaneo di Aristotele, più vicino a me, più vicino a noi di Spencer e William James. E' in lui che ho trovato una teoria della Distruzione, degna di applicazione; poiché il filosofo mi provò ben presto l'evidenza che di fronte all'impossibilità di una volontà isolata, non rimane a quest'ultima che la distruzione attraverso la costruzione.

Non è qui il luogo per descrivere più ampiamente, né di analizzare il mio Cinese, benché sia il precursore del Relativismo e di tutte le teorie ultra-moderne. Gli interessati lo leggeranno tra poco in una rivista parigina. Il superficiale, davanti a molte negazioni artistiche, pone volentieri la domanda: Perché scrivete?

Ma non vi è nulla di più lussuriosamente allegro di pubblicare un libro - quanto ancor più nel pubblicare un libro a tendenza ultra -, non fosse altro che per leggerne le critiche. Perché il volume è dapprima sottile, perché l'autore disdegna il tam-tam della pubblicità in seguito - il critico si erige, arrogante e lo rimane.

Da parte mia noto alcune insanità e titoli:

Da "pazzo, esibizionista mistico", "Senza genio" lo so, fino a un "delirante" di un tale signore accanto a "raffinatezza della bestialità" (che moralizzatori dannazione! E dire che tutte queste persone non sono mature per le Carmelitane!) a "una gioia di vivere" accordatami da u tale convinto  che attendo il Messia, sino a, (vi chiedo se è interessante e divertente lo stesso) il "ho letto con una curiosità divertita" di André Gide e "In tutte queste opere apportate un elemento nuovo alla poesia francese, e tuttavia restate nella grande tradizione" di Valéry Larbaud.

Ometto le lodi degli amici ed è per essi, e per me, e per qualcun altro, che spero ancora di "commettere" degli atti in questo senso.

In Belgio, il paese che più al mondo segue le tendenze artistiche, la parola Dada fu appena conosciuta, ma conosciuta in un senso corrotto e contraffatto, che mi catalogarono sotto questa etichetta, in un senso a loro parere, ben inteso, eminentemente ridicolo. Quanto ne ero fiero! Vada per il Sapone Dada dunque. Signore!

Il mio Pan-Pan e molte altre opere edite o ancora da pubblicare sono state scritte nel 1916, 1917, 1918, quando ho saputo dell'esistenza di Dada nel 1919, quando ero da Carl Einstein a Berlino.

Aderii con piacere al movimento, che non conobbi intimamente che nel 1921. Vi aderii, perché la mia evoluzione si era compiuta in un modo simile.

Alcuni amici di Bruxelles, addirittura dei "nemici", alla vista della mia pittura, così come alla lettura della mia letteratura esclamarono "più che Dada, pan-Dada!". Se la parola fosse esistita nel 1915-1916, questi stessi avrebbero sicuramente esclamato la stessa cosa davanti alla mia scultura e alle mie incisioni su legno in Résurrection. Quanto era divertente! - Da morire! Firmavo le mie incisioni Guy Boscart. Degli artisti mi pregavano di presentarli a Guy Boscart, a loro parere il primo disegnatore del Belgio! Esageravano, ma era divertente, follemente, come l'anno precedente, quando esibivo, ai pittori, scultori e altri artisti le mie terrecotte ed essi gridavano allo scandalo, alla polizia, pronti a battersi perché non era arte!

Tuttavia la mia "Maison à l'Orée" a La Hulpe, diventava un luogo di pellegrinaggio dove si andava a rifarsi i nervi con la discussione pro e contro l'arte. Ma i meglio intenzionati avevano così paura dei "cosa diranno" e dei "cosa si fa a Parigi, a Berlino"!

L'arte non mi interessa che come fantasia, piacere di lusso. Il mio stile? Imbecille unilaterale! - Nemmeno bilateralmente ma come l'esplosione dei missili di un fuoco di artificio - 69 commutatori in una sala di spettacolo che spengono e riaccendono 69 luminosità - o più semplicemente la porta di una classe froebeliana, che si apre a metà tempo e la folla variegata dei marmocchi che sciama sul prato. Come due piani, tre piani, Signore? - Poliedrico! E insieme a tutto questo la concisione che si riferisce all'intuizione del lettore per afferrare il filo dei pensieri che si affollano all'uscita del tubo, nel quale secondo il sistema "Wirel wireless", sono state rialzati da uno a 270 HP. E scoppiano allora su dei piani multipli, essi si incontrano e e producono dei corto circuiti e il resto...

A Parigi, dovevo scoprire presto che ero ben lungi da Dada. Una distanza come diceva Cocteau dall'estrema sinistra all'estrema destra ci separava. Ero d'accordo con Carl Einstein quando mi scriveva che "Dada è un gioco di parole che loffa troppo lontano!". Infatti, perché il gruppo dei dadaisti stupiva il borghese di Parigi, con gli stessi mezzi

che impiegava questo borghese, e da molto tempo, ma superiormente allora, per sfruttare la sua ideologia borghese. Sin da allora Dada aveva veramente perso la sua ragione di essere, vero Madame Sternheim.

A molti dadaisti mancava certamente un criterio chiaro e netto. Non sapendo molto bene ciò che essi volevano, erano trascinati dalla corrente, che cercò di ristabilire il vecchio equilibrio del 1914. Essi proclamarono la negazione e passando all'affermazione per se stessi, lo facevano a rimorchio di Gide o vagamente di Stéphane Mallarmé. Dada non era più, in ultima analisi, che Tam-Tam Réclame.

E allora giunse... il lunedì 25 aprile 1921, dopo la riunione bisettimanale, e il pranzo, e il baccara, presso il "Certà". Era mezzanotte ed eravamo: 2 dame, i Turco, e 9 dada - e quella notte memorabile accade quel che doveva accadere...

Un portafoglio di cameriere di caffè rubato - oh! la storia è troppo lunga. - Ed ho assassinato Dada! -

(Al contrario della relazione di Pierre de Massot nel suo articolo "Dada", in questo stesso numero, non ho dunque seguito il il movimento di Picabia. Mi sono, infatti, ritirato da Dada, quella notte del 25 aprile. Picabia se ne staccò, con un articolo in Comoedia, l'11 maggio 1921).

Né il pubblico, il che è comprensibile, né la critica, il che è inammissibile, se vuole passare come competente - non hanno mai afferrato il significato di Dada. Le risposte all'inchiesta della Revue de L'Epoque "Si devono fucilare i Dadaisti", lo dimostra una volta di più, e a oltranza, le risposte dei due Belgi sono là a provare che i Belgi erano i più ignoranti ed anche i più aggressivi. Ma basta ora e malgrado tutto Dada è esistito ed esiste. Come sempre, alcuni aspettano le opere, così come vi sono altri che aspettano il Messia, mentre le opere sono là. E poco importa che esse non siano che una curiosità... provvisoriamente!

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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31 marzo 2015 2 31 /03 /marzo /2015 06:00

DADA

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DADA nome maschile. Linguistica. Termine infantile o scherzoso, di cui ci si serve per indicare un cavallo. || Bastone sul quale un bambino si mette a cavallo.

 

- Figurativamente Idea fissa, inclinazione, progetto che si vagheggia e al quale si torna incessantemente. Ognuno ha il suo Dada.

 

- Crostaceo Nome volgare del Lyret, piccolo granchio che vive sulle coste della Manica, e che i pescatori impiegano come esca dopo averlo schiacciato. || Essere astuti come un dada schiacciato. Si dice, per ironia, nei dintorni di Boulogne-sur-mère, di una persona estremamente semplice.

[A cura di Massimo Cardellini]

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3 febbraio 2015 2 03 /02 /febbraio /2015 07:00

Al Tempo dell'Occhio Cacodilato

 

Panorama bio-icono-bibliografico dei sessanta firmatari di L'Occhio Cacodilato di Francis Picabia (1921)

 

 

Foto di un luogo mitico

Fabrice Lefaix

Mentre non me lo aspettavo, ho ricevuto il catalogo dell'esposizione "Au temps du Bœuf sur le Toit" [Al tempo del Bue sul Tetto].

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Soddisfatto (per avervi scoperto alcuni documenti che non conoscevo), un po' deluso (di non trovare, ad esempio, la riproduzione del pezzo 249 dell'esposizione: Carta dei champagne del "Bœuf sur le Toit", illustrato da un disegno di Jean Cocteau) e contento (di constatare che le notizie di alcuni firmatari di L’Œil Cacodylate rimangono relativamente brevi). Meravigliato di trovare la riproduzione di un guazzo di Jean Hugo (sfortunatamente in bianco e nero), una delle sue ultime produzioni, e giustamente dedicate all'interno di Bœuf sur le Toit (lato Bar).

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Jean Hugo, Ricordo del Bœuf sur le Toit, aprile 1981.

Nel suo guazzo, Jean Hugo ha rappresentato L’Œil Cacodylate (sul quale credo di riconoscere i nomi di Tzara, Milhaud e De Massot) appeso al muro destro, vicino al piano sul quale suonano Clément Doucet, poi Jean Wiéner, il quale comporrà la musica del film Touchez pas au grisbi nel 1954. Dettaglio importante, e che contraddice la leggenda di una delle rare fotografie (1924- Man Ray?) prese all'interno di Le Bœuf sur le Toit:

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"Si riconosce a sinistra, seduto sotto L’Œil Cacodylate di Picabia, Louis Moysès […]. Ora, dopo la scoperta di questa foto, mi è sempre sembrato che Louis Moysès era del tutto semplicemente seduto sotto uno specchio. Una riproduzione ingrandita di questa foto figura nel catalogo Artcurial e permette di constatare i riflessi delle bottiglie allineate sul bar. Ma è probabile che L’Œil sia stato protetto da un vetro. Si deve dunque non fidarsi della memoria di Jean Hugo, che pone L’Œil sul muro di destra? Dettagli insignificanti!

Il balletto Le Bœuf sur le Toit, da Youtube, parte I

Infine, altra sorpresa, questo disegno accompagnato da un ritratto collage di Maurice Sachs nel 1925: "mio caro Raoul [Leven] perché pensi a me e al [Bœuf sur le Toit] durante il suo bel viaggio".

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Ho posto in rilievo, una volta di più, gli stessi rimpianti, gli stessi ricordi evocanti Le Bœuf sur le Toit, nel far credere che questo luogo, in questi anni venti, fu teatro di una vita magnifica e priva di preoccupazioni. Ho ripensato al testo di Roland Barthes (Au "Palace" ce soir - 1978 - Œuvres complètes, tome V, pp 456-458, Le Seuil).

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e mi sono chiesto cosa poteva essere un luogo mitico (come lo fu Le Bœuf sur le Toit) oggi

 

[Traduzione di Massimo Cardellini]

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31 gennaio 2015 6 31 /01 /gennaio /2015 07:00

Anicet o il panorama

ANICET, Aragon

Innanzitutto, è bene dirlo, Anicet ou le panorama roman, [Aniceto o il panorama romanzo] è un testo esaltante. Per la sua vivacità, l'eleganza della scrittura, la continua invenzione che vi presenzia, e il gioco, gioco grave spesso, anche crudele più spesso ancora, disperato e quasi disperante per il lettore, ma allo stesso tempo frivolo, saltellante, allegro nel suo furore iconoclasta, incanta ad ogni frase, sconcerta, interroga. Annega il lettore nella sua logorrea e lo fa ridere da scoppiare alla minima tregua che gli accorda prima di rituffarlo nel flusso vorticoso della sua prosa e di lasciarlo, del tutto stordito in fondo alle sue ultime parole "Il signor Isidore Ducasse, anziano ricevitore del registro, un ben degno uomo".

Che l'autore dei Chants de Maldoror [Canti di Maldoror] sia giudicato "un ben degno uomo" non può che dar gioia al lettore.

 

Redazione e pubblicazione

La storia è redatta tra il 1918 e il 1920, il dettaglio di questa redazione si complica con le diverse testimonianze che lo stesso autore ha dato in diversi momenti della sua vita (Aragon ha redatto almeno quattro chiavi a proposito di questa storia) Sembra tuttavia certo che l'ha cominciata nel 1918 (o in settembre, ancora al fronte, o in novembre quando egli è in Germania con le truppe di occupazione), che vi ha lavorato soprattutto durante il 1919, che ne ha molto discusso con Breton, il che mette un po' a mal partito la legenda di un Aragon franco-tiratore del surrealismo prima ancora che quest'ultimo si sia un certificato di nascita.

Queste discussioni sono indubbiamente all'origine di una specie di rottura percepibile nello svolgimento del testo di cui lo slancio iniziale (la ricerca della Bellezza) si frattura in perdita irrimediabile, alla fine del sesto capitolo. Con ciò, Anicet testimonia di una circostanza - ma Aragon rivendicherà sempre per i suoi scritti poetici o non il peso dell'epoca in cui nascono - dapprima quello del disorientamento di una giovinezza che la guerra, la distruzione sanguinaria di un mondo ai cui valori essa non crede più, ha lasciato priva, ma anche di un'inquietudine che è propria della gioventù qualunque siano i tempi, l'inquietudine del "recupero". La generazione precedente, quella dei loro padri, Valéry, Gide, Apollinaire (che è salvato da questa diffidenza generazionale solo per la sua brutale nel 1918) li hanno accolti come dei figli prodigi (e non prodighi), hanno loro aperto le porte della giovane NRF, Valéry ha battezzato la loro rivista, Littérature (marzo 1919) e hanno paura di smettere di essere i sediziosi che essi vogliono essere. Per sfuggirvi, ci si deve radicalizzare, rifiutare di inserirsi in qualche filiazione qualunque essa sia. La storia di Aragon testimonia allo stesso tempo di questa volontà di affermare una rivolta permanente dunque irrecuperabile, rompendo tutto, e, come malgrado lui, dell'impossibilità di scrivere sfuggendo alle eredità. Il testo è, infatti, intrecciato di riferimenti, di allusioni allal letteratura passata (intertestualità) che né l'ironia né l'umorismo riescono eliminare del tutto.

Nel settembre del 1920, i due primi capitoli escono sulla NRF con il titolo "Toutes choses égales d'ailleurs" [a prità di tutte le altre circostanze]. Nel marzo 1921, il romanzo esce da Gallimard, con un titolo amputato della sua ultima parola "romanzo". La pubblicazione dell'estratto, come il romanzo stesso, recano in epigrafe, la riscrittura di una frase di Tristan Tzara, tratta dal Manifesto Dada 1918: "L'assenza di sietma è ancora un sistema, ma il più simpatico" ("Je suis contre les systèmes, le plus acceptable des systèmes è quello di non averne nessuno" T. Tzara).

Il titolo

A prima vista, non vi è nulla di più convenzionale di questo titolo. Anicet è visibilmente un cognome, è anche un nome di cui si trovano tracce nel calendario, esso annuncia, come è abituale nel genere romanzesco, un personaggio principale, precisato maschile, socialmente indeterminato. Rari sono di fatto i titoli che si limitano a un nome, Armance (il primo romanzo di Stendhal, e negli anni cinquanta, Aragon riconoscerà l'importanza di quest'ultimo nel suo universo letterario), Lélia (Gèorge Sand) che è anche in ricerca-inchiesta poetica allo stesso tempo di una meditazione su una scelta di vita e ciò che ne diceva Gustave Planche, nel 1833, potrebbe anche definire il testo di Aragon quasi cento anni dopo: "L'esposizione, il nodo, la peripezia e lo scioglimento di questo dramma misterioso si disegnano e si compiono nelle pieghe della coscienza". Qui si ferma la somiglianza.

Il termine "panorama" che segue la "o" di identificazione (messa in bell'evidenza dalla tipografia della copertina della prima edizione) propone al lettore di scoprire attraverso un personaggio il quadro completo di qualcosa. Il termine rimane enigmatico per la sua assenza di precisione. L'interrogazione avrebbe potuto essere rafforzata dall'aggiunta della parola "romanzo", incluso nel titolo e non posto come un sottotitolo, ma l'editore, a detta dell'autore, l'ha soppressa, forse perché la trovava inutile o forse perché inadeguata. Per il lettore di oggi, ha senso, perché sottolinea accuratamente il carattere supposto convenzionale del racconto annunciato che procede così mascherato e gli esploderà in faccia. Un lettore diffidente avrebbe potuto interrogarsi sulla scelta del nome che si presta a delle omofonie scherzose: esso nasconde la parole "asino" (âne), la parola "fesso" (nice, sinonimo di niais, invecchiato certo, ma come dice Breton da allora, Aragon ha letto tutto. C'è di che divertirsi: l'âne hissé (l'asino issato), l'âne y sait (l'asino lo sa), ma anche l'A n'y sait (l'A non sa), dove A fa eco alla prima lettera del nome dell'autore, senza contare che è anche la prima lettera dell'alfabeto, dunque il punto di partenza della scrittura.

Il titolo è dunque una trappola, anche se il racconto fornisce un modo di panorama, o uno stato dei luoghi letterari dell'anno 1919, e se, per certi aspetti, gioca bene con le caratteristiche tradizionali del romanzo, perché possiede dei personaggi e anche una specie di intreccio che si costruisce dapprima intorno a un romanzo di formazione (Anicet alla ricerca della bellezza moderna, perché è poeta, e che la funzione del poeta, come ha detto Apollinaire, è di svelare la Bellezza ancora non vista), poi un romanzo poliziesco in cui non mancano né gli omicidi e nemmeno la corte d'Assise.

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Louis Aragon, nel 1919, al momento della redazione di Anicet
Organizzazione del racconto
anicet-cover.jpgLo scrittore ha distribuito il suo racconto in 15 capitoli dotati di titolo. Questi titoli giocano con tutte le possibilità del rapporto titolo-contenuto, dal riassunto (capitolo 2 "racconto di Anicet") all'enigma da risolvere attraverso il gioco di parole (capitolo 5 "La carta del mondo" in cui carta ha il doppio senso di rappresentazione geografica e di carta da gioco) persino il simbolo (capitolo 9 "Decesso"). Il racconto è affidato ad un narratore onniscente che si concede tutte le libertà che gli aveva dato Stendhal dopo Diderot, interventi che denunciano la narrazione, commenti sul personaggio principale o sugli altri, spostamenti verso la focalizzazione interna, persino esterna, il narratore è tanto disinvolto quanto il suo racconto.
 
Dal primo al sesto capitolo, Anicet, che è stato riconosciuto "poeta", mandato dalla sua famiglia in un viaggio che essa spera salvifico (si ricordi Baudelaire imbarcato a Bordeaux), si cerca attraverso i suoi incontri, di cui il primo è quello di Rimbaud, che benché morto non per questo si esime dal raccontare la sua vita. Finisce per intravedere la sua Bellezza, apparsa in una camera d'albergo, sotto i tratti di Mirabelle (oltre a designare un frutto, questo nome reca in sé la parola "mira" che al femminile ha il senso do obiettivo, di scopo, ma al maschile quello, invecchiato di medico, senza contare che il "mira" iniziale sottintende anche il miraggio, l'illusione) che lo impegna ad unirsi alla confraternita dei suoi ammiratori che lei gli presenta mascherati. Tra di loro, un pittore, Bleu, che sembra quello più prossimo a conquistarla. Fatta questa scoperta, Anicet deve scegliere la sua via, quella dell' "uomo povero" (il poeta nella sua mansarda, vecchio stereotipo romantico) o quella del "mondo", del successo sociale, del denaro, constatando allora che Mirabelle non è altro che una donna del mondo (il che non è privo di richiamare i desideri di Valentin in "La pelle di zigrino" di Balzac, nei confronti di Foedora).
 
Il sesto capitolo è una discussione nel cinema con uno dei membri del gruppo, Baptiste Ajamais, che biasima severamente le tentazioni di Anicet mentre assistono sullo schermo alle nozze di Mirabelle e di un miliardario. Così, la bellezza moderna non è né da conquistare e nemmeno da inventare, è da comprare. La ricerca si ferma dunque bruscamente. Che Rimbaud appaia all'inizio di questa ricerca della Bellezza invita il lettore a ricordarsi di Une saison en enfer [Una stagione all'inferno] che inizia così: "Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s'ouvraient tous les coeurs, où tous les vins coulaient. / Un soir, j'ai assis la Beauté sur mes genoux. – Et je l'ai trouvée amère. – Et je l'ai injuriée(Un tempo, se ricordo bene, la mia vita era un banchetto in cui si aprivano tutti i cuori, in cui tutti i vini scorrevano. / Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. E l'ho trovata amara.  - E l'ho insultata"). Così Anicet... si presenta, a sua volta, come una nuova discesa agli inferi, da cui nessuna Euridice, tuttavia, non potrà essere riportata indietro. Non rimane che l'azione.
I nove capitoli seguenti sviluppano un "romanzo nero" e burlesco nel quale Anicet uccide il fisico Omme, deciso a rapire Mirabelle al suo ricco marito, poi diventa l'accolito di una banda di ladri il cui capo è un altro membro della confraternita delle maschere, il marchese della Robbia, ambasciatore, collezionista e ladro, prima di essere spinto all'assassinio di suo marito da Mirabelle, la qual cosa non porterà bene a compimento, Pedro Gonzales si sucida infatti sotto i suoi occhi. È arrestato, processato, e ritenuto l'autore di tutti gli omicidi che non ha commesso ma di cui si fa carico, perché la verità non mancherà di farsi sentire. Tutto finisce, naturalmente, al café du commerce. 
L'estetica cinematografica
Ma l'apparente strutturazione lineare, già messa a male dalla rottura del sesto capitolo che fa scivolare la narrazione da un genere all'altro, quello del romanzo di formazione a quello del romanzo poliziesco, lo è ulteriormente per il dialogo che intraprende con l'arte moderna per eccellenza, il cinema. Non soltanto perché il cinema (come luogo) è al centro del sesto capitolo, ma perché il romanzo si organizza in sequenze in cui la concatenazione giustapposta fa pensare al montaggio cinematografico. Il cinema raggiunge d'altronde il sogno su questo piano: si passa ad esempio dalla camera dell'uomo povero attraverso il fumo profumato del sigaro di Bleu al lusso di un Club elegante prima di passare da quest'ultimo, aprendo una porta, nella sala di un dancing.
 
Tra i registi del tempo che incenseranno d'altronde i surrealisti, si deve pensare a Louis Feuillade, ad esempio a Trust (1911) o alla serie dei Fantomas (1913-14). Numerose scene che compongono Anicet... riflettono l'estetica che dispiega il cinema ai suoi inizi, ogni gesto, ogni atteggiamento doventesi disegnare sino alla caricatura per compensare l'assenza della parola. D'altronde, se il personaggio della dona fatale è stata inventata dai Simbolisti, alla fine del XIX secolo, il cinema se ne è impadronito e gli ha dato delle incarnazioni che porterà ben oltre gli anni venti, associandolo nel vocabolario, la vamp, al personaggio (Irma Vep, anagramma evidente di vampiro) incarnato da Musidora in Les Vampires (Feuillade, 1916).
Mirabelle è una vamp letteraria e la bellezza da essa incarnata sino alla degradazione deve altrettanto all'indagine poetica quanto a queste immagini preso in prestito dagli schermi dell'epoca. 
Le chiavi

Aragon ha scritto quattro testi per spiegare questa sua narrazione, due sono conservati alla Bibliothèque Doucet, perché sono stati scritti dietro richiesta dello stesso Doucet, il primo che sembra contemporaneo del romanzo, l'altro ha come titolo "Anicet 1923", gli altri due provengono dalle carte dell'autore, l'ultimo è stato pubblicato nel 1983 (un anno dopo la morte dello scrittyore in Digraphe, rivista fondata nel 1974 da Jean Ristat, erede di Aragon), non si sa quando esso è stato scritto. Queste "chiavi" ci sembrano avere unicamente che un carattere aneddotico, e arrivano tutt'al più a confortare l'idea che uno scrittore impiega ogni mezzo, compreso elementi della propria vita. Che "Bleu" abbia come pilastro Picasso viene tutt'al più a dirci dell'ammirazione, venata di scetticismo, del giovana Aragon per colui che è già riconosciuto come un maestro negli anni venti. Che si debba riconoscere Breton in Baptiste Ajamais, il suo ritratto ne dava già ampie indicazioni: "Non poteva non essere nato alla fine di un grande fiume, in qualche porto dell'Oceano perché i suoi occhi assumessero quella luce grigia e che la sua voce acquisisse certe sonorità di conchiglia quando diceva: il mare" (capitolo 6). Che il "povero uomo" si disegna a partire da Max Jacob, non è di una qualche importanza per la comprensione di un testo che non ha come obiettivo di raccontare degli aneddoti.

È più interessante constatare questo ritorno dello scrittore su una delle sue prime opere, come se essa stessa fosse una "chiave" per lo stesso scrittore. Di fatto, Anicet..., nel quale i giochi di maschere sono continui, nel quale nessuno dei personaggi non è mai ciò che sembra, in cui l'eliminazione di una maschera non fa che svelarne un altra, ci informa forse che la scrittura è sempre una trappola. Tutto è finto, verità che diventa menzogna ma anche menzogna che dice la verità. Anicet stesso, esitando dapprima quando si accorge che i quadri che sta per rubare sono quelli di Bleu, scopre il piacere di tradire, la voluttà di tradire, come Baptiste Ajamais brutalizzando Mirabelle (qui ancora un luogo comune: il furfante che maltratta la donna di mondo che si dà con delizia) affinché salvi Anicet, poi scrivendo al procuratore della Repubblica per denunciarla; Miranda, poi Mirabelle, tradiscono il loro amante e marito, l'inganno è sempre il fondo dei rapporti umani e il desiderio perpetuamente ambivalente. Quest'ambivalenza dei sentimenti di cui Freud ha potuto riconoscere la profondità è anche una "chiave": "Non vi è amore felice" scriverà il poeta al cuore stesso della celebrazione dell'amore e della donna amata.

D'altronde, permette senza dubbio di capire che l'amore e la poesia rispondono allo stesso desiderio, quello di una pienezza, di una fusione che abolirebbe la solitudine essenziale dell'uomo che è, infine, quella di tutti i personaggi del racconto.

È forse d'altronde Anicet..., che propone una chiave per gli ultimi dieci anni della vita di Aragon che hanno fatto tanto scalpore nella cronaca. Il racconto infatti si chiude sul "café du commerce de Commercy" dove degli uomini invecchiati si ritrovano intorno ad un tavolo dove giocano a maniglia, vecchi poeti diventati impiegati d'ufficio. La minaccia aleggia sui poeti da molto tempo più in là di Rimbaud poiché Murger, in Scènes de la vie de bohème (1851) ne suggeriva già l'orizzonte. Non vi è per i poeti futuro se non nella corte d'Assise (Anicet) o nel conformismo (tutti gli altri), riteniamo che Aragon deve aver avuto dei brividi di orrore all'idea di "sistemarsi", come si dice nella lingua corrente e che tutto, assolutamente tutto, valeva meglio di questa "fine", e viva il caos che è una festa, o la festa che è un caos.

[Traduzione di Massimo cardellini]

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31 dicembre 2014 3 31 /12 /dicembre /2014 07:00

 

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ZINZIN



Zinzin fu una negazione.

A sua madre secondo la carne, egli poté opporne una secondo il desiderio. Lamprido non conobbe mai sua moglie se non secondo il metodo ancestrale del buon papà. Una Picarda gli aprì, spalancandogliele, le porte della scienza che essa aveva preso da mastro Nicolas Chorier. È così che Lamprido giunse ad opporre, al no energico della sua sposa, un sì categorico. E invece della rovina che affermava, da un vasto rococò, la morte — Zinzin fu generato, negativamente, e come da Lamprido uno sputacchio umoristico.

Nel periodo della gravidanza, la madre fu avida come una lupa. Lamprido cantò, per i nove mesi, un coro novenario di umanitaria sentimentalità.

Fu il tempo in cui l'autosuggestione sfociò nell'autodistruzione. Il vero era diventato verosimile. Alla foresta dei fuochi incendiarono le nubi; i boscaioli costruirono delle stelle. Un fragore di bomba scavò, ad intervalli, un buco nella calma. Il silenzio della casa tenne dei colloqui contraddittori al silenzio dello spazio.

Al termine della gravidanza, la scienza medica pronosticò un aborto o qualcosa che vi si avvicinava. Durante il parto, furono in quattro a tirare. Secondo la testimonianza degli assistenti, Zinzin somigliava, in dimensioni, a una testa di elefante.

Lamprido si estasiò di fronte alla sua opera e fece "L'apologia della pigrizia". E E per allontanarne definitivamente i minimi malefici del volgo, gli trovò, come padrino, una giovane mistura di israelita, e , come madrina, un'attricetta, i due, nel loro campo reciproco, a disposizioni apprezzabili.

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A quattro mesi, il neonato abbozzò una risata davanti alle sue dita danzanti. Lamprido mostrò a suo figlio i prosperi simulacri.

— Guarda, disse, e rise.

— La bruma ovattata della segale. Le stelle bruciano un piccolo forno conico. La luna esibisce una libbra di burro. Lo scultore modella dei pani di zucchero. Il pittore accenna dei Chateaubriands con pochi tratti. Il lastricato incolla dei grappoli di grasso al tallone della camminatrice. Un filosofo chimico seziona l'intestino del lombrico, inventando di estrarre della terra l'alimento condensato. Alla roulotte, scintilla una fiamma su una bottiglia vuota. Nelle paludi, i mercanti cercano di prendere con la rete il germe dei fuochi fatui. I naturalisti selezionano dei lampiridi, per sostituire l'illuminazione. Le galline spiano le mele marce, dimenticate sulla cima dell'albero. La notte ostenta del carbone. La figlia del marciapiede si impegna parlando patate. Bisogna guadagnare il proprio pane quotidiano. Scacciate dal vento, le foglie cercano nei fossi una tomba. Esse chiudono le buche perdute in cui i gatti, in agonia, si inumano. Tutti i rumori del mare soffiano sugli alberi. Le casalinghe, attingendo dell'acqua alle pompe municipali, fanno ritorno, il vento nei vestiti, come dei pennoni su dei velieri. Al cadere della notte, tutti i pezzenti, nella loro bicocca, diventano capitani: chiudendo le quattro mura, il loro sommergibile si immerge, e si si compiono dei viaggi sottomarini.

Ascolta i rumori delle industrie di guerra, rumori di motori che ronzano, di bombe che esplodono. Missili, raffiche, mitraglia.

Un merlo disertore si nasconde ai piedi della siepe.

Il poppante, le due mani in bocca, proclamò il suo manifesto della verità in un pancotto.

— L'inverno, la foresta esibisce un'architettura di arabeschi, nero e bianco. Occorre — dice Lamprido — una curiosità insaziabile. Un fringuello, dietro un asino, griga, piange carestia. La luna illumina il giorno. La gallina modella delle stelle nella neve. Il cavallo ritaglia, sulla strada, delle mezzelune.

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Il commesso del caffè, la mattina all'apertura, legge sui vetri, le immagini eterniste delle notizie sensazionali, propagate la vigilia. Il giorno di santa Caterina, le vecchie ragazze si tirano su i capelli grigi e si insaponano la barba. Il vento sui viali, gioca con delle spade. I tremanti ricevono l'abbraccio - cavalieri della miseria.

Il marmocchio di sei mesi sorride, quando suo padre consigliò di strappare la luna perché essa esibì dei muscoli di gallina il biancore.

Quando la madre svezzò il bambino, fu dopo tanto tempo la carestia. Una vecchia signora della Somme, rovinata durante la guerra, gli insegnò a mangiare delle mele e delle pere, delle uve e delle nocciole — e in inverno — delle rape, delle carote, delle patate al sale e del pane raffermo ben bagnato. Ad ogni pasto, diceva — buono ancora. — Amava mangiare bene e fare una "bella cacca". Così divenne grasso e grande e una negazione della miseria.

Nell'età dell'incoscienza, fu la gioia della coscienza.

— Spiega dunque, dice Lamprido, mostrando alla madre, Zinzin, che marciò, sempre e dappertutto dentro la casa, dietro suo padre — spiega dunque al mio doppio, tutte le teorie nuove e antiche della religione e dell'anima. — Inutile è il commento minimo.

A due anni, negò tutto. Ad ogni definizione, oppose un non volontario. Sua madre, ricordandosi del concepimento, ne fu fiera.

Ebbe luogo, in quel tempo, il sublime sbandamento dei vinti. Innumerevoli truppe di materiale, animale e umano, si riversarono in tutte le strade e sollevarono nubi di polvere, che era semplicemente del verminaio. Zinzin, a sua volta, fu infettato. Avere pulci fu la moda di quel periodo di transizione.

Lamprido preparò dei bagni solforosi. Lavando suo figlio con la spugna tra le gambe, credette di concludere che Zinzin era predisposto all'onanismo e danzò con lui il pan-pan.

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Pan-pan. Pan-pan
che un giorno andrai in prigione, giurerai

 A diciotto mesi, mio padre me lo cantò

Pan-pan. Pan-pan

Che un giorno andrai all'ospedale, sputerai

A diciotto mesi mio padre me lo blasfemò

Pan-pan. Pan-pan
Se un giorno ti rinchiuderanno in una casa per alienati

Canterai a diciotto mesi, io l'ho ballato

Pan-pan, Pan-pan

Polyfonia, polifollia

 Pan-pan

 Mia madre è una santa!

 Pan-pan

Mio padre è un café-chantant

Pan-pan-pan.
 

Clément Pansaers
 
[Traduzione di Massimo Cardellini]
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